Il castello e

Oggi sono troppo stanco per scrivere.
Ci provo, in effetti lo sto facendo, ma l’Andrea che scrive è poco più di un gesto. È la schiena che cerca una posizione, sono le dita che premono sulla tastiera. È sempre così: una lettera dopo l’altra. Ecco, ho già scritto cinquanta parole, senza contare gli articoli. Non è difficile. Basta non pensarci.
Stamattina presto ero in onda alla radio, e per quattro ore non ho parlato con nessuno (tranne un rapido saluto all’addetta alla sicurezza). O almeno, questa è la mia impressione: un lungo passaggio silenzioso. In realtà ho parlato, naturalmente. Ho posato l’indice sul pulsante rosso del microfono e ho parlato. Ho anche intervistato degli esseri umani. Ma parlare nel microfono mi sembra solo un’altra forma di silenzio, più ambigua, più elusiva. E ora? Continuo a tacere e continuo a premere tasti. E fuoriescono parole, molto più di cinquanta, non sto a contarle.
Ma insisto: è solo un modo per tacere. La scrittura per me è ascolto, piuttosto che espressione. Naturalmente finisco per dire qualcosa, ma per riuscirci devo prestare attenzione a ciò che si muove intorno a me, dimenticandomi. Poi devo paragonare i suoni, le meraviglie, le ferite del mondo a ciò che d’inesprimibile accade dentro di me. Insomma, scrivere è un modo per essere attenti. È come quando a scuola prendevo appunti non tanto per rileggerli in futuro, quanto soprattutto per non addormentarmi durante la lezione.
Nessun racconto dice mai l’ultima parola. Nemmeno quelli con un finale perfetto. È dopo, nel silenzio, che i personaggi compiono il loro destino, all’insaputa di chi scrive e di chi legge. Ci pensavo proprio stamattina, sempre alla radio, quando parlavo di Franz Kafka. (Lo so, non si dovrebbe parlare di Kafka prima delle otto del mattino, ma proprio oggi si celebrano i cento anni dalla morte.)

A lungo ho avuto una certa ritrosia nel leggere Kafka. Ero frenato dall’aggettivo: “kafkiano”, con tutto il suo strascico di compiaciuta erudizione. Ma poi ho pensato che non è colpa di Kafka se l’hanno aggettivato. Ora lo leggo spesso, soprattutto i racconti brevi e gli aforismi. In particolare apprezzo i frammenti incompiuti. Come questo, per esempio: «Chiesi a un viandante che trovai sulla strada maestra se dietro i sette mari ci fossero i sette deserti e dietro a quelli le sette montagne, sulla settima montagna il castello e».
Perché Kafka si è fermato dopo quella “e”? Aveva perso il conto? Oppure la frase non gli piaceva? Però non l’ha cancellata, l’ha soltanto lasciata in sospeso. Forse qualcuno l’ha interrotto mentre stava scrivendo. Forse aveva finito l’inchiostro. Comunque sia, quel frammento incompiuto mi pare uno dei più belli, circondato di silenzio. «Il castello e». Non c’è altro da dire, perché dopo la “e” tutti stiamo già visitando il nostro castello, che è nostro e insieme di Kafka. Siamo soli e in compagnia, scriviamo e restiamo in silenzio, diciamo senza dire.
È per questo che amiamo la letteratura.

PS: Il testo di Kafka proviene dalla sezione “Frammenti” in F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1972. La fotografia ritrae un castello e.

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Il blu e il noir

Sono seduto in una stanza fredda. Di fronte a me non c’è nessuna cosa blu. Un computer grigio, qualche libro rosso, uno marrone, uno giallo, una penna rossa, un tagliacarte argenteo. Carta bianca, camicia rossa e nera, lampada gialla. È una stanza spoglia, in una casa di montagna.  Davanti a me il muro (bianco) e una finestra con le imposte rosse dalle quali traspare il chiarore del sole. Perché dovrebbero esserci cose blu? Non lo so. Però mi dispiace che non ci siano. Certo, i miei occhi sono blu e chissà, forse improntano il mondo con la loro bluità. Nel dubbio, appoggio accanto alla scrivania la mia penna stilografica (azzurra, con inchiostro blu) e una copia di Une histoire de bleu, di Jean-Michel Maulpoix. Sfogliando il volume di poesie, m’imbatto in una frase che mi sembra adatta a inaugurare un nuovo anno: «Je contemple dans le language le bleu du ciel», contemplo nel linguaggio il blu del cielo.
Il linguaggio per me ha parecchie tinte oscure. Del resto nemmeno il cielo è veramente blu, secondo gli esperti. Ma che cosa importa? Il blu è il colore della lontananza e dell’intimità: fra questi due poli si muove il mio tentativo di dire qualcosa con le parole. Il blu è anche il colore dei fiumi, che sono i maestri di ogni narratore.

Il testo di Maulpoix contiene altre osservazioni memorabili. Traduco: «Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. […] Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani.» Se si rinuncia al linguaggio come mezzo di possesso, allora le parole saranno un modo per toccare «con le mani»; e come sappiamo fin da bambini, il desiderio di toccare le cose riflette quello di conoscerle davvero, con la nostra pelle.

Manca poco a Capodanno. Mi torna alla mente un racconto che scrissi in primavera e che, tuttavia, anticipava il 31 dicembre. S’intitola Il custode dell’abisso ed è contenuto nell’antologia Un lungo Capodanno in noir, edita da Guanda qualche settimana fa. Gli altri autori sono Gianni Biondillo, Gian Andrea Cerone, Luca Crovi, Giancarlo De Cataldo, Marco De Franchi, Diego De Silva, Marcello Fois, Leonardo Gori e Marco Vichi, che è il curatore della raccolta. La mia storia racconta di un uomo ossessionato dall’intelligenza artificiale. L’investigatore Elia Contini affronta un caso minimo, sospeso fra l’assurdo e il mistero che formano il cuore degli esseri umani. Il valore di questo libro, per me, consiste soprattutto nella possibilità di condividere la tecnica e il senso di un mestiere. Il cosiddetto mondo letterario purtroppo è spesso composto da monadi, da colossali ego che si urtano fra loro come continenti alla deriva. Una casa editrice che inviti degli autori ad affrontare un tema invita anche allo scambio, al confronto, al contatto diretto fra scrittori che vivono in luoghi diversi e che scrivono con colori diversi (ma un po’ di blu non manca mai, mescolato con il noir).
La motivazione profonda del mio scrivere discende dal mio essere lettore (e prima ancora ascoltatore e narratore di storie trasmesse oralmente). Perciò, fin dalla primavera, mi rallegravo non solo per l’opportunità di scrivere un racconto venato di malinconie capodannesche, ma soprattutto per la prospettiva di leggere i racconti degli altri, di entrare nel loro mondo. Il che è anche un modo per sentirmi meno solo.
Stamani, mentre caricavo i bagagli in automobile per salire in montagna, una delle mie figlie mi ha fatto notare come fosse nitido il mio riflesso sulla fiancata della macchina. «È quasi uno specchio!» A me sembrava molto confuso, ma ho provato a scattare una fotografia. In effetti l’immagine mi pare assai offuscata… in compenso non è priva di atmosfera. Mi colpisce la presenza dell’ambiguo e dell’ignoto. Sulla sinistra è comparso una sorta di paesaggio innevato (che non c’era) e addirittura quello che potrebbe essere un abete solitario. La casa alle mie spalle è diventata una dimora quasi spettrale. E il mio volto sfocato sembra invocare la grazia di un compimento, di un tratto che restituisca il blu allo sguardo.

Ecco, per me ogni esperienza di condivisione artistica è un passo verso il compimento. Non mi addentro nei dettagli delle singole esperienze (magari aggiungo un Post Scriptum), ma voglio ribadire che Un lungo Capodanno in noir è una di queste. Se la scrittura è la ricerca del proprio volto umano (a partire da un riflesso, da un richiamo), allora tale ricerca deve per forza implicare la presenza degli altri: prima del nostro, infatti, vediamo il volto degli altri, a partire dalla nascita e dal volto materno fino all’ultimo che riusciremo a contemplare, prima di chiudere gli occhi per sempre.
Sono partito con l’idea di scrivere qualcosa sul Capodanno e mi ritrovo a parlare della morte. 
Non era pianificato. A pensarci però mi sembra inevitabile.
Così funziona il mondo. È nella terra dura che dormono i semi, nell’aria tagliente che fioriscono i germogli. Per fortuna, il ghiaccio della pagina bianca prima o poi lascia sempre spazio all’azzurro di un fiume, anche solo di un rigagnolo. Auguro a tutte le lettrici e i lettori di questo blog un anno ricco di ruscelli, di blu, di volti da scoprire e, in generale, di meraviglia. Buon 2024!
Concludo con un estratto dal racconto Il custode dell’abisso

Ci sono persone che sono felici il 31 dicembre. Carlo ne conosceva qualcuna fin dall’adolescenza. Addirittura c’è chi a Capodanno trova l’amore, o qualcosa che ci assomiglia. Il mondo è vario: c’è chi adora il conto alla rovescia. Altri invece, presagendo la sconfitta, riescono a trovare una scusa: basta un raffreddore al momento giusto.
Carlo, invece, cominciava ad agitarsi verso la fine di novembre. Quale invito accettare? E se avesse sbagliato festa? E se fosse capitato per sbaglio a una cena fra coppiette?
Tutto questo a vent’anni è sopportabile, anzi, c’è una sorta di amaro compiacimento nel pensare a sé stesso come a un lupo solitario. A trent’anni invece sei prigioniero dei tuoi desideri, come sbarre di ferro, e non puoi evadere dalla gabbia sociale. Dopo i quaranta provi a metterla sul ridere, ma quando sei solo in cucina il mattino del 31 dicembre, dopo colazione, è difficile fingere di non sapere tutto. 
L’aperitivo, la musica sempre troppo forte, gli ehi-com’è-tutto-a-posto-non-ci-vediamo-da-un-po’, le chiacchiere sullo sport e sul lavoro, gli amici con figli e i relativi beati-voi-che-fate-festa-noi-invece-a-letto-presto. Poi la cena, l’amico esperto di vini, quello che si è comprato una barca, quello che corre in salita e sembra uno spaventapasseri, quello che produce in casa la birra e il pane. Le solite lenticchie, la solita euforia. Infine si va in piazza, dove c’è un palco con gente pagata per gridare, la musica di nuovo troppo forte, i fuochi d’artificio sul lago, oh, meraviglia, ma quanto costeranno? E la prospettiva di bere quel tanto che basta per riuscire a resistere fino al cinque quattro tre due uno, o forse un po’ di più, forse quel tanto che basta per dimenticare tutto il giorno dopo.

PS: Il testo di Jean-Michel Maulpoix è tratto da Une histoire de bleu, Gallimard, Paris 2005 (ed. orig. 1992). Si trova nelle sezione “Carnet d’un éphémère”. Ecco una traduzione dell’intera prosa.

Contemplo nel linguaggio il blu del cielo.

Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. Mi si addice la loro cecità: io sono un sognatore irriducibile. Le parole hanno un modo tutto loro per dissipare il mistero aumentandolo, e non mi rivelano niente di cui prima non abbiano deformato i tratti. Conosco i loro inganni e mi ci sono rassegnato. Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani. Anche solo per ravvivarne il dolore, concedo al linguaggio di corteggiare l’impossibile. La scrittura non è mai troppo ricca di desideri o di menzogne per chi faccia un uso tragico delle sue maschere. Sapendo la sua vanità, non vi rinuncia ma la coltiva come un veleno. Da quel momento niente l’ossessiona più di questa duplicità, dalla quale riconosce che sta diventando un uomo.

PPS: Chi legge questo blog si sarà accorto che gli aggiornamenti sono discontinui. Non è per trascuratezza, ma perché mi sembra opportuno misurare le parole. Il vantaggio di un blog, rispetto a qualunque social network, è che non chiede niente, né “like” o condivisioni, né pubblicità. Quindi pubblico qualcosa quando ne ho voglia, senza darmi nessuna scadenza.

PPPS: Una precisazione sulla creatività condivisa. Per me accade prima di tutto, e in maniera profonda, nella scrittura a quattro mani con Yari Bernasconi. Insieme abbiamo creato una “terza voce”: Yari Bernasconi & Andrea Fazioli è un’entità diversa da YB e AF intesi come autori singoli. Ma tale condivisione si è verificata anche quando ho collaborato con musicisti, pittori, registi teatrali e cinematografici. Vorrei citare almeno Marco Pagani e Fabio Pellegrinelli, con i quali ho sceneggiato La tentazione di esistere (Rough Cat 2023), un film diretto dallo stesso Pellegrinelli, che dopo avere vinto il festival di Benevento, è fra le opere selezionate per il prossimo Premio del cinema svizzero.

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Tranne il bianco

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Quarto episodio.

10) «Quel mattino avevo le dita dei piedi congelate, e non potei più camminare a piedi nudi. (Il freddo in quelle regioni è tremendo. Da quando comincia, il gelo non cessa più fino a maggio; e anche in maggio c’era ancora il ghiaccio ogni mattina, ma si scioglieva per effetto del sole, mentre in inverno non si scioglie mai, comunque tiri il vento.)»

Manca poco a Natale e noi siamo ospiti in una casa di montagna. Un luogo discreto, senza vette irraggiungibili e rocce colossali. Una montagna come molte altre, corrucciata, discosta. L’aria è fredda, ma dall’inizio dell’inverno è la prima volta che vediamo la neve. Arriva di notte, mentre tutti dormono, e all’alba si annuncia al mondo con un grande silenzio. Le finestre, con gli angoli un poco appannati, raccontano un altro paesaggio: non più case e alberi, ma forme impalpabili che sembrano fatte soltanto di luce e di respiro. Beviamo il caffè nero (senza zucchero) davanti alla finestra più grande. Entrambi stiamo pensando a Guglielmo di Rubruck. Nel dicembre del 1253 il grosso e infaticabile monaco era giunto all’accampamento di un importante capo tartaro. Com’è consuetudine dei francescani calzava dei sandali a piedi nudi. I tartari, stupiti, gli chiesero se non avesse bisogno delle dita dei piedi, visto che le avrebbe sicuramente perse. Da uomo saggio qual era, Guglielmo accettò d’indossare delle calzature di pelliccia. In seguito, il frate annotò nei suoi appunti il freddo implacabile della steppa. Era il primo Natale passato in viaggio, lontanissimo dall’Europa e da tutto ciò che conosceva. Eppure, come sempre, Guglielmo aveva la capacità di sentirsi a casa in ogni circostanza. E noi, che all’alba guardiamo il prato e il bosco da una casa calda, piena di persone amiche? Non c’è bisogno di dirci niente. Sappiamo di essere qui, ma sappiamo anche di essere là fuori, intirizziti nella neve ovattata, mentre aspettiamo i tartari. La figura di Guglielmo, quel puntino scuro in mezzo ai campi, per un attimo diventa l’unico riferimento. Lentamente ci avviciniamo, finché la sua immagine sbiadisce sotto le ciglia, scompare tutto tranne il bianco.

11) «Il mio compagno talvolta aveva una fame tale che mi diceva con le lacrime agli occhi: “Mi sembra di non aver mai mangiato in vita mia”».

– Ma la cena?
– Dai, ci sarà qualcosa di aperto.
Non è presto, ma neppure così tardi. Abbiamo appena concluso una lettura serale fuori dal centro urbano, appena sotto le montagne, e ci siamo fermati a chiacchierare. Ora camminiamo soli, nel buio, per raggiungere la nostra auto.
– Mah, sono meno ottimista di te.
– Male che vada andiamo in città.
– In città dove?
– Che ne so, tentiamo alla Valtellinese.
– Che roba è?
– Ci andavo quando lavoravo fino a tardi.
– Fanno pizze?
– Uova strapazzate, forse.
L’autostrada è ampia come uno sbadiglio. Sui lati sfilano le ombre degli alberi. Ogni tanto compare la luce di un gruppetto di case, un magazzino isolato, una strada persa fra i campi. Una ventina di chilometri ci separa dalla città e dalla cena.
– Chiamo la Valtellinese?
– Ma no, saranno aperti.
All’entrata della città, un locale a luci rosse (e verdi e blu e gialle e bianche) squarcia l’oscurità con la sua insegna: dancing. Noi superiamo due semafori e un capannone per la vendita d’automobili. Quando arriviamo alla Valtellinese, non c’è nessun segno di vita.
– Non l’ho ma vista chiusa a quest’ora!
– Ci sarà qualcos’altro, dai, siamo in città.
– Kebab?
– Ma sì.
– Mia moglie prende sempre il kebab vicino al teatro.
A un angolo di strada, un bar-discoteca serve cocktail colorati e fa vibrare le gambe con immensi woofer. I fari rosa puntano sulle poche persone che stanno ballando. Si chiama Upper Class, e noi siamo troppo down (e affamati) per fermarci a pasteggiare con due olive. Più in là c’è un altro bar dall’aria dimessa.
– Guarda. Qui ci andavo da ragazzo.
– “Il Castigamatti”?
– Un postaccio. C’è uno strazio di karaoke.
Una voce acuta, fra le altre, canta: «cercavo in te la tenerezza che non ho / la comprensione che non so / trovare in questo mondo stupido». E continua risuonare mentre ci specchiamo nella porta chiusa del Kostantîniyye Döner Kebap & Pizzeria.
– E adesso?
– È mezzanotte.
– Un nuovo giorno.
– Ma la fame sta invecchiando.
– Non ci sono altri locali?
– Qui vicino c’è il Chiquito, ma non è un posto raccomandabile.
– E noi siamo raccomandabili?
– Sì, hai ragione anche tu.
Il Chiquito è una cantina. Impossibile capire se sia aperto o chiuso. Mentre ci avviciniamo, una figura esce da un angolo nascosto. Ha i capelli quasi bianchi, ma il volto giovane e gli occhi attenti. Sorride con ironia. Ci accorgiamo che in fondo alla scala, dalla porta socchiusa del Chiquito, filtra una sottile linea di luce. C’è pure una nuova insegna, che appare incomprensibile: татаруудын цөл. La vernice sembra fresca, come se l’avessero appesa oggi stesso.
– Siete arrivati, finalmente.

12) «Quando vidi la corte di Baatu rimasi sgomento, perché già solo le dimore di sua spettanza sembrano come una grande città distesa in lunghezza».

È già trascorso un anno. Ancora confondiamo la steppa e le autostrade. Che cosa cerchiamo, seguendo la scia di questo cocciuto viaggiatore di otto secoli fa? Nella nostra piccola vita abbiamo già visto metropoli immense, che si srotolano senza finire mai e contengono milioni di individui. Perché allora immaginare la corte di Baatu ci offre un’emozione così forte, diversa? Dalla radio accesa esce il suono di un violino che taglia lo spazio fra di noi, lo fa a pezzi, come un diamante sul vetro. «Sono stanco», dice uno. «A volte, eh, non sempre». L’altro guarda il cielo oltre il parabrezza, cercando una nuvola o qualcosa che somigli a una nuvola. «Lo so». Bastano due sillabe per ribadire l’alleanza. Meglio che le parole restino nell’abitacolo, perché il mondo risponderebbe: ma come! hai tutto quello che serve per essere felici… Il punto è che forse la felicità non c’entra. E nemmeno la stanchezza. Custodiamo tutti del buio più buio: c’è chi è bravo a dimenticarsene, ma c’è chi non riesce ad arginare l’abisso. C’è poco da fare, se non attraversare insieme la corte di Baatu, distesa in tutta la sua lunghezza. E si può scrivere, aspettando le parole dell’altro. Così, mentre passano gli anni e le stagioni, ogni frase fiorisce dal buio, nel folto dei pensieri e delle angosce. Anche il gesto di mettere una virgola, voltare una frase, cancellare di nuovo: forse anche soltanto questo esprime una speranza. Altrimenti, se le cose dovessero mettersi davvero male, si può sempre tirare un dado, preferibilmente a venti facce. «Hai un dado in tasca». «Sì, come lo sai?» «Lo so perché ne ho uno anch’io». «È vero». «Al mio tre, allora. Uno. Due. Tre». «Bah, 7. Tu?». «5. Siamo spacciati».

PS: Ecco i collegamenti al primo, al secondo e al terzo episodio.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Hi there!

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Terzo episodio.

7) «Quella sera l’uomo che ci faceva da guida ci diede da bere del comos; al primo sorso mi misi tutto a sudare per il disgusto e la sorpresa, perché non ne avevo mai bevuto. Tuttavia mi sembrò che avesse un buon sapore, ed effettivamente ce l’ha».

Guglielmo beve, ed è come se bevesse l’universo. Nella sua espressione c’è tutto quello che si può cercare: le tenebre dell’ignoto, lo scontro, la luce della scoperta. Come quando fra le montagne, in mezzo a creste e pendii, si giunge a un pianalto inatteso. Guglielmo, con la fronte perlata di sudore, sorride alla guida. Poi si gira verso di noi e scuote la testa, desolato, scoprendoci in bilico sul bicchiere, titubanti e anzi angosciati. Forse più sudati di lui. Abbozza una smorfia ironica: sa bene che non siamo all’altezza, nulla di nuovo, ma bere da un bicchiere, accidenti!
Stretti fra l’imbarazzo e il desiderio di essere altrove, ci torna in mente il ricordo di un altro mondo. Siamo sempre noi due, a Zurigo, e stiamo entrando in un caffè che si vuole internazionale e sfoggia un marchio riconoscibile (l’abbiamo già visto mille volte). Ci avviciniamo al banco luminoso e il commesso ci dice: «Hi there!». Manco a farlo di proposito restiamo interdetti fra l’inglese ostentato del ragazzo con grembiule e la lista infinita di bevande. Volevamo prenderci due ristretti, ma ci troviamo a scegliere fra Vanilla or Caramel Macchiato, Flat White, Chai Tea Latte, Oat Cappuccino (Vegan), Matcha Tea Latte, Espresso 1x 2x 3x, White or Black Macchiato, Cold Brew, Premium Hazelnut Chocolate, Filterkaffee, Café Latte, White Chocolate Mocha, Iced Americano, Java Chip e altre cose che non abbiamo più tempo di leggere, perché dietro sbuffano e il ragazzo ci dice ancora qualcosa in inglese.
Allora uno di noi, di colpo sicuro, dice: «Two Comos, thank you».
E l’altro aggiunge: «Large, please».
Il comos, o kumis, è una bevanda ottenuta a partire dal latte di giumenta. Di certo il frate di origini fiamminghe avrebbe preferito della birra… ma non importa. La memoria evade dal passato. Nell’eterno presente del viaggio, Guglielmo si specchia nelle parole dei tartari, nei loro occhi sottili, nei gusti, negli odori. È fatto così. Non si limita a bere il comos per necessità: finisce per trovarlo buono.
«Okay!» risponde il commesso.
Si volta, traffica fra le bevande, ci porge due bicchieri di carta. Noi ci guardiamo. Non abbiamo nessuna idea di che cosa ci abbia servito. Ma Guglielmo ancora ci osserva – fra le luci del bar moderno, con il suo corpaccio robusto, il saio stazzonato – e quindi, dopo avere elemosinato una cannuccia, non possiamo fare altro che bere il mistero fino all’ultimo sorso.

8) «Camminammo per tre giorni senza incontrare nessuno. Eravamo sfiniti, e così pure i nostri buoi, e non sapevamo in che direzione avremmo potuto trovare dei Tartari; quando improvvisamente ci vennero incontro due cavalli, che accogliemmo con grande gioia. La guida e l’interprete montarono in sella e andarono in esplorazione, per vedere da che parte trovare qualcuno. Quando, il quarto giorno, incontrammo finalmente degli uomini, la nostra felicità fu come quella di naufraghi che arrivano in porto. Lì prendemmo cavalli e buoi, e procedemmo di bivacco in bivacco finché non giungemmo, il 31 luglio, all’accampamento di Sartach».

Alla periferia di noi stessi. Come può il mondo esistere? Il semaforo è giallo, lampeggia, nelle case le tende non si scostano, si appannano gli occhiali. Poi due cavalli ci chiamano per nome.

9) «Muovemmo dunque diritto verso oriente in direzione di Baatu. Il terzo giorno giungemmo all’Etilia; quando vidi il fiume mi chiesi stupito da dove arrivasse tutta quell’acqua che scendeva da nord».

Camminiamo sotto la pioggia, in silenzio. Indossiamo degli stivali di gomma scura e siamo infagottati dentro giacche dai colori squillanti. Uno di noi, sulla testa, porta una specie di cappello da cowboy; l’altro un affare curioso, che potrebbe essere a tutti gli effetti un paralume. La strada sale. Non c’è nessuno. Chi uscirebbe del resto in un giorno come questo? L’acqua scroscia nelle grondaie, gocciola dagli alberi, s’attorciglia sui tetti. E come se niente fosse succede qualcosa. Solo che quando ce ne accorgiamo non c’è già più. Certo non un fatto storico, ma nemmeno un dettaglio particolarmente importante per la nostra vita. Eppure accade. In quell’istante, senza bisogno di parlarci, siamo entrambi invasi dalla meraviglia. Una cosa quasi sciocca: siamo stupiti da come scende la pioggia e da come scricchiolano gli stivali. Dalle sfumature di verde nei prati. Dal profilo incerto delle montagne, poco più in là del nostro naso bagnato.
«Se volete mangiare con noi, vi conviene rientrare e asciugarvi», ci chiamano da una finestra.
Siamo abituati a leggere tante cose, a fissare degli schermi più o meno luminosi dove continuano a muoversi immagini che pretendono di essere nuove e originali. Sappiamo bene quanto sia importante leggere con cura e spegnere gli schermi appena possibile. Ma è la nostra vita. Qualche volta ci addentriamo perfino in quelle prigioni senza sbarre che sono i social network, dove si grida il bisogno di conforto e di ascolto, in mezzo al flusso d’insulti, vanterie, moralismo. È la nostra vita.
La dimenticanza è sempre in agguato. Il rischio di sprofondare nella noia, nell’ansia, nella disperazione. Dopotutto, forse, quell’istante di stupore non era così banale. La salvezza viene anche dal camminare dentro una pozzanghera (tanto abbiamo gli stivali) e da quella nitida, fugace sensazione: i prati sono prati, le case sono case, la strada sale poi scende e resta una strada. E l’acqua è l’acqua.
«Ah, e salendo, controllate che il passeggino sotto la tettoia non si sia bagnato!».

PS: Potete leggere qui il primo episodio e qui il secondo.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Ah, se sapessi disegnare!

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Secondo episodio.

3) «In nessun luogo hanno una città stabile, e neppure sanno dove l’avranno domani».

Stiamo pedalando affiancati, quando comincia a piovere. L’asfalto diventa scivoloso. La salita è ancora lunga, così decidiamo di fermarci sotto una tettoia arrugginita. Sembra la vecchia fermata di un autobus. Metà della struttura è ricoperta di erica e altri rampicanti. Sotto, seminascosto dalle erbacce, c’è il pannello che un tempo doveva ospitare gli orari. Appoggiamo le biciclette a un grosso albero, forse un faggio. Lasciamo il casco sulla testa e ascoltiamo il nostro respiro che torna regolare.
– Guarda come viene giù.
– Che facciamo, aspettiamo?
– Ma sì, fra poco smette.
– Tanto abbiamo tempo.
Parliamo senza pensarci, come per dimostrare a noi stessi che non stiamo sognando, siamo lì veramente, in piedi, uno accanto all’altro. Dietro le nuvole e la pioggia c’è ancora il sole a scaldare l’aria.
Poi succede tutto in un attimo: chiudiamo gli occhi e siamo a casa. Per una manciata di secondi sentiamo di appartenere a qualcosa. Siamo in viaggio, sostiamo sotto un riparo improvvisato, quasi nulla sappiamo della terra su cui poggiano i nostri piedi, eppure la consapevolezza è talmente forte che quando apriamo gli occhi quello ciò che abbiamo intorno – la ruggine, l’edera, gli alberi, l’asfalto – assume un nuovo, prezioso significato.
Ieri, in autostrada, ci siamo fermati in un’area di servizio dove stazionavano molte roulotte. Era un gruppo di Jenisch. Alcune bambine che giocavano con un pallone ci hanno salutato con le mani, gridando qualcosa. Abbiamo risposto incuriositi. Quelle erano le loro abitazioni, pronte per ripartire. Fisse nel movimento. Radicate in quella geografia mobile che tanto sembra impossibile agli stanziali, e che invece loro continuano a chiamare casa.
Chissà dove saranno oggi, ci chiediamo a mezza voce. Poi recuperiamo le biciclette, beviamo un sorso d’acqua e riprendiamo la salita.

4) «Entrando in casa, gli uomini non appendono mai la loro faretra sul lato delle donne».

Nel Medioevo li chiamavano Tartari. Allora come oggi, basta nominarli per evocare guerrieri indecifrabili e possenti, assalti all’arma bianca, tempeste di frecce, maestose cavalcate nell’infinito enigma della steppa. Eppure anche il Tartaro, quando la sera rientra a casa, ha le sue piccole abitudini. Noi appoggiamo le chiavi sul piattino all’ingresso, lui appende la faretra sempre dalla stessa parte.

5) «Le donne si fanno costruire dei carri bellissimi, che saprei descrivervi solo con un disegno; ma in verità tutto quanto vi avrei dipinto, se sapessi disegnare!».

Guglielmo scrive. Poi si volta. Ci scruta in silenzio per qualche secondo. Infine borbotta: «Non è che voi sapete disegnare, per caso?» Ci guardiamo negli occhi. Non è stato facile convincerlo a portarci con lui: non sembriamo esattamente due esploratori pronti a un viaggio nella steppa, fra sconosciute tribù di Tartari. Però avevamo i nostri due taccuini, una scorta di buona volontà, oltre a maglioni di lana e scarpe robuste. Guglielmo, che gira invece per la steppa con i sandali da frate, ci ha raccomandato più volte di non perderci e noi facciamo del nostro meglio. Ma un disegno? «Disegnare non è il nostro forte, purtroppo». Lui risponde qualcosa d’incomprensibile in fiammingo. Forse si chiede quale sia il nostro forte.
La bellezza di quei carri resterà insomma un mistero. Gli storici descriveranno esemplari simili, gli esperti ne ricostruiranno la forma e gli addobbi. Quei carri, però, proprio quelli, così come apparivano nell’estate del 1253, saranno per sempre velati dalla loro stessa bellezza: pulcherrimas bigas, scrive Gugliemo, ammutolito per lo stupore. Noi in verità qualche schizzo sui taccuini l’abbiamo fatto. E senza dubbio avremmo potuto scattare una foto con i nostri cellulari (li abbiamo infilati nello zaino di nascosto). Ma perché? A che proposito? Ci sono cose che non si possono dire, ed è bene che sia così. Il mondo ha bisogno anche di silenzio.
Ah, se sapessi disegnare! Lo stile di Guglielmo è immediato, pieno di vita, e i suoi silenzi sono eloquenti. Ancora oggi, del resto, noi ci aggrappiamo alla sua tonaca per partecipare al suo viaggio, e giorno dopo giorno impariamo a conoscere il mondo. E se Guglielmo vivesse nel 2022? Se avesse postato tutto sul suo profilo Instagram, fotografie e dirette video? Vogliamo credere che anche oggi Guglielmo avrebbe avuto la saggezza di spegnere il cellulare.

PS: Potete leggere qui il primo episodio.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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