Elogio degli invisibili

Che cosa accade a un romanzo, dopo che l’hai scritto? Se viene pubblicato, se qualcuno lo legge, vuol dire che la tua presenza non è più necessaria. Ma dove vanno a finire quei personaggi, quel mondo che era così intimamente tuo? E tu, che hai trovato questa storia e hai provato a narrarla, tu – autore – hai ancora il diritto di aggirarti nel “tuo” mondo?

Di recente mi è capitato di prendere in mano una copia del mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda). Ho sfogliato qualche pagina: mi parevano le parole di un altro. Allora Mario, il suo tormento, il suono del sax fra i mobili di Dolcecasa, i tatuaggi di Lisa, Contini che si aggira nei boschi… tutto questo non è più roba mia? Di sicuro, è ancora radicata dentro di me la domanda su che cosa sia il fallimento, su come si manifesti nella nostra vita.
img_7161Mi è tornata in mente una lirica di Walt Whitman, che avevo letto anni fa. Il titolo è A quelli che hanno fallito. Ecco la traduzione (qui l’originale): A quelli che avevano alte aspirazioni, e hanno fallito, / ai militi ignoti caduti in prima fila, combattendo, / ai macchinisti tranquilli e fedeli – ai viaggiatori troppo 
ardenti – ai piloti nelle loro navi, / ai numerosi sublimi canti o dipinti mai riconosciuti –
 vorrei erigere un monumento tutto coperto
 d’alloro, / alto, più alto di ogni altro – / a quanti furono falciati
 prima del tempo, / posseduti da uno strano spirito di fuoco,
 spenti da una morte precoce.
Queste parole, in maniera curiosa, mi hanno restituito L’arte del fallimento. Da sempre la mia attenzione è attratta dai militi ignoti, da quelli che sono posseduti (e bruciati) da uno strano spirito di fuoco. Non sono per forza vicende epiche: tracce di storie perdute s’insinuano pure tra i frammenti della quotidianità. Nel romanzo, Mario non riesce a trattenere uno sfogo.

«Una volta sono passato davanti alla casa di un mio compagno delle medie. Cioè, la casa dei suoi genitori: lui si è bruciato il cervello con le droghe a vent’anni, ora ne dimostra cinquanta e gira per la città parlando da solo. Un altro compagno invece ha due bambini, organizza le feste di compleanno dei figli e applaude ai loro saggi musicali. Perché? Che cosa è successo a quei due, che erano nella stessa classe?»
Mario riprese fiato. Il silenzio intorno era irreale. Pareva che Lisa non respirasse nemmeno.
«Chi li vede mai tutti gli sbandati, quelli rimasti indietro, quelli che si sono schiantati, gli sfigati, quelli che a quindici o a venticinque anni hanno avuto il loro momento di gloria e adesso fanno finta che sia tutto normale? Guarda, il mondo è pieno di falliti che non si riprendono.»

I fallimenti sono ovunque: nella cronaca, nei luoghi di lavoro, nello sport. In un breve capitolo di Addio al calcio (Einaudi 2010), Valerio Magrelli riassume la vicenda di Claudio Valigi: nato nel 1962, centrocampista brillante, all’inizio degli anni Ottanta era conteso da varie squadre di Serie A. Acquistato dalla Roma, partecipò alla vittoria dello scudetto 1982-83. L’allenatore Niels Liedholm lo soprannominò “erede di Falcão”, per una somiglianza nello stile con il campione brasiliano. Da quel momento, non seppe mantenere le aspettative: passò al Perugia, al Padova, giocò a Messina, Benevento, Mantova, finché abbandonò l’attività agonistica. Claudio Valigi – commenta Magrelli – è il nostro milite ignoto. Rappresenta le decine di migliaia di ragazzi caduti sul percorso della gloria senza arrivare a ottenerla.
img_7156Non sempre, tuttavia, l’invisibilità è sinonimo di fallimento. Certo, il percorso professionale di Valigi sembra una sconfitta. Ma che cosa ne sappiamo noi del suo destino, della sua coscienza, del suo modo di stare al mondo? Ci sono smarrimenti inevitabili, che non sono il prologo di una vittoria né un insegnamento di saggezza; ma che, semplicemente, ci rendono noi stessi. E non è poco.
Se c’è una speranza, secondo me, essa proviene dagli “invisibili”. Sono quelle figure che si muovono nel profondo della vita reale, lontani dagli specchi mediatici e dal tam-tam impazzito dei social network. Magari ci sono tanto prossimi che li diamo per scontati: un collega, un insegnante, un vicino di casa. I loro segni distintivi sono la discrezione, la pazienza, la serenità. Non sono per forza nostri amici intimi, ma si rivelano nei momenti drammatici. Per una persona inquieta, come me, la presenza di queste figure è un appiglio: un pro-memoria, perché il caos non prevalga.
image1Tempo fa ho cenato in una casa dove, sopra il camino, c’erano alcuni pezzi di pietra che parevano frammenti di un dipinto. Mi hanno spiegato che nei paraggi era crollata una cappella votiva, una fra le tante che punteggiano i sentieri di montagna, senza particolare valore artistico. Prima che sgomberassero le macerie, qualcuno era riuscito a salvare qualche residuo. Di chi sono quegli occhi, quella bocca scampati al crollo dell’affresco? Nessuno può dirlo: il “santo invisibile” se ne sta fermo sulla mensola, chiuso nel suo silenzio. Anzi, in un certo senso – contro ogni previsione – si è mosso. Da un paese di montagna è atterrato qui, sul mio blog, dove continua a fare ciò che faceva da sempre: guardarci.
Ho incrociato di recente il percorso di un’altra figura religiosa, stavolta provvista di nome e cognome: si tratta di Teresa Manganiello (1849-76), vissuta a Montefusco, in Irpinia, e proclamata beata nel 2010. Non sapevo niente di lei, finché un anno fa mi proposero di scrivere la sua storia per le edizioni San Paolo. Il libro avrebbe fatto parte di una nuova collana, “Vite esagerate”, il cui intento era di raccontare persone legate alla fede, ma di farlo in maniera laica, non agiografica, con un’attenzione agli aspetti umani delle vicende.
img_7169All’inizio ero scettico, non avendo esperienza di questo tipo di narrazione. Mi spiegarono che era questa l’idea: un approccio personale a una figura già raccontata (pure in un film della RAI) e già studiata dagli specialisti. Con un pizzico di follia, accettai. Era una bella sfida, anche perché il percorso di Teresa è intrigante: morì ad appena ventisette anni, dopo una vita senza scossoni, sempre in un piccolo paese di campagna. Com’è possibile che sia sfuggita all’oblio, che qualcuno si ricordi di lei? Eppure c’è perfino un ordine religioso nato dal suo esempio: le suore francescane immacolatine, presenti in tutto il mondo. Sebbene non abbia compiuto azioni clamorose, aveva un carisma che seppe affascinare prima i suoi compaesani e poi molti altri, fra cui anche dotti e sapienti. La cultura non proviene solo dall’alfabeto: Teresa non sapeva né leggere né scrivere, ma aveva sviluppato una conoscenza approfondita delle piante e delle erbe medicinali, che usava per curare i poveri, i prigionieri, gli invisibili derelitti che non mancavano nella sua epoca, così come nella nostra.
img_7194Ho potuto avvalermi dellaiuto di Antonietta Gnerre, poetessa e giornalista che vive in Irpinia e che ha scritto la postfazione del romanzo. Grazie ai suoi preziosi consigli, ho viaggiato idealmente fra le vie di Montefusco, cercando di risalire il tempo e di identificarmi – io, scrittore del XXI secolo – con una contadina analfabeta di duecento anni fa. Il romanzo si trova in libreria; sulla quarta di copertina c’è questa frase: Teresa Manganiello è un’anomalia. Non è figlia del suo tempo, non è il prodotto di un’educazione e di una cultura. È un imprevisto, un mistero che si è manifestato un giorno qualunque.

PS: La lirica di Whitman risale al 1888-89 e proviene da Sands at Seventy (“Granelli di sabbia dei settant’anni”), nel volume Foglie d’erba, con la traduzione di Alessandro Quattrone (Demetra 1997). Il romanzo La beata analfabeta verrà presentato a Milano lunedì 10 ottobre, alle 18, nella Libreria San Paolo di via Pattari 6. Sarà presente anche il curatore della collana, Davide Rondoni (trovate qui il suo breve commento).

PPS: La fotografia di Whitman proviene da internet; quella di Montefusco è di Antonietta Gnerre (è scattata da un luogo dove probabilmente Teresa passava spesso, nelle sue escursioni alla ricerca di erbe curative).

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Tony Fruscella

Di recente, durante una presentazione, una lettrice mi ha detto di aver ascoltato L’arte del fallimento in forma di audiolibro e di aver pensato che sarebbe bello, ogni tanto, accompagnare la lettura con i brani musicali citati nella storia. Secondo me è pericoloso: la musica in un’opera narrativa vuole forse essere immaginata, più che ascoltata. È vero però che ho presentato spesso L’arte del fallimento insieme a un musicista, per evocare i brani presenti nel romanzo (la prossima volta sarà sabato 23 luglio a Lugano-Longlake con Zeno Gabaglio: ecco qui tutti i dettagli). Ma un conto è una presentazione, un altro conto è una lettura integrale, che ha bisogno di silenzi e di spazi vuoti nei quali fantasticare.
IMG_4734Di sicuro la musica ha un ruolo importante nel romanzo: è la storia di un sassofonista che anche attraverso il jazz trova la forza per sopportare i suoi fallimenti. Ecco perché ho scelto di citare direttamente tanti brani. Ed ecco perché ho cercato di curare il ritmo, le parti in maggiore e quelle in minore, le differenti tonalità armoniche… In un certo senso, mi sono divertito a scrivere come se componessi un brano musicale.

Il jazz è la musica di chi si trova a terra e, in qualche modo, tenta di rialzarsi. È un eterno confronto con i limiti, con gli errori. Anzi, è la speranza che proprio negli errori si nasconda una possibilità di salvezza. Perciò Mario insisteva nell’ascoltare i suoi vecchi dischi in vinile, sulla sua vecchia poltrona sfondata, senza preoccuparsi se il mondo andava più veloce di lui. Aveva imparato che un piccolo ritardo sulla pulsazione non è dannoso, anzi, insegna ad accogliere gli imprevisti.
Django Reinhardt suonava la chitarra senza due dita, Bud Powell era minato dalla pazzia, Charlie Parker dalle dipendenze, Thelonius Monk doveva gestire la sua stranezza. Perfino l’impeccabile Keith Jarrett nel 1996 era caduto in una sindrome da affaticamento cronico. E la musica stessa, il jazz, continuava a morire e a resuscitare a ogni generazione.

Questo brano, preso dal capitolo 67, mostra anche l’importanza dei limiti, delle imperfezioni (ne ho già parlato qui, accennando alla mia esperienza con il sax). Di recente mi è capitato di ascoltare un trombettista che avrebbe meritato una citazione nel romanzo: Tony Fruscella. È uno di quei musicisti spazzati via dalla storia, risucchiato da quella che lo scrittore Robert Reisner definì una tenace volontà di fallire. Nacque nel 1927, nel Greenwich Village di New York, da una famiglia di lavoratori italo-americani. Non si sa nulla della sua infanzia, se non che crebbe in un orfanotrofio, nel quale imparò a suonare la tromba e dal quale se ne andò a quattordici o quindici anni. Fino a quel momento, aveva ascoltato soltanto la musica suonata in chiesa durante le funzioni. Negli anni successivi approfondì la conoscenza della musica classica e del jazz. Presto cominciò a suonare nei locali; passò anche dalle formazioni di Lester Young e Stan Getz, ma sempre fuggevolmente. Nel 1955 incise il suo primo e unico disco “ufficiale”; solo dopo la sua morte uscì qualche altra registrazione (nel 1981, nel 1999 e nel 2011). A partire dalla fine degli anni Cinquanta, l’alcol e la droga presero il sopravvento. Fruscella cominciò a entrare e uscire dagli ospedali, dalle prigioni. Presto di lui si perse ogni traccia: era diventato un senzatetto, un barbone che percorreva le strade in cerca di lavoretti occasionali. Morì di cirrosi epatica nel 1969.
Una storia tragica. La cosa sorprendente è che nella musica, invece, Fruscella era austero e disciplinato (sempre secondo la definizione di Reisner), capace di rigore e di precisione, ma soprattutto di suscitare emozioni con assoli di limpida bellezza. Non c’era un solo cromosoma commerciale nel suo corpo (Reisner): la musica era un mezzo intimo, profondo, per inseguire e rappresentare la grazia. Perciò è commovente un brano come “His Master’s Voice”.

La tromba di Fruscella suona nel registro medio una melodia semplice e discendente, ispirata a un inno sacro: tanti anni dopo, rivive il ricordo dei canti ascoltati nella sua infanzia all’orfanotrofio. Il suono è denso e leggero nello stesso tempo. L’assolo riesce a raccontare una storia, superando gli ostacoli del tempo e della rovina; sentite come comincia, a 0.53: insieme alla malinconia mi sembra di avvertire un residuo di speranza, di fiducia, in quell’affidarsi al ritmo, alla sapienza misteriosa del fraseggio.
A Fruscella accennò anche Jack Kerouac, in un suo racconto degli anni Cinquanta in cui descrive l’atmosfera delle jam session al Village: Per non parlare di Tony Fruscella che si siede a gambe incrociate sulla moquette e suona Bach con la tromba, a orecchio, e più tardi di notte suona jazz moderno con la band.
IMG_4732Non voglio trasformare in un mito la vita disperata di molti jazzisti degli anni Cinquanta. Non voglio nemmeno approfondirne (e come potrei?) le dinamiche psicologiche e sociali. Voglio solo condividere quel rimasuglio di bellezza che Fruscella riuscì ad afferrare. Mi stupisce quella melodia rimasta sepolta nell’anima fin dagli anni dell’orfanotrofio, custodita fra mille peripezie e finita dentro un disco che se ne sta qui, sul tavolo, davanti al mio computer. Mi dispiace non aver nominato Tony Fruscella nel romanzo. Rimedio ora, dedicandogli questo articolo sul blog e questa citazione dal capitolo 62.

Fin da bambino Mario aveva sempre amato il disegno e la musica. Quando attraversava un brutto momento, linee, forme e parole lasciavano spazio nella sua mente a un tonalità di colore che nello stesso tempo era anche un suono. Era il blu.
La fuga, il ritorno, la morte, il fallimento, l’umiliazione, lo scandalo, la paura, tutto era blu scuro. Ma nel fondo buio del colore c’era la possibilità di un’apertura, di una pazienza provvista di sorprese. E allora ecco l’azzurro di un pensiero inaspettato, di una sintonia, quando nel blu apparivano anche la distratta caparbietà di Contini, gli stupori di Lisa o semplicemente la consapevolezza che improvvisare, nella musica e fuori dalla musica, è l’arte di accettare ciò che accade, prima di reagire.

PS: Il disco di Fruscella, intitolato Tony Fruscella e pubblicato dalla Atlantic, è stato registrato a New York nel mese di marzo del 1955. Insieme a Fruscella, ci sono Allen Eager (sax tenore), Danny Bank (sax baritono), Chauncey Welsch (trombone), Bill Triglia (piano), Bill Anthony (contrabbasso) e Junior Bradley (batteria).

PPS: Le citazioni di Robert Reisner provengono da Tony Fruscella. The names of the forgotten, un articolo di John Dunton apparso sul blog jazzprofiles.blogspot.ch.

PPS: Il testo di Kerouac è tratto dal racconto “New York Scenes”, nel volume Lonesome Traveler, pubblicato in inglese nel 1960 e in italiano nel 2010, da Mondadori, con il titolo L’ultimo vagabondo americano.

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Butcher’s Crossing

Le parole non ci appartengono. Più avanzo nel mio lavoro, più mi accorgo dell’inconsistenza di tutte quelle espressioni come “nelle parole di quell’autore” o “con le mie parole ho voluto dire”. Che importa di ciò che hai voluto dire? Quello che conta è ciò che le parole – le parole – esprimono. Può essere ciò che hai voluto dire oppure no; nel migliore dei casi, è ciò che hai voluto dire con qualche cosa in più, quell’imponderabile, quel supplemento di significato che misteriosamente si annida in ogni sillaba che pronunciamo.
IMG_3706In questi giorni mi capita di parlare con i lettori del romanzo L’arte del fallimento, o di leggere qualche recensione sui giornali e su internet. Sono utili questi scambi, questi confronti? Credo di sì, proprio perché quel libro non mi appartiene. Nella mia mente sto seguendo il ritmo di una nuova storia: di quella non parlo con nessuno (nemmeno qui, dove siamo tra di noi…); ma di una storia già scritta si può discutere, e spesso mi capita d’imparare qualcosa.
Ieri, per esempio, mi hanno inviato un articolo apparso nel blog “unreliablehero” (lo trovate qui). È una bella recensione, che coglie alcuni aspetti per me essenziali del romanzo. A un certo punto l’autrice, che si firma come “Benny”, riporta una frase del romanzo: Perché è la cosa più difficile, sai? Dire: ho perso. Quello che passa, lasciarlo andare… Senza cancellare il presente, senza crogiolarsi nei sogni di rivalsa… perdere e basta, perdere e rimanere. Avere il coraggio di rimanere. In un primo momento non ricordavo di averla scritta, poi mi è tornato in mente che sono parole del vecchio Giona. Il coraggio di rimanere. Mi sono detto: ecco un tema che avrei potuto sfruttare meglio. Dopo un fallimento, dopo l’esperienza della morte, della sconfitta, della disillusione, che senso ha il gesto di rimanere? Non è nemmeno un gesto, a pensarci bene: è solo stare lì, senza fuggire. Ma sarà vero? Ogni tanto, invece, per fortuna, mi pare che il fallimento sia l’occasione per andarsene, per tagliare i ponti e per ricominciare. E tuttavia: è davvero possibile ricominciare da capo? Non si ricostruisce sempre sopra una rimanenza, sopra le macerie?
IMG_5746Seduto in balcone, sotto un maestoso passaggio di nuvole, ho riflettuto su questi argomenti. Mi sono venuti in mente altri autori e altre storie. Qualche settimana fa ho scritto per il sito “Il Libraio” un articolo in cui presentavo qualche consiglio di lettura. Il pezzo s’intitolava Sette lezioni di fallimento (lo trovate qui). Gli scrittori andavano da Thomas Mann a P. G. Wodehouse. Ecco le sette “lezioni”:
1) Come fallire in maniera grandiosa
2) Come accettare il fallimento
3) Come rialzarsi dopo i fallimenti
4) Come fare del fallimento un’arte
5) Come fallire un’indagine
6) Come trasformare il fallimento in eroismo
7) Come ridere del fallimento.
Riflettendoci ora, mi ricordo un libro che avrei potuto aggiungere alla lista: Butcher’s Crossing, di John Williams (uscito per la prima volta nel 1960, pubblicato in italiano da Fazi nel 2013). È la storia di un ragazzo che nel 1873 parte da Boston e raggiunge le terre selvagge del West. Nel corso del romanzo compie un’immersione nella natura, in un confronto serrato con i suoi limiti e le sue paure. Partecipa a un’epica, immensa caccia al bisonte ed è costretto a misurarsi con la dimensione del fallimento.
FullSizeRenderNon vi dico altro, per non guastarvi la lettura. Aggiungo soltanto che a un certo punto il ragazzo se ne va, ricomincia, cavalca verso posti nuovi. Però non torna a casa, a Boston, dove potrebbe avere una vita di ricchezza e successi. Ha il coraggio di rimanere in una terra dove non ha certezze e non è nessuno, ma dove – forse proprio per questo – ha qualche possibilità d’incontrare sé stesso.
Una sottile striscia di sole infiammava l’orizzonte a est. Si rigirò e guardò la pianura davanti a lui, dove la sua ombra si proiettava lunga e liscia, con i bordi frastagliati dall’erba appena nata. Le redini nelle sue mani erano dure e lucide. Sotto di sé sentiva bene la sella, liscia come la pietra, e i fianchi del cavallo che si gonfiavano appena, mentre inspirava ed espirava. Fece un bel respiro inalando l’aria fragrante che saliva dall’erba fresca, mischiandosi al sudore umido del cavallo. Strinse le redini in una mano, sfiorò coi tacchi i fianchi dell’animale e cavalcò verso l’aperta campagna. Tranne che per una direzione di massima, non sapeva dove stava andando. Sapeva solo che gli sarebbe venuto in mente in seguito, nel corso della giornata. Proseguì senza fretta, sentendo sotto di sé il sole che si alzava lentamente e scaldava l’aria.

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Working poor

Quando finisco un romanzo, mi piacerebbe riuscire a dimenticarlo. Copia di image1-2Se ci penso, mi preoccupo: sarò riuscito a dire ciò che volevo? Ci sarà qualcuno che apprezzerà il mio tentativo? Forse avrei dovuto scrivere diversamente, ma ormai è tardi.
Stavolta poi è ancora peggio, perché il titolo è L’arte del fallimento. E se il romanzo stesso si rivelasse un fallimento? Sarebbe elegante, dal punto di vista stilistico, ma… be’, diciamo che la mia coerenza non si spinge fino a questi estremi.
Ecco dunque che anche il blog può rivelarsi utile. Un paio di mesi fa ho già anticipato un brano del romanzo (lo trovate qui), e ora vorrei proporne un altro. Per me è un modo di restare nell’atmosfera, riflettendo sul mio lavoro.

Non è facile essere poveri in un paese ricco. C’è chi dice: almeno non si muore di fame. E c’è chi ricorre all’inglese: working poor. Come se l’essere working, pensava Contini sulle scale dell’Ufficio Fallimenti, potesse lavare l’onta del poor. Le facce che incrociava salendo forse non avevano fame, ma erano divorate dalla vergogna. È come uno di quei vermi che ti rodono l’intestino, finché qualcuno ti fa capire che, sì, puoi diventare povero, ma hai tutto l’interesse a fingere di non esserlo. Si fermò per far passare una coppia di giovani vestiti bene. Stavano litigando, ma smisero subito appena notarono la presenza di un estraneo.
Sei povero? Guarda gli altri, quelli che sono working e basta, fa’ come loro. È sottilissimo il diaframma che separa il precetto esecutivo dalle vacanze a Djerba, la Mercedes in leasing dal pignoramento dell’impianto stereo. Contini si fermò ad ascoltare sull’ultima rampa: prima di uscire sulla strada, credendosi al sicuro, i due giovani ricominciarono a litigare.
Non è permesso balzare da uno status sociale all’altro. Soltanto nelle fiabe il principe ruzzola fra i mendicanti e la sguattera s’infila a corte. Nei paesi civili queste operazioni richiedono documenti, pratiche, verifiche a domicilio. Come sacerdoti aztechi, i funzionari dell’Ufficio Fallimenti accompagnano le vittime al sacrificio: archiviano i compromessi, le speranze fasulle e, infine, registrano in triplice copia il tonfo.

Non è un brano decisivo, anzi, è una divagazione. Ma forse anche i brani marginali possono rivelare qualcosa della tonalità di un romanzo.
image1-2Non voglio rimuginarci troppo. Ho sempre creduto che la miglior tecnica di scrittura sia pensare ad altro. È il giorno dell’Epifania: appena finirò questo articolo approfitterò del sole e andrò a farmi un giro in bicicletta. Il pezzo lo pubblicherò domani (tanto, che cosa cambia?). Oggi lascerò che la mente passeggi fra cose concrete: nuvole, montagne, battiti del cuore. Prometto comunque di pensare ogni tanto a Contini e agli altri personaggi; e fino al 18 febbraio, quando il romanzo arriverà in libreria, cercherò di non dimenticarmi ciò che ho scritto (sembra facile, ma ricordate: è L’arte del fallimento…). Dopo l’uscita del libro, se ne avremo l’occasione, qualche volta potremo discuterne insieme.

PS: Avevo già parlato dell’Ufficio Fallimenti: potete trovare qui l’articolo.

PPS: Se foste curiosi, il giro in bicicletta è andato bene. Percorso misto: salita e pianura, ma soprattutto salita. Un po’ di fatica all’inizio, poi ho trovato il ritmo. Poche automobili, aria fredda, il silenzio appena velato dal mormorio lontano dell’autostrada.

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Sulle tracce del fallimento

Ci sono degli uffici in cui non si vorrebbe mettere piede. La mente lavora sulle sfumature, si aggrappa alle speranze, ma la burocrazia è senza pietà. Mi è capitato di conoscere sia l’Ufficio Fallimenti (che sarà nel mio prossimo romanzo) sia la Cassa Disoccupazione, che è un luogo d’incontri significativi. Per me raccontare storie non vuol dire soltanto narrare di omicidi o di fatti eccezionali, ma anche della quotidianità, delle vicissitudini meno appariscenti. Nella mia città la Cassa Disoccupazione si affaccia su un parcheggio: la gente passa, di fretta, ognuno trascinando borse della spesa, figli, preoccupazioni. E proprio lì, dietro una vetrina, si fermano invece le persone che sono fuori dalla giostra, dal giro casa-lavoro-vacanze.
IMG_2010Dietro la vetrina si parla di soldi. Di cifre. Del 40% perso o del 15% che si spera di trovare. Ma fatalmente uno pensa anche alle domande che suscita ogni lavoro: chi sono io? perché mi trovo a fare questo o quest’altro? qual è il mio talento, e a che cosa serve? Davanti a questi interrogativi i funzionari sono impotenti, anche perché i loro formulari chiedono cifre, non stati d’animo.
L’Ufficio Fallimenti invece si trova nello stesso edificio in cui prendo le lezioni di sassofono. L’ho scoperto mentre lavoravo al romanzo L’arte del fallimento. Devo dire che la cosa mi ha dato da pensare. Io me ne stavo lì a cercare i suoni sovracuti, oltre il fa diesis, e due stanze sopra andava in scena il dramma della bancarotta.
image1Forse a causa di questa coincidenza mi sono ispirato alla musica jazz per narrare la dinamica psicologica che sta dietro l’esperienza del fallimento. Nel romanzo si racconta delle peripezie di chi vede sgretolarsi ciò che ha costruito. I funzionari dell’Ufficio Fallimenti devono gestire i crolli, assicurare lo svolgimento dignitoso della sconfitta. Uno dei protagonisti suona, e nell’improvvisare cerca di esprimere quello che prova, cerca di trovare la forza per resistere, per accettare ciò che gli succede e afferrare ciò che di buono la vita ancora gli riserva.
Prima che L’arte del fallimento arrivi in libreria, mi piacerebbe anticiparvi ancora qualche brano, come ho già fatto un paio di settimane fa. Ma oggi voglio lasciare spazio alla musica (con un disco citato nel romanzo). Al sax contralto, nel 1957, Art Pepper suona una vecchia canzone di Cole Porter. Insieme a lui una sezione ritmica eccezionale: Red Garland al piano, Paul Chambers al basso, Philly Joe Jones alla batteria. Pepper è stato in prigione, non riesce a liberarsi dalla droga, ha dei problemi tecnici al sax. In più, sono anni che non suona regolarmente. Eppure la musica esce limpida e preziosa, come per miracolo.

Questo è un genere di miracolo che nasce dalla dedizione. Sentite il suono di Pepper, com’è liscio, rilassato, appena un po’ stanco. Sentite come ogni nota arriva al momento giusto, portando sollievo.
Ecco, mi piacerebbe riuscire a scrivere con questa precisione. Non sempre nella mia vita dedico alla scrittura il tempo e la concentrazione che vorrei. Eppure, per fortuna, a volte le cose si aggiustano proprio nel momento in cui falliscono. Come diceva Ernest Hemingway: La gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire, e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e, porco cane, non troppo dopo. Nella scrittura, nell’arte della vita e del fallimento, tento sempre di muovermi con il tempo giusto… o magari con appena un po’ di ritardo, come fa Art Pepper. Non sempre mi riesce. Ma anche questo fa parte dello swing.

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