Butcher’s Crossing

Le parole non ci appartengono. Più avanzo nel mio lavoro, più mi accorgo dell’inconsistenza di tutte quelle espressioni come “nelle parole di quell’autore” o “con le mie parole ho voluto dire”. Che importa di ciò che hai voluto dire? Quello che conta è ciò che le parole – le parole – esprimono. Può essere ciò che hai voluto dire oppure no; nel migliore dei casi, è ciò che hai voluto dire con qualche cosa in più, quell’imponderabile, quel supplemento di significato che misteriosamente si annida in ogni sillaba che pronunciamo.
IMG_3706In questi giorni mi capita di parlare con i lettori del romanzo L’arte del fallimento, o di leggere qualche recensione sui giornali e su internet. Sono utili questi scambi, questi confronti? Credo di sì, proprio perché quel libro non mi appartiene. Nella mia mente sto seguendo il ritmo di una nuova storia: di quella non parlo con nessuno (nemmeno qui, dove siamo tra di noi…); ma di una storia già scritta si può discutere, e spesso mi capita d’imparare qualcosa.
Ieri, per esempio, mi hanno inviato un articolo apparso nel blog “unreliablehero” (lo trovate qui). È una bella recensione, che coglie alcuni aspetti per me essenziali del romanzo. A un certo punto l’autrice, che si firma come “Benny”, riporta una frase del romanzo: Perché è la cosa più difficile, sai? Dire: ho perso. Quello che passa, lasciarlo andare… Senza cancellare il presente, senza crogiolarsi nei sogni di rivalsa… perdere e basta, perdere e rimanere. Avere il coraggio di rimanere. In un primo momento non ricordavo di averla scritta, poi mi è tornato in mente che sono parole del vecchio Giona. Il coraggio di rimanere. Mi sono detto: ecco un tema che avrei potuto sfruttare meglio. Dopo un fallimento, dopo l’esperienza della morte, della sconfitta, della disillusione, che senso ha il gesto di rimanere? Non è nemmeno un gesto, a pensarci bene: è solo stare lì, senza fuggire. Ma sarà vero? Ogni tanto, invece, per fortuna, mi pare che il fallimento sia l’occasione per andarsene, per tagliare i ponti e per ricominciare. E tuttavia: è davvero possibile ricominciare da capo? Non si ricostruisce sempre sopra una rimanenza, sopra le macerie?
IMG_5746Seduto in balcone, sotto un maestoso passaggio di nuvole, ho riflettuto su questi argomenti. Mi sono venuti in mente altri autori e altre storie. Qualche settimana fa ho scritto per il sito “Il Libraio” un articolo in cui presentavo qualche consiglio di lettura. Il pezzo s’intitolava Sette lezioni di fallimento (lo trovate qui). Gli scrittori andavano da Thomas Mann a P. G. Wodehouse. Ecco le sette “lezioni”:
1) Come fallire in maniera grandiosa
2) Come accettare il fallimento
3) Come rialzarsi dopo i fallimenti
4) Come fare del fallimento un’arte
5) Come fallire un’indagine
6) Come trasformare il fallimento in eroismo
7) Come ridere del fallimento.
Riflettendoci ora, mi ricordo un libro che avrei potuto aggiungere alla lista: Butcher’s Crossing, di John Williams (uscito per la prima volta nel 1960, pubblicato in italiano da Fazi nel 2013). È la storia di un ragazzo che nel 1873 parte da Boston e raggiunge le terre selvagge del West. Nel corso del romanzo compie un’immersione nella natura, in un confronto serrato con i suoi limiti e le sue paure. Partecipa a un’epica, immensa caccia al bisonte ed è costretto a misurarsi con la dimensione del fallimento.
FullSizeRenderNon vi dico altro, per non guastarvi la lettura. Aggiungo soltanto che a un certo punto il ragazzo se ne va, ricomincia, cavalca verso posti nuovi. Però non torna a casa, a Boston, dove potrebbe avere una vita di ricchezza e successi. Ha il coraggio di rimanere in una terra dove non ha certezze e non è nessuno, ma dove – forse proprio per questo – ha qualche possibilità d’incontrare sé stesso.
Una sottile striscia di sole infiammava l’orizzonte a est. Si rigirò e guardò la pianura davanti a lui, dove la sua ombra si proiettava lunga e liscia, con i bordi frastagliati dall’erba appena nata. Le redini nelle sue mani erano dure e lucide. Sotto di sé sentiva bene la sella, liscia come la pietra, e i fianchi del cavallo che si gonfiavano appena, mentre inspirava ed espirava. Fece un bel respiro inalando l’aria fragrante che saliva dall’erba fresca, mischiandosi al sudore umido del cavallo. Strinse le redini in una mano, sfiorò coi tacchi i fianchi dell’animale e cavalcò verso l’aperta campagna. Tranne che per una direzione di massima, non sapeva dove stava andando. Sapeva solo che gli sarebbe venuto in mente in seguito, nel corso della giornata. Proseguì senza fretta, sentendo sotto di sé il sole che si alzava lentamente e scaldava l’aria.

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3 pensieri su “Butcher’s Crossing

  1. Tutto è talmente opinabile … inerente il momento e soprattutto la percezione, il modo in cui lo si vive, quel momento… Come sapere se si tratti di fallimento, visto che noi ci si trova pur sempre dentro “il libro” fintanto che siamo vivi? Quante volte, qualcosa che consideravamo essere un successo -piccolo o grande o medio- rivelava poi in seguito le sue ombre e sorprese… Lo stesso per quello che ci pare poco o fallito, può accenderti il motore dentro della riscossa e tirarti fuori quel meglio di te che neppure sospettavi di avere dentro. Siamo insomma dentro il percorso e non è mai detta l’ultima parola… E tuttavia, continuiamo a infilarne ogni giorno, di parole, sulla lista delle nostre percezioni, interpretazioni, pensieri ed esistenze…

    1. Sono d’accordo. In fondo, non si dovrebbe appiccicare con facilità le etichette di “fallimento” o “successo”. Sono soltanto fatti, cose che succedono e che noi – con tutti i nostri limiti – cerchiamo di accettare, di superare, di combattere o di replicare. Oppure, più semplicemente, di conservare sotto forma di parole…

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