Quando ero analfabeta

Guardate questo video: contiene sguardi precisi e sognanti, un bosco fitto di pensieri misteriosi, un uomo che fotografa una volpe, un lago, una bambina, una donna, un’ombra e alcuni animali immaginari.

Si chiamano “booktrailer”: sono dei video di un minuto o giù di lì che presentano l’atmosfera di un libro. Quello che avete appena visto è stato realizzato e sonorizzato da Alessandro Tomarchio e pubblicato sul canale della rivista “Il Libraio”.
L’ho guardato con meraviglia, perché questo video compie una piccola divagazione meditativa sul mio romanzo Le strade oscure (Guanda). Questo mi ha portato a riflettere sulla genesi del romanzo e, in generale, sulla mia scrittura. Sono temi che affronto anche durante le varie presentazioni del romanzo. (Qui trovate una lista più o meno aggiornata: Presentazioni Oscure.)

Quando cominciai a scrivere ero ancora analfabeta.
A quei tempi la scrittura era ascolto, era il gesto di custodire le parole: mi nutrivo delle fiabe e delle storie che mi raccontavano i miei genitori, cominciavo a immaginare cose che non esistevano e che tuttavia, paradosso dei paradossi, esistevano meglio di tante altre che potevo toccare con mano. Un po’ più tardi iniziai a evocare mondi fittizi attraverso la narrazione a voce alta. Ancora non sapevo scrivere, perciò il rapporto fra la parola, la memoria e la voce era misterioso, forse simile a quello che si ritrova nelle culture che hanno una letteratura trasmessa oralmente.
Per farla breve, in seguito cominciai a scrivere a mano, poi m’impadronii di una vecchia macchina da scrivere che girava per casa, poi arrivarono i primi computer – ma non abbandonai la scrittura a mano, che per me è indispensabile ancora oggi, così come la lettura a voce alta. E scrissi racconti e poesie e in seguito romanzi e altre tipologie di testi. Nel 2020 sentivo il bisogno di un cambiamento: avviai dunque un progetto lungo, che implicava molto studio da parte mia, un’opera sospesa fra narrativa, saggistica, traduzione… ma non ne voglio parlare: ci sto ancora lavorando. Nello stesso tempo affrontai ancora una volta il personaggio di Elia Contini, che avevo inventato nel 2002 e che nel 2005 era divenuto il protagonista del mio primo romanzo, al quale ne seguirono altri sgranati lungo gli anni.
Ero un po’ esitante. Come lettore non sempre amo la serialità. Ci sono saghe alle quali mi sono appassionato, fin da bambino, ma di recente apprezzo anche i personaggi che vivono in un solo romanzo. In ogni caso decisi di scrivere qualcosa di nuovo. Prima di tutto, tentai un approccio diverso a Contini, in maniera che risultasse più vero grazie a una maggiore introspezione, a una discesa nell’anima di quest’uomo che è investigatore per caso e quasi controvoglia. Inoltre, come faccio sempre, affiancai a Contini un altro personaggio forte, in maniera che diventasse il vero protagonista. In terzo luogo, decisi di sperimentare un’unione fra due generi letterari che conosco bene, sia come lettore, sia come scrittore: il romanzo noir e la prosa breve (o prosa d’arte).
Così è nato Le strade oscure. La vicenda di Ernesto Magni e di sua figlia Vera accompagna la trama poliziesca, mentre la presenza di un bestiario di animali immaginari interseca la narrazione. Le prose brevi hanno un significato autonomo, non hanno bisogno del romanzo; del resto, alcune le avevo scritte anni prima. Esse tuttavia, nel contesto di una narrazione più ampia, finiscono per dire qualcosa d’inaspettato (almeno per me) sui personaggi e sui loro stati d’animo.

Come tutti i romanzi noir, Le strade oscure è provvisto di una trama con momenti di sospensione narrativa e colpi di scena. Nello stesso tempo c’è una riflessione sociale sulla Svizzera italiana e le sue contraddizioni, sulla malavita, sui lavoratori frontalieri e sul loro modo di vivere il passaggio della frontiera. Su questo fondale si sviluppano le vicende umane di Ernesto Magni, di sua figlia, di Elia Contini e di Francesca Besson. In generale, il tema di fondo che m’interrogava durante la scrittura – e che m’interroga da sempre – è il confine fra il male e la grazia. Da una parte c’è il male inevitabile, che abbiamo tutti dentro di noi, il male gratuito. Dall’altra la “grazia”, cioè il mirabile equilibrio inaspettato, la comparsa del bene altrettanto gratuito, spesso nelle situazioni che sembrano senza speranza. Credo che tutti noi abbiamo sperimentato questa alternanza.

Contini stappò una birra e la bevve in piedi, appoggiato alla balaustra del portico. Il profilo degli alberi si distingueva ancora, ma i colori erano già svaniti. Con le sue abitudini, con i suoi piccoli riti Contini aveva sempre cercato un modo per non farsi soffocare dalla quotidianità. Vivere il tempo in piccoli frammenti faceva sì che ogni tanto arrivasse un’ora propizia, un’armonia fra i pensieri, le cose, le azioni. Ora la quotidianità si era schiantata: ogni gesto richiedeva uno sforzo.

La quotidianità è sempre un rischio. E la calma è sempre apparente. Questa tensione è per me una sfida continua: anche la scrittura è un modo per vedere più chiaro, senz’altro una via per avvicinarmi alla verità. Uno dei maggiori pericoli per me è la solitudine: può essere benefica (come quella del vecchio Giona, l’eremita che abita nei boschi sopra Corvesco, nel nord del Canton Ticino), ma puo essere anche dolorosa.

Essere soli nel ventunesimo secolo forse è ancora più difficile che in passato. Da ogni parte si è assediati dal mondo, da gente che vuole dire la sua, lamentarsi di questo o di quello. Ma tu sei isolata, murata fra le chiacchiere e le fotografie. Quanta fatica costa essere davvero pronta: bisogna creare un silenzio che permetta di percepire le parole autentiche e poi abbassare la guardia, diventare accogliente. Fidarsi delle cose buone nel momento in cui succedono.

Non si cancella la solitudine. Si può sostituirla con il caos, con il frastuono, ma non è una soluzione. Forse l’unico modo per medicare la solitudine è quello di renderla ospitale. In questo senso la scrittura è un atto di condivisione, poiché traccia dei legami fra chi scrive e gli altri. La ricerca della verità non è pomposa o retorica, ma è un lavoro di approfondimento del mistero: di ciò che scrivo, normalmente, mi restano domande. Insieme alla speranza che, trovando il passo giusto, possa finalmente riuscire a esprimermi meglio, con maggior precisione, arrivando a rivestire di parole ciò che ancora mi sfugge.

Un passo alla volta, un passo alla volta. All’inizio sembra un ritmo troppo blando, ma a un certo punto solo la fedeltà a quella pazienza ti permette di andare avanti.

PS: Le citazioni in grassetto provengono da Le strade oscure.

PS: La rivista “Il Libraio”, oltre al video sul romanzo, ha pubblicato anche un mio breve pezzo in cui passo in rassegna una trentina di animali immaginari. Lo trovate qui.

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Niente di niente

Quando viaggio da solo in un paese straniero, a volte incontro uno dei miei personaggi. Sono momenti fuggevoli: dopo pochi secondi il personaggio svanisce, torna a essere uno dei tanti che girano per le strade. Ma non scompare del tutto: diventa uno stato d’animo, una sensazione, un desiderio, un riflesso d’ombra che s’insinua fra i pensieri della quotidianità.
Qualche giorno fa stavo camminando a Varsavia. Erano le dieci di sera. Per le strade c’erano persone che procedevano in fretta, perché sicuramente qualcuno le aspettava da qualche parte. C’erano coppie d’innamorati che approfittavano della temperatura non troppo rigida. C’erano gruppi di ragazzi, operai alla fine del turno, poliziotti, qualche barbone che preparava un giaciglio per la notte. Non si vedevano stranieri, o almeno, nessuno che fosse immediatamente riconoscibile come tale. Mi sono chiesto se fossero davvero tutti polacchi. Di sicuro ci sarà stato qualche ucraino, qualcuno che non riuscivo a riconoscere come straniero. Ma quando ho visto un uomo dalla pella scura, con il volto coperto da un cappuccio e da una sciarpa, la sua differenza ha attirato la mia attenzione. Stava seduto su una panchina, immobile, e fissava nel vuoto. Allora mi è venuto in mente Moussa ag Ibrahim, uno dei protagonisti del romanzo Gli Svizzeri muoiono felici (Guanda 2018).
Moussa è un uomo di origini tuareg. Fin dall’infanzia ha vissuto come nomade nel deserto del Sahara, tentando di seguire le tradizioni dei suoi antenati. Ma i tempi cambiano, fra leggi restrittive, violenza, desertificazione. Per una serie di ragioni, Moussa arriva in Svizzera. La sua speranza è di trovare un lavoro, per aiutare i suoi parenti in Niger. Ma subito è colpito dalla nostalgia e da un senso d’inadeguatezza.

Quel mattino, mentre diceva le sue preghiere, Moussa aveva avuto paura di essersi spinto troppo oltre, in mezzo a gente troppo diversa. Come avrebbe fatto a resistere in quel paese, dove tutti avevano il loro posto? Ognuno partiva sapendo dove andare, per quale ragione, a che ora. Tutti avevano un telefono, un indirizzo email, un appuntamento e poi un altro e un altro ancora, come una ragnatela nella quale tessevano sempre nuovi fili, creando strade, palazzi, monumenti, macchine, libri, parole, immagini. E Moussa invece passava come un soffio in mezzo ai progetti degli altri, come chi non ha niente di niente.

Un uomo in mezzo alla folla. Diverso da tutti gli altri. Completamente solo. Camminando verso l’hotel Metropol, poco lontano dall’immenso Palazzo della Cultura, ho cercato di calarmi nell’animo di Moussa, nella sua lontananza. Spesso è da questi esercizi d’immedesimazione che traggo le idee per la scrittura. Anche quando il romanzo è già pubblicato, come in questo caso, mi fa piacere restare per un po’ da solo con i miei personaggi.

Ero in Polonia per una serie di conferenze. La prima sera, al bar dell’hotel, mi chiedevo che cosa dire agli studenti e alle persone che mi avrebbero ascoltato. Ero seduto davanti a uno dei camini fasulli più realistici che mi sia mai capitato di vedere: finti carboni ardenti, finte fiamme guizzanti, finto fumo grigio. Davanti a me, sul tavolino, c’era una birra (vera). E io? Fino a che punto sarei riuscito a essere autentico? Un uomo in una città straniera, sospeso fra un fuoco finto e una birra vera. Chi è veramente l’uomo? Cioè, chi sono io? Sono più simile alla fasulla perfezione del fuoco o alla verità fermentata della birra?

Questi pensieri mi hanno fatto capire che era giunta l’ora di andare a letto… Prima di dormire, ho sfogliato qualche pagina di un autore polacco. Adam Zagajewsi (nato a Leopoli nel 1945) racconta in un saggio dei suoi giorni da liceale, quando gli studenti erano «attratti dalle feste private, dai primi appuntamenti, dai giri in bicicletta, dalla musica di Elvis Presley, Chubby Checker e Little Richard, dalla vita intesa soprattutto come uno sguardo rivolto senza troppa attenzione a un lontano futuro». In quel contesto, un giorno il poeta Zbigniew Herbert, giovane ma già conosciuto, viene invitato al liceo per una conferenza. Al di là di ogni aspettativa, annota Zagajevski, la visita di Herbert «ha cambiato qualcosa nel mio modo di guardare alla letteratura; magari non subito, ma – con un certo ritardo – lo ha fatto sicuramente».
Nel mio piccolo, chissà, forse anch’io sono riuscito a lasciare qualcosa agli studenti che ho incontrato in questi giorni. Ho letto qualche pagina da L’arte del fallimento e da Gli Svizzeri muoiono felici, ho cercato di condividere la mia esperienza di scrittore, i miei dubbi, ciò che ho imparato e ciò che mi resta da imparare. Sul palco del festival Jazz&Literatura di Katowice oppure in un’aula dell’Uniwersytet Śląski a Sosnowiec: sempre guardavo uno per uno quei volti attenti, in ascolto, e mi chiedevo: che cosa resterà di tutto questo? Sulle prime ero pessimista, poi mi dicevo: Andrea Fazioli di certo non è abbastanza, ma forse i personaggi si sono espressi per me. Forse Moussa ag Ibrahim è riuscito a comunicare loro qualcosa, nella maniera silenziosa in cui parlano i Tuareg. Magari non subito. Magari le parole si sono deposte in profondità, avvolte in un bozzolo di silenzio. Magari fra qualche anno quegli studenti ripenseranno a Moussa, a Contini, anche solo fuggevolmente, e la realtà immaginata sarà loro d’aiuto per affrontare la realtà reale.
E io? Anch’io ho vissuto incontri che mi saranno utili per essere sempre più birra (vera) e sempre meno fuoco (finto). All’Istituto italiano di cultura di Varsavia ho avuto modo di parlare di letteratura e mi sono annotato nomi di autori italiani e polacchi da scoprire. Anche qui, come del resto è accaduto pure con gli studenti, ho l’impressione di aver ricevuto più di quanto sia riuscito a trasmettere. Ma non bisogna fare calcoli: questo tipo d’incontro, di scambio culturale, continua a generare frutti nel tempo, lentamente.
Nei miei giorni in Polonia ho avuto modo di confrontare i segni del passato con un futuro che cresce a vista d’occhio. Vecchi palazzi di stampo sovietico e nuovi edifici creati da grandi architetti. Luci al neon, traffico, fast food, ancora luci al neon di ogni forma, di ogni dimensione. Campi gelati e betulle lungo la ferrovia. Vaste zone industriali. Ciminiere, parchi, centri commerciali. Lo splendido nucleo di Nikiszowiec, costruito all’inizio del XX come osiedle robotnicze, come quartiere operaio per le famiglie dei minatori, con i familoki di mattoni rossi che si dispongono in forma geometrica, creando strade, cortili, angoli discosti dove il silenzio è interrotto solo da un improvviso volo di uccelli o dal suono ovattato di una radio.
L’ultima sera, a Varsavia, torno a camminare lungo le strade intorno al Palazzo della Cultura. Il mio telefono è scarico e ho smarrito il caricatore. Mi fermo in un negozio e chiedo in inglese alla commessa se ne venda o se sappia dove possa acquistarne uno. «Mi dispiace – risponde lei – abito lontano da qui.» Poi sorride e aggiunge: «Abito lontano da tutto». Annuisco. «Me too – le dico – anch’io». Provo a ripeterlo in polacco: «Ja też». Lei sorride di nuovo. Ci salutiamo. Esco e penso che in fin dei conti posso anche restare senza telefono. Così sarà più facile intravedere Moussa ag Ibrahim che cammina con la consapevolezza di non avere niente di niente. Forse è proprio da questo vuoto che possono sprigionarsi le parole più preziose. In Polonia, in Svizzera, nel deserto del Sahara.
Più tardi, prima di dormire, rileggo una poesia di Adam Zagajevski. S’intitola “Là, dove il respiro”.

Sta sulla scena
senza alcuno strumento.

Appoggia le mani sul petto,
là dove nasce il respiro
e dove si spegne.

 Non sono le mani a cantare
e nemmeno il petto.
Canta ciò che tace.

Nell’ultimo verso si riassume il senso di questo articolo. Canta ciò che tace. Anche quando abbiamo la sensazione di non aver detto abbastanza, o di non aver detto nel modo giusto, o di non avere incontrato nessun personaggio, o di non avere capito ciò che abbiamo visto, per fortuna canta ciò che tace.
Il silenzio, fin dall’inizio dei tempi, è il miglior narratore di storie.

PS: La prima citazione di Zagajevski proviene da L’ordinario e il sublime. Due saggi sulla cultura contemporanea (Casagrande 2002; traduzione di Alessandro Amenta). La poesia è tratta invece dal volume Dalla vita degli oggetti. Poesie 1938-2005 (Adelphi 2002 e 2012; traduzione di Krystyna Jaworska). In un altro testo, lo stesso Zagajewski accenna a quei momenti in cui si compiono misteriose connessioni fra immaginazione e realtà: «Esiste un senso che resta nascosto nella quotidianità, ma diventa accessibile negli istanti di maggior concentrazione, negli attimi in cui la coscienza ama il mondo. Cogliere quel senso complesso ti porta un’esperienza di particolare felicità, perderlo ti consegna alla malinconia» (da Tradimento, Adelphi 2007; traduzione di Valentina Parisi).

PPS: Grazie a tutte le persone che mi hanno accolto e accompagnato in Polonia. Fra gli altri il vice ambasciatore svizzero Chasper Sarott; Marzena Anioł di Jazz&Literatura; la studentessa e ottima traduttrice simultanea Natalia Myszor; Justyna Orzeł, che ha tradotto i miei testi per i lettori polacchi; il direttore Roberto Cincotti e tutti i suoi collaboratori all’Istituto di cultura italiano a Varsavia; gli insegnanti, gli studenti e le studentesse dell’Instytut Języków Romańskich i Translatoryki all’Uniwersytetu Śląskiego.

PPPS: Le fotografie di Nikiszowiec le ho prese da internet. Le altre le ho scattate io. Il video di presentazione del romanzo Gli Svizzeri muoiono felici è stato realizzato da Alessandro Tomarchio.

PPPPS: Per completare la fotografia presa davanti alla stazione di Katowice, che vedete qui sopra, ecco un frammento sonoro.

 

PPPPPS: Infine, per chi volesse rendere più vivida l’apparizione di Moussa ag Ibrahim nelle strade di Varsavia, ecco la versione polacca del brano che ho citato sopra.

Tamtego ranka, gdy odmawiał swoje modlitwy, Moussa poczuł strach, że posunął się za daleko, wśród ludzi całkiem od niego różnych. Jak mógłby wytrzymać w kraju, gdzie wszyscy mieli swoje miejsce? Każdy wyjeżdżał wiedząc, gdzie jedzie, z jakiego powodu, o której godzinie. Każdy miał telefon, adres e-mail, spotkanie, a potem kolejne, a potem jeszcze jedno, jak w pajęczej sieci, w której tkali coraz to nowe nici, tworząc ulice, budynki, pomniki, samochody, książki, słowa, obrazy. A Moussa mijał jak tchnienie wśród czyichś planów, tak jak ktoś, kto nie ma zupełnie nic.

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La mia felicità

Gli Svizzeri muoiono felici è la storia di un incontro impossibile. Spesso gli incontri impossibili finiscono per accadere, magari proprio quando nessuno ci sperava più: la vita infatti, come diceva il poeta Vinícius de Moraes, è l’arte dell’incontro. Il romanzo, in uscita in questi giorni per l’editore Guanda, parla di solitudine e nostalgia, di fuga, di accoglienza. Le Alpi e il deserto del Sahara fanno da sfondo a una vicenda dove la morte, l’irrimediabile lontananza, ferisce l’animo dei protagonisti. Ma nello stesso tempo, la scoperta dell’altro dischiude la possibilità della speranza. Il “booktrailer” di Alessandro Tomarchio dura un minuto e non rivela niente della trama; è un piccolo cortometraggio d’autore, liberamente ispirato ai luoghi e all’atmosfera del romanzo.

Le immagini mostrano l’altopiano della Greina, nella Svizzera italiana. Ideato, girato e montato da Alessandro Tomarchio (che è anche l’autore della colonna sonora), il video è stato realizzato grazie alla disponibilità di Martina e Paolo, che hanno fatto da guida al regista nei luoghi dove si svolgono molte scene del romanzo.
Trovate qui il risvolto di copertina, con qualche citazione dal testo, e qui le date delle presentazioni. Ne approfitto per ringraziare chi mi ha aiutato nel lavoro della scrittura: Ibrahim Kane Annour e tutti gli altri Tuareg che mi hanno ispirato (alcuni vogliono mantenere l’anonimato, perché preferiscono apparire nascosti nel personaggio di Moussa ag Ibrahim); i miei amici, i miei famigliari e i miei lettori di fiducia: Anna, Eloisa, Erina, Lucia, Maria, Michele, Nicola, Paolo, Tommaso, Yari. Sono grato a tutto il gruppo di Guanda, in particolare ad Annachiara, Monica, Paola, Lucia, Viviana. Come sempre, un pensiero speciale per la mia editor Laura Bosio, che mi ha aiutato a portare a termine questo viaggio fra l’Assekrem e la Greina.
A un certo punto, nel romanzo, l’investigatore Elia Contini viene interrogato da uno psicanalista.

 – Lei, per esempio, come giudica la sua vita da uno a dieci?
Contini sperò che fosse una domanda retorica. Ma non lo era.
– Allora? Mi dica? Si dà la sufficienza?
Contini sospirò. – Faccia come vuole. Dieci?
– Dieci! Caspita, lei è un uomo felice.
– Anzi, uno.

Non sono un uomo felice. Non lo sono mai stato. Questo non vuol dire che stia soffrendo per una circostanza precisa, né che mi sia accaduto qualcosa d’irreparabile (tranne la vita stessa), né tantomeno che voglia lamentarmi. Ma fin da bambino, non ho mai avuto l’attitudine alla felicità. Non mi sono mai lietamente riconosciuto in un gruppo, nella baraonda del cortile non avevo voglia di gridare, non m’importava di vincere o perdere. Non mi piacevano le “festicciole”, i compleanni, le scampagnate. Non sto dicendo che fossi cupo e disperato; anzi, mi piaceva scherzare e – da adolescente – ero più o meno sempre innamorato. Ma quando tutti intorno a me, insieme, perdutamente, gioivano di una gioia collettiva, in me sorgeva il desiderio di stare in disparte. È un’ombra che mi accompagna ancora oggi. Al momento degli applausi, quando si levano i calici per un brindisi, quando si grida “viva gli sposi!” o “buon anno!” o “vittoria!”, mi affretto a cercare la via di fuga più vicina. Non è una posa o un moto d’orgoglio. Semplicemente, mi rendo conto di non essere portato per la felicità. O forse devo ancora capire che cosa sia.
Gli Svizzeri muoiono felici è un romanzo noir, con il suo intreccio poliziesco e i suoi colpi di scena, ma nasconde anche una domanda sulla felicità. Da un paio d’anni mi ronzava in mente la storia di un uomo che sparisce nel cuore delle montagne. Nello stesso tempo mi è capitato di conoscere alcune persone di origine tuareg; nei loro racconti ho sentito affiorare una nostalgia e un desiderio che assomigliavano a ciò che provavo io. È possibile sentirsi vicino a un luogo dove non si è mai stati? È possibile che, nell’identità multipla di cui siamo fatti, ci sia posto anche per paesaggi e culture conosciute solo tramite i racconti? Credo di sì: non bisogna mai sottovalutare la forza di un racconto. La scrittura, fra mille altre cose, è anche compiere l’esercizio di essere un altro, pur restando sé stessi. Scrivere (e leggere, naturalmente) è sempre una ricerca, è un modo di progredire. Forse, a proposito, l’uomo felice è proprio «colui che, senza cercare direttamente la felicità, trova per di più inevitabilmente la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di sé stesso, in avanti» (Pierre Teilhard de Chardin).
Credo che ci sia una correlazione profonda, anche se nascosta, fra la Svizzera e il Sahara. La ricercatrice Jeanne-Marie Baude scrisse che «ci sarebbe tutto uno studio da fare sulla letteratura del deserto nella Svizzera romanda contemporanea». L’idea si potrebbe allargare alla letteratura europea in generale, che spesso ha fatto i conti con il concetto esistenziale di “deserto”, al di là dell’aspetto puramente geografico. Restando in Svizzera, alcune liriche di Anne Perrier hanno una consonanza con l’inquietudine di tanti poemi tuareg.

Oh rompere gli indugi
Partire partire
Io non sono fra coloro che restano
La casa il giardino tanto amati
Non sono mai dietro ma davanti
Nella splendida bruma
Sconosciuta

La stessa Anne Perrier, trafitta dal blu delle lontananze, si avventura in un deserto che è forse anche la pagina bianca su cui si compone la poesia.

Questo laggiù
Questo canto questa alba
Questo volo di fronde
Questo orizzonte come un giardino
Che riposa nella luce
E gli aromi

La letteratura permette incontri impossibili, superando ogni distanza culturale e temporale. Si può dunque appartenere sia alle montagne fra cui è nata Anne Perrier (1922–2017), sia alle dune fra cui visse Kenoūa oult Amāstan, nata nel 1860. Colpita dalla bellezza di un uomo, Kenoūa ne scrisse con impeto e struggimento, evocandolo come se fosse un paesaggio.

Io, quest’anno, ho visto
una collina di muschio dai mille colori;
l’erba era d’oro e cresceva con vigore;
il miele mescolato con il burro ingrassava la terra;
il latte scorreva e bagnava la collina, racchiusa tra maglie d’argento.

Gli Svizzeri muoiono felici si muove tra paesaggi diversi, con voci diverse. Ma ogni personaggio, compreso lo stesso Contini, prova a un certo punto la tentazione di andarsene, di lasciarsi tutto alle spalle. La fuga porta alla felicità? Difficile dirlo. Probabilmente non si può essere felici senza una certa forma di leggerezza e di autoironia, senza un certo distacco dalle cose del mondo. Ma la felicità deve anche fare i conti con la vita quotidiana, con l’impietoso scorrere dei giorni.
Mi accorgo che sto ancora parlando di felicità. Come se le parole mi potessero avvicinare al sentimento… Magari è proprio così, vai a sapere. Lo stesso Giacomo Leopardi, quando scriveva, non poteva fare a meno di una certa allegrezza: «Ma quantunque chi non ha provato la sventura non sappia nulla, è certo che l’immaginazione e anche la sensibilità malinconica non ha forza senza un’aura di prosperità e senza un vigor d’animo che non può stare senza un crepuscolo, un raggio, un barlume di allegrezza» (Zibaldone, 24 giugno 1820).PS: La vita, amico, è l’arte dell’incontro è un album di Vinícius de Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio Endrigo pubblicato dalla Fonit Cetra nel 1969. Il pensiero di Pierre Teilhard de Chardin è tratto dall’opera Sur le Bonheur (Seuil 1966), tradotta in italiano da Annetta Daverio con il titolo Sulla felicità (Queriniana 1990; 2013). La frase di Jeanne-Marie Baude proviene dal saggio “La voix nomade de Anne Perrier”, in Gérard Nauroy, Pierre Halen, Anne Spica, Le Désert, un espace paradoxal, atti del convegno all’Università di Metz (13-15 settembre 2001), Peter Lang, Berna 2001. I versi di Anne Perrier si trovano nell’opera La voie nomade (1982-86), in La voie nomade et autres poèmes. Œuvres complètes 1952-2007, L’Éscampette Éditions 2008. I versi di Kenoūa oult Amāstan si trovano in Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Sono mie le traduzioni dal francese.

PPS: La fotografia sotto il “booktrailer” raffigura il regista nell’atto di filmare. Anche la fotografia con i fiori blu rappresenta uno scorcio della Greina: le genziane primaticce (Gentiana verna) mi sembrano una buona immagine, se non della felicità, almeno della speranza.

PPPS: Ecco un altro video, sempre girato sull’altopiano della Greina, in cui le parole dell’incipit lottano contro il vento…

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Ultime bozze

Ho appena consegnato le bozze del romanzo, quando mi arriva una mail dalla casa editrice. Monica scrive che, nel controllare le ciano prima del “visto si stampi”, le è venuto un dubbio. A pagina 36 si dice che Annika aveva nove anni, ma poi a pagina 43 si accenna al suo ottavo compleanno. «Che ne pensi? Come correggiamo?» Faccio un respiro. Mi guardo attorno. La carta, dopo avere conquistato la scrivania e la poltrona, ha invaso ogni superficie libera tranne il soffitto. Mi aggiro sul pavimento, trovo le pagine 36 e 43, controllo i miei appunti, verifico l’età del personaggio, cerco altri riferimenti, paragono la mia versione originale con il pdf già impaginato. Com’è possibile che mi sia sfuggita l’età della bambina? Alla fine per fortuna, dopo un’indagine accurata, riesco a ricostruire le vicende di Annika e della sua famiglia.
Chiamo Monica, che risponde al primo squillo.
«Allora?»
«Ha otto anni.»
«Sicuro?»
«Ho controllato.»
«Bene!» Monica sorride. «Allora possiamo andare avanti.»
Non si finisce mai di scrivere un romanzo. Semplicemente, a un certo punto è il romanzo stesso che ha voglia di vedere il mondo e chiede di andarsene per conto suo. Allora ci si preoccupa. Avrà freddo? Fame? Sete? C’è qualche dettaglio da sistemare, qualche imprecisione, qualche parola da sostituire? Fino all’ultimo l’autore aiuta il romanzo a preparare lo zaino per il viaggio. Ma viene il momento in cui autore, editor, correttori di bozze, redattori, tutti si ritirano nell’ombra. Il romanzo viene affidato ai tipografi. È pronto per partire verso l’ignoto.
Gli Svizzeri muoiono felici uscirà nei primi giorni di settembre per l’editore Guanda. È una storia noir, con l’investigatore Elia Contini, ma è allo stesso tempo il diario di una ricerca esistenziale. È anche la cronaca di un incontro fra culture diverse, paesaggi distanti (la montagna, il deserto) e visioni del mondo che sembrano opposte, inconciliabili. Da tempo mi portavo dentro questa vicenda, ma ero bloccato. Sono infine riuscito a scriverla grazie all’incoraggiamento di qualche amico e ad alcune circostanze favorevoli. Si tratta di un romanzo anomalo e avevo il timore di non riuscire a esprimermi in maniera efficace. Mi è stato utile confrontarmi con altri, in fase di scrittura e di revisione; non solo per le questioni tecniche, ma soprattutto per definire meglio ciò che volevo dire.
Per scavare un pozzo a mano, nel Maghreb, bisogna essere in due: una persona che scava e un’altra che porta fuori la terra con un secchio e una corda. Questo succede anche con la scrittura. Non si tratta di un lavoro totalmente solitario, di un confronto con sé stessi nel proprio recinto, perché di continuo il gesto creativo rimanda a un altrove. Il luogo dove nascono le storie rimane misterioso, come un pozzo nella profondità della terra, e le storie stesse acquistano un senso solo se destinate a un lettore, a qualcuno che le accolga e le renda vive.
A proposito di pozzi. I Tuareg raccontano la storia di due compagni di viaggio che, dopo un lungo cammino nel deserto, arrivano a un pozzo parzialmente ostruito. Uno dei due, impaziente, abbevera il cammello, riempie la borraccia e riparte. L’altro si ferma, rimuove le pietre, riesce a calarsi nel pozzo. Dopo qualche metro trova dell’acqua più buona di quella che affiorava alla superficie. Ma c’è un ingombro di materiali che rende difficoltoso attingere a una maggiore profondità. A questo punto, l’uomo s’interroga: devo accontentarmi di questo rivolo o devo scavare ancora, rischiando e faticando, per cercare un’acqua più fresca, più abbondante, più pura?
È una domanda difficile. Per quanto riguarda la scrittura, credo che ciò che mi spinga a inventare nuove storie sia il bisogno di trovare un’acqua sempre più limpida, insieme al desiderio di condividere quest’acqua. Dopo aver scavato il pozzo, infatti, l’uomo non si limita a proseguire il cammino, ma fabbrica un muro di pietre, perché la fonte non si ostruisca di nuovo e perché il prossimo viaggiatore possa dissetarsi.
Nella mia vita mi è successo di arrivare a pozzi soffocati. Ma ho conosciuto anche libri, luoghi, persone che sono per me come pozzi di acqua viva. Proprio in segno di gratitudine continuo a scavare, a costruire storie e personaggi. Ogni tanto mi sfugge qualche dettaglio, come l’età di Annika… ma per fortuna arriva sempre una mail con un’osservazione o un dubbio dell’ultimo minuto. È proprio vero: per costruire un buon pozzo, bisogna essere (almeno) in due.

PS: Il disegno di un pozzo nel deserto risale al 28 ottobre 1885 e proviene dal taccuino di Charles de Foucauld. La fotografia è di Alain Morel: scattata nel Sahara maliano, a nord di Araouane, raffigura un pozzo profondo che permette di abbeverare le carovane di sale provenienti da Taoudenni. È tratta dal saggio dello stesso Morel intitolato Comprendre les déserts, che si trova in AAVV, Le livre des déserts. Itinéraries scientifiques, littéraires et spirituels, a cura di Bruno Doucey (edizioni Robert Laffont 2006).

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L’uomo senza casa

IMG_9877Ho sempre cercato una casa. Già quando ero bambino, ricordo, mi capitava di sognare una dimora misteriosa, che conteneva file e file di letti, uno per ogni persona che conoscevo. Era uno strano edificio in mezzo ai campi, di colore bianco, anche se in certi sogni diventava una sorta di enorme astronave circolare, che avanzava nello spazio buio e sconosciuto, privo di stelle. L’astronave era luce, presenza di amici, certezza che il tempo non sarebbe finito mai. Quella era la casa.
IMG_9887Nella mia vita ho vissuto in diverse abitazioni, ma mi sono presto reso conto che nessuna di esse bastava a racchiudere ciò che per mancanza di parole più precise continuo a chiamare “casa”. Non desidero diventare proprietario di un edificio, e in ogni caso non sarei tanto ingenuo da pensare che un atto di proprietà possa davvero darmi una casa. Non si tratta di muri e di mobili, né di un giardino con un grill o di un locale hobby nello scantinato. Casa non è famiglia, non basta la famiglia, casa non è tanto meno patria, e neppure sicurezza o lavoro o connessione wi-fi o figli da crescere. È qualcosa che potrei descrivere come un luogo ideale a cui appartenere; un territorio vasto, dove ci si può perdere, ma nel quale riconoscere i punti di riferimento dell’amicizia, della condivisione, della tenerezza.
IMG_9891Nel 2007, scrivendo il romanzo L’uomo senza casa (Guanda 2008), riflettevo proprio su questi argomenti, e tentavo di catturare una definizione che continua a sfuggirmi. Che cos’è che è? La scrittrice Clarice Lispector si pone proprio questa domanda. Se ricevo un regalo dato con affetto da una persona che non mi piace, come si chiama quello che provo? Una persona che non ci piace più, e a cui non piacciamo più, come si chiama questo dispiacere e questo rancore? Essere indaffarati, e improvvisamente fermarsi perché colti da un ozio beato, miracoloso, sorridente e idiota, come si chiama ciò che si è sentito? L’unico modo per chiamare una cosa è chiedere: come si chiama? Finora sono riuscita solo a dare un nome tramite la stessa domanda. Qual è il nome? ed è questo il nome. Anche nel mio caso, dietro la vicenda romanzesca, c’era una domanda – che cosa significa “casa”? – che riuscivo a esprimere unicamente sotto forma di domanda.
FazioliCASA-03.inddL’uomo senza casa racconta di un villaggio di montagna sommerso dall’acqua per la costruzione di una diga. Proprio in quel villaggio è cresciuto Elia Contini, che ora tenta di sbarcare il lunario come investigatore privato nel micro territorio della Svizzera italiana. Ormai non pensa più alla casa della sua infanzia, sepolta sotto litri e litri di acqua, finché un omicidio turba la vita più o meno tranquilla del paese di Malvaglia; e in qualche modo questo delitto è legato alla grande diga, al lago artificiale che dorme pacifico in mezzo ai boschi.

1La diga era sempre lì, sempre uguale. Una lastra grigia che chiudeva il cielo e che pareva la prua di una gigantesca nave incastrata fra le montagne. A vederla da sotto faceva quasi paura. Contini lasciò la macchina in basso e salì a piedi. Dopo un po’ si tolse il cappotto e lo piegò sul braccio: era una bella salita.
Il cielo era limpido. Non si udiva nessun rumore. Ogni tanto si alzava un soffio di vento e la macchia rossa di una bandiera svizzera, accanto a una delle case sotto la diga, segnava la presenza dell’uomo. A un certo punto, passando di fianco alla parete di cemento grigio, Contini udì un ronzio fievole, come il respiro di una bestia dormiente. La diga avrebbe potuto essere un grosso animale, una balena addormentata nel solco della valle.
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Ma è soltanto una diga, pensò Contini. Si fermò. Dalla strada in basso giunsero le note del clacson di un autopostale. Do diesis, mi, la: il richiamo inconfondibile della Posta svizzera. Contini sbuffò e riprese a salire.

L’uomo senza casa era da qualche tempo esaurito, disponibile soltanto in versione digitale. Ora Guanda lo ha appena ripubblicato in edizione tascabile, con una nuova copertina. L’originale presentava un bellissimo disegno dell’artista Guido Scarabottolo; in questo nuovo formato c’è un’illustrazione, altrettanto evocativa, ideata da Mariagloria Posani.
IMG_9883Ho ricevuto ieri qualche copia del romanzo e mi sono divertito a sfogliarlo: tanti anni dopo, mi sembrano le parole di un altro. Qua e là, tuttavia, riconosco l’urgenza della mia domanda. Dietro la suspense e i colpi di scena, dietro gli omicidi e i lunghi inseguimenti sotto la neve, tutti i personaggi stanno cercando – ognuno a modo suo – un luogo da poter chiamare “casa”. Ho riscoperto qualcosa di me stesso anche nella figura dell’assassino, con la sua inquieta solitudine che talvolta sembra irreparabile, e forse pure nel giovane avvocato Chico Malfanti, inesperto del mondo ma desideroso di conoscere, di avvicinarsi al segreto della quotidianità. La vicenda porta i protagonisti su e giù per il Canton Ticino, con una deviazione alle Isole Vergini Britanniche (c’è di mezzo un imbroglio legato alla speculazione edilizia, al riciclaggio di denaro e alle società off shore). Ho riletto la sequenza ambientata a Bellinzona, durante il carnevale Rabadan, e mi sono divertito a seguire il giovane avvocato e lo scorbutico investigatore nelle scintillanti notti luganesi.

69055615@1200*1200-mEra una serata qualunque dell’inverno luganese, con dj Kevin che tuona sopra il parterre del Casanova, promettendo «il sound più assolutamente fuori di tutta Lugano city», mentre giovani lupacchiotti figli di avvocati o banchieri prenotano i tavoli ed escogitano qualcosa per far ridere le ragazze. Fiumi di martini e tequila inondano il locale, la conversazione lotta contro i decibel, finché perfino qualche ragionevole figlio d’impiegato o nipote di pediatra si lascia andare e s’informa: «Ma quanto costa una bottiglia di spumante?»

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Forse, mi viene in mente ora, forse una casa ce l’ho. Non sempre sono pronto a riconoscerla, a volte la perdo o la rifiuto, a volte mi aggiro nelle strade buie dei miei pensieri e mi pare di essere strappato via dal mondo, dalla sua normalità. Se anni fa scrissi questo romanzo, se oggi continuo a scrivere, è soprattutto per portare avanti la mia ricerca, per precisare il mio cammino. A volte ho l’impressione di scrivere semplicemente per intensa curiosità. Il fatto è che, scrivendo, mi abbandono alle più insperate sorprese. È mentre scrivo che spesso prendo coscienza di cose che, essendone prima incosciente, non sapevo di sapere.

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PS: Quest’ultima citazione, così come quella sulla domanda Che cos’è che è?, proviene da La scoperta del mondo (1967-1973), una raccolta di articoli dell’autrice brasiliana Clarice Lispector, pubblicata in italiano da La Tartaruga nel 2001. Le altre citazioni sono tratte da L’uomo senza casa. Trovate qui la scheda del romanzo (oppure sul sito della casa editrice o sul sito Il Libraio).

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