L’arte di raccogliere ciottoli

Anni fa avevo letto in un libro la storia del ciottolo di Makapansgat. Mi ero procurato un’immagine della pietra e l’avevo salvata nel mio telefono. In seguito ho dimenticato sia il titolo del libro, sia la storia del ciottolo. Due giorni fa, cercando un’altra foto, ho ritrovato per caso l’immagine: un sasso che assomiglia a un volto umano, con dei solchi per gli occhi e la bocca.
Ho fatto qualche ricerca e ho letto – riletto, ma era come se fosse la prima volta – che la pietra risale a 2.95 milioni di anni fa ed è stata trovata in una grotta a Makapansgat, in Sudafrica Si tratta di un diaspro di colore rosso-brunastro. Accanto al ciottolo c’erano dei resti di Australopithecus africanus. Il materiale di cui è composta la pietra non proviene dai dintorni: qualcuno deve averla raccolta altrove e portata con sé.
Che cosa spinse quell’ominide a trascinarsi dietro il ciottolo per molti chilometri? Non è difficile capirlo: anche a me piace raccogliere sassi, tanto più se ne trovo uno che assomiglia a una faccia. Ma io vivo all’inizio del Ventunesimo secolo e sono abituato ad attribuire un valore simbolico agli oggetti. Per arrivare a me il percorso è stato lungo: gli antenati degli esseri umani impararono lentamente che le cose potevano assomigliare ad altre cose. È quello che succede ai bambini, quando riconoscono nei nostri disegni stilizzati un uomo, una donna, una casa, un gatto.

Il ciottolo di Makapansgat è un oggetto artistico, forse il primo in assoluto. Non è stato creato da un essere umano, poiché la sua origine è naturale. Ma una persona l’ha visto, l’ha afferrato. Immagino la sua meraviglia. Non ha nemmeno potuto indicarlo a qualcuno ed esclamare “ehi, guarda, sembra la tua faccia!”, perché ancora non si era sviluppato il linguaggio. Sono convinto però che l’avrà mostrato con fierezza ai membri del proprio clan. E gli altri l’avranno ammirato a bocca aperta. Forse qualcuno avrà scosso il capo, pensando che raccattare sassi fosse una perdita di tempo. Ancora oggi c’è gente che la pensa così.
Quando ci penso, quel gesto mi commuove. Il ciottolo venne raccolto quando gli ominidi ancora non sapevano costruire utensili in pietra, più di un milione di anni prima che imparassero a controllare il fuoco. Le manifestazioni artistiche dirette, come le incisioni rupestri, sarebbero arrivate centinaia di migliaia di anni più tardi. Gli scienziati discutono sulla reale portata di quell’azione, ma non voglio addentrarmi nella diatriba. Per me oggi basta questo: riconoscere il proprio volto nelle cose del mondo, senza costruire o modificare niente, è l’inizio di ogni storia. Tutta l’arte, tutta la letteratura nacque nel momento in cui un ominide tirò su una pietra e se la mise in tasca (in una proto-tasca), proprio dove noi teniamo il telefono e il portafogli. Mi piace immaginare che fosse un luminoso mattino di primavera.
Come sempre, in occasione del mio compleanno, mi trovo a riflettere su di me, sul mio mestiere. Credo che il ciottolo di Makapansgat sia una sorta di manifesto anche per un narratore. Le storie non si traggono dal nulla, ma esistono già: bisogna solo raccoglierle da terra. La poesia non è un’invenzione, ma un riconoscimento. Questo mi aiuta nei momenti in cui mi chiedo che cosa fare, che direzione dare alla mia scrittura, come lavorare a un testo. Nella pratica quotidiana, anno dopo anno, mi rendo conto che non si tratta di affermare la mia personalità, bensì di lasciare spazio al mondo, perché esso si rifletta nelle mie parole.
Chissà, forse la prima volta in cui mi capitò di leggere la storia del ciottolo avevo sviluppato dei pensieri simili. In ogni caso, poi ho dimenticato tutto finché lunedì scorso, passeggiando fra le fotografie conservate nel mio telefono, ho raccolto il ciottolo un’altra volta. Anche questo mi conforta: dimenticare le cose non è per forza un male, anzi, può essere un’opportunità per continuare a riscoprirle.
Per fortuna, là fuori l’universo è pieno di ciottoli.

PS: Negli ultimi mesi scrivo poco in questo blog. Non so nemmeno il perché. In generale, faccio fatica a usare anche i social network e le forme di comunicazione immediata. Credo tuttavia che sia giusto fare uno sforzo per proseguire anche questo tipo di scrittura, insieme a quella più lenta e più meditata delle mie pubblicazioni “ufficiali”. Quindi, tornerò a farmi vivo, presto o tardi…
Intanto, per chi segue ogni tanto anche il blog, voglio festeggiare il compleanno con un breve inedito, come vuole la tradizione. S’intitola Pensieri dell’ingorgo.

Leggi Pensieri dell’ingorgo

(Il testo è già stato pubblicato in un volume a tiratura limitata, un omaggio a più voci al poeta Alberto Nessi: AAVV, Rampe di lancio doganieri nuvole, Omaggio ad Alberto Nessi, a cura della Casa della letteratura per la Svizzera italiana, Bellinzona, Edizioni sottoscala, 2020.)

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Il blu e il noir

Sono seduto in una stanza fredda. Di fronte a me non c’è nessuna cosa blu. Un computer grigio, qualche libro rosso, uno marrone, uno giallo, una penna rossa, un tagliacarte argenteo. Carta bianca, camicia rossa e nera, lampada gialla. È una stanza spoglia, in una casa di montagna.  Davanti a me il muro (bianco) e una finestra con le imposte rosse dalle quali traspare il chiarore del sole. Perché dovrebbero esserci cose blu? Non lo so. Però mi dispiace che non ci siano. Certo, i miei occhi sono blu e chissà, forse improntano il mondo con la loro bluità. Nel dubbio, appoggio accanto alla scrivania la mia penna stilografica (azzurra, con inchiostro blu) e una copia di Une histoire de bleu, di Jean-Michel Maulpoix. Sfogliando il volume di poesie, m’imbatto in una frase che mi sembra adatta a inaugurare un nuovo anno: «Je contemple dans le language le bleu du ciel», contemplo nel linguaggio il blu del cielo.
Il linguaggio per me ha parecchie tinte oscure. Del resto nemmeno il cielo è veramente blu, secondo gli esperti. Ma che cosa importa? Il blu è il colore della lontananza e dell’intimità: fra questi due poli si muove il mio tentativo di dire qualcosa con le parole. Il blu è anche il colore dei fiumi, che sono i maestri di ogni narratore.

Il testo di Maulpoix contiene altre osservazioni memorabili. Traduco: «Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. […] Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani.» Se si rinuncia al linguaggio come mezzo di possesso, allora le parole saranno un modo per toccare «con le mani»; e come sappiamo fin da bambini, il desiderio di toccare le cose riflette quello di conoscerle davvero, con la nostra pelle.

Manca poco a Capodanno. Mi torna alla mente un racconto che scrissi in primavera e che, tuttavia, anticipava il 31 dicembre. S’intitola Il custode dell’abisso ed è contenuto nell’antologia Un lungo Capodanno in noir, edita da Guanda qualche settimana fa. Gli altri autori sono Gianni Biondillo, Gian Andrea Cerone, Luca Crovi, Giancarlo De Cataldo, Marco De Franchi, Diego De Silva, Marcello Fois, Leonardo Gori e Marco Vichi, che è il curatore della raccolta. La mia storia racconta di un uomo ossessionato dall’intelligenza artificiale. L’investigatore Elia Contini affronta un caso minimo, sospeso fra l’assurdo e il mistero che formano il cuore degli esseri umani. Il valore di questo libro, per me, consiste soprattutto nella possibilità di condividere la tecnica e il senso di un mestiere. Il cosiddetto mondo letterario purtroppo è spesso composto da monadi, da colossali ego che si urtano fra loro come continenti alla deriva. Una casa editrice che inviti degli autori ad affrontare un tema invita anche allo scambio, al confronto, al contatto diretto fra scrittori che vivono in luoghi diversi e che scrivono con colori diversi (ma un po’ di blu non manca mai, mescolato con il noir).
La motivazione profonda del mio scrivere discende dal mio essere lettore (e prima ancora ascoltatore e narratore di storie trasmesse oralmente). Perciò, fin dalla primavera, mi rallegravo non solo per l’opportunità di scrivere un racconto venato di malinconie capodannesche, ma soprattutto per la prospettiva di leggere i racconti degli altri, di entrare nel loro mondo. Il che è anche un modo per sentirmi meno solo.
Stamani, mentre caricavo i bagagli in automobile per salire in montagna, una delle mie figlie mi ha fatto notare come fosse nitido il mio riflesso sulla fiancata della macchina. «È quasi uno specchio!» A me sembrava molto confuso, ma ho provato a scattare una fotografia. In effetti l’immagine mi pare assai offuscata… in compenso non è priva di atmosfera. Mi colpisce la presenza dell’ambiguo e dell’ignoto. Sulla sinistra è comparso una sorta di paesaggio innevato (che non c’era) e addirittura quello che potrebbe essere un abete solitario. La casa alle mie spalle è diventata una dimora quasi spettrale. E il mio volto sfocato sembra invocare la grazia di un compimento, di un tratto che restituisca il blu allo sguardo.

Ecco, per me ogni esperienza di condivisione artistica è un passo verso il compimento. Non mi addentro nei dettagli delle singole esperienze (magari aggiungo un Post Scriptum), ma voglio ribadire che Un lungo Capodanno in noir è una di queste. Se la scrittura è la ricerca del proprio volto umano (a partire da un riflesso, da un richiamo), allora tale ricerca deve per forza implicare la presenza degli altri: prima del nostro, infatti, vediamo il volto degli altri, a partire dalla nascita e dal volto materno fino all’ultimo che riusciremo a contemplare, prima di chiudere gli occhi per sempre.
Sono partito con l’idea di scrivere qualcosa sul Capodanno e mi ritrovo a parlare della morte. 
Non era pianificato. A pensarci però mi sembra inevitabile.
Così funziona il mondo. È nella terra dura che dormono i semi, nell’aria tagliente che fioriscono i germogli. Per fortuna, il ghiaccio della pagina bianca prima o poi lascia sempre spazio all’azzurro di un fiume, anche solo di un rigagnolo. Auguro a tutte le lettrici e i lettori di questo blog un anno ricco di ruscelli, di blu, di volti da scoprire e, in generale, di meraviglia. Buon 2024!
Concludo con un estratto dal racconto Il custode dell’abisso

Ci sono persone che sono felici il 31 dicembre. Carlo ne conosceva qualcuna fin dall’adolescenza. Addirittura c’è chi a Capodanno trova l’amore, o qualcosa che ci assomiglia. Il mondo è vario: c’è chi adora il conto alla rovescia. Altri invece, presagendo la sconfitta, riescono a trovare una scusa: basta un raffreddore al momento giusto.
Carlo, invece, cominciava ad agitarsi verso la fine di novembre. Quale invito accettare? E se avesse sbagliato festa? E se fosse capitato per sbaglio a una cena fra coppiette?
Tutto questo a vent’anni è sopportabile, anzi, c’è una sorta di amaro compiacimento nel pensare a sé stesso come a un lupo solitario. A trent’anni invece sei prigioniero dei tuoi desideri, come sbarre di ferro, e non puoi evadere dalla gabbia sociale. Dopo i quaranta provi a metterla sul ridere, ma quando sei solo in cucina il mattino del 31 dicembre, dopo colazione, è difficile fingere di non sapere tutto. 
L’aperitivo, la musica sempre troppo forte, gli ehi-com’è-tutto-a-posto-non-ci-vediamo-da-un-po’, le chiacchiere sullo sport e sul lavoro, gli amici con figli e i relativi beati-voi-che-fate-festa-noi-invece-a-letto-presto. Poi la cena, l’amico esperto di vini, quello che si è comprato una barca, quello che corre in salita e sembra uno spaventapasseri, quello che produce in casa la birra e il pane. Le solite lenticchie, la solita euforia. Infine si va in piazza, dove c’è un palco con gente pagata per gridare, la musica di nuovo troppo forte, i fuochi d’artificio sul lago, oh, meraviglia, ma quanto costeranno? E la prospettiva di bere quel tanto che basta per riuscire a resistere fino al cinque quattro tre due uno, o forse un po’ di più, forse quel tanto che basta per dimenticare tutto il giorno dopo.

PS: Il testo di Jean-Michel Maulpoix è tratto da Une histoire de bleu, Gallimard, Paris 2005 (ed. orig. 1992). Si trova nelle sezione “Carnet d’un éphémère”. Ecco una traduzione dell’intera prosa.

Contemplo nel linguaggio il blu del cielo.

Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. Mi si addice la loro cecità: io sono un sognatore irriducibile. Le parole hanno un modo tutto loro per dissipare il mistero aumentandolo, e non mi rivelano niente di cui prima non abbiano deformato i tratti. Conosco i loro inganni e mi ci sono rassegnato. Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani. Anche solo per ravvivarne il dolore, concedo al linguaggio di corteggiare l’impossibile. La scrittura non è mai troppo ricca di desideri o di menzogne per chi faccia un uso tragico delle sue maschere. Sapendo la sua vanità, non vi rinuncia ma la coltiva come un veleno. Da quel momento niente l’ossessiona più di questa duplicità, dalla quale riconosce che sta diventando un uomo.

PPS: Chi legge questo blog si sarà accorto che gli aggiornamenti sono discontinui. Non è per trascuratezza, ma perché mi sembra opportuno misurare le parole. Il vantaggio di un blog, rispetto a qualunque social network, è che non chiede niente, né “like” o condivisioni, né pubblicità. Quindi pubblico qualcosa quando ne ho voglia, senza darmi nessuna scadenza.

PPPS: Una precisazione sulla creatività condivisa. Per me accade prima di tutto, e in maniera profonda, nella scrittura a quattro mani con Yari Bernasconi. Insieme abbiamo creato una “terza voce”: Yari Bernasconi & Andrea Fazioli è un’entità diversa da YB e AF intesi come autori singoli. Ma tale condivisione si è verificata anche quando ho collaborato con musicisti, pittori, registi teatrali e cinematografici. Vorrei citare almeno Marco Pagani e Fabio Pellegrinelli, con i quali ho sceneggiato La tentazione di esistere (Rough Cat 2023), un film diretto dallo stesso Pellegrinelli, che dopo avere vinto il festival di Benevento, è fra le opere selezionate per il prossimo Premio del cinema svizzero.

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Un selfie banale (e buon Natale!)

Siamo io e lui. Come sempre. Io pedalo controvento, ai margini dei campi, mentre lui scivola al mio fianco, leggero, leggerissimo, come io non sarò mai. Io tendo i muscoli, sudo, respiro l’aria fredda con la bocca. E lui? L’Andrea d’ombra è un pensiero di sfuggita, una rapina. Fugace come il dito di un illusionista.
La terra è chiusa nell’inverno, con il promemoria di qualche ciuffo d’erba color verde sciupato. Ma l’Andrea d’ombra non sente la terra, la sfiora appena.

Vedi, le crepe fra le zolle somigliano alle mie domande. Sciocchezze, bisbiglia l’Andrea d’ombra. Un anno è andato, bene o male. C’è stato il male, sì. La fine di questo e di quello, e le persone in fuga e gli strappi e le ferite della morte, un colpo alla volta. E guerre. E sangue. Non fermarti, mormora l’Andrea d’ombra. Hai avuto anche la felicità, la resistenza. Se lo dici tu. Ma sì, occhi sgranati, castagne d’India in un cortile, pane, alberi, cuscini sprimacciati, l’incanto e le parole…
Ma che stai dicendo?
Non ti fidi.
Come potrei? Sei ombra, senza ferite.
Non è vero: custodisco le tue. E so che tutto quello che ti serve, ora, è questa strada di campagna, con l’asfalto un poco sconnesso, questo indugio del sole nel tardo pomeriggio.

Come ogni vigilia di Natale, io e l’Andrea d’ombra facciamo il punto della situazione. Come sempre mi lamento per i progetti incompiuti, per le pagine scritte che non sono come vorrei. E per fortuna, dice lui. Poi mi chiede: non sei contento di quel libretto? Quale libretto? Ma sì: Manca poco a Natale, appena pubblicato da Gabriele Capelli. Ma quello non è opera mia, rispondo. Come no? Dice: illustrato da Antoine Déprez, scritto da Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. Appunto. Yari Bernasconi & Andrea Fazioli sono un’entità indipendente, diversa sia da Yari Bernasconi, sia da Andrea Fazioli, sia dallo Yari d’ombra, sia dall’Andrea d’ombra. E non dimenticare Yari Bernasconi & Andrea Fazioli d’ombra. Sì, hai ragione. Anche la & può essere una & d’ombra.
Insomma, siamo una mezza dozzina.
Solo gli autori. Ma se aggiungi anche i personaggi…
Basta, basta, ho capito. Ogni libro nasconde una folla.
E anche una follia…
Così, mentre la bicicletta sfreccia, io e l’Andrea d’ombra passiamo il tempo fra battibecchi e pessimi giochi di parole. Cose minuscole. In una poesia del libretto ci sono queste parole: «“Anche le cose più comuni / sono straordinarie” diceva mio nonno / con gli occhi, camminando».
Il Natale è anche questo, semplicemente: un gesto d’attenzione. La vastità mutata in piccolezza, l’intuizione che le cose banali covano in sé la meraviglia. Il prodigio è il mondo che ogni mattina si presenta come nuovo, nonostante tutto. «Quello che ci rende possibile continuare a vivere è il costante inizio», scrisse Romano Guardini. Il «nuovo» si presenta ogni giorno «con ogni compito e incontro; con ogni dolore e ogni gioia». Spesso noi «intendiamo per nuovo quanto ci eccita. Solo di rado siamo pronti ad avvertire il nuovo in quel che è piccolo e sommesso».
Anche la letteratura è un fermento di cose banali che diventano necessarie, che rivelano sé stesse (e noi che scriviamo, che leggiamo). In una lirica di Manca poco a Natale appare un personaggio – idealmente un ragazzino – che affida il dopopranzo natalizio all’immaginazione.

E quando inizia a voltare le pagine
oltre il brusio del pranzo
e dei parenti, dal suo angolo discosto,
l’orizzonte perde i contorni.
Come gli gnomi, adesso,
cavalca i cinghiali e soccorre le volpi,
siede guardingo con i gufi sull’orlo
della notte, attendendo l’oscurità
di quelle valli boscose che cercano
un nome.

Il desiderio di un Natale «piccolo e sommesso» ha guidato Yari Bernasconi & Andrea Fazioli nella stesura dei testi lirici che compongono il libretto. E questo è anche l’augurio mio (e di tutta la mezza dozzina di autori) per questo Natale: che sia piccolo e silenzioso, ma promettente. Come una serie di tracce sulla neve che portano a un rifugio, a un calore. Buon Natale!

PS: Il libretto Manca poco a Natale è stato stampato in edizione limitata a 500 esemplari, di cui circa 330 in commercio. Non so se sia ancora disponibile. Per informazioni, potete scrivere a gabrielecapellieditore@gmail.com.

PPS: Le parole di Romano Guardini sono tratte da Nähe des Herrn. Betrachtungen über Advent, Weihnachten, Jahreswende und Epiphanie, TOPOS-Taschenbuch, Matthias Grünewald Verlag, Mainz, 1992, traduzione italiana di Giulio Colombi in Natale e Capodanno, Morcelliana, Brescia 1995.

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Ho perso il mio scudo!

Circa duemilasettecento anni fa un soldato greco si trovò a combattere contro i Sai, un popolo della Tracia. Questo soldato si chiamava Archiloco ed era nato a Paro, nell’arcipelago delle Cicladi, ma poi si era trasferito a nord, nell’isola di Taso. Qualcuno dice che suo padre fosse un nobile e sua madre una schiava. Altri raccontano che in gioventù, mentre viaggiava di notte con una vacca da vendere al mercato, Archiloco si sarebbe imbattuto in un gruppo di fanciulle che tornavano dai campi. Dopo qualche battuta scherzosa le fanciulle si dileguarono, e con loro anche la vacca. Invece del bovino il ragazzo avrebbe trovato uno strumento musicale: una lira deposta sull’erba. Che pensare? Di certo le ragazze erano le Muse e la lira un invito a diventare poeta. Archiloco dunque affinò la pratica delle armi insieme a quella delle parole. Non era incline a descrivere la guerra in maniera epica, ma preferiva mettere l’accento sui dettagli della vita quotidiana: «La lancia mi dà il pane, mi dà il vino la lancia, / questo vino che bevo appoggiato alla lancia».

Un giorno, lottando contro i Sai, Archiloco se la vide brutta. Nel trambusto fu costretto a nascondersi e poi a fuggire. Per non rischiare di venire catturato, abbandonò il suo scudo. Alla fine riuscì a salvarsi e lo scudo, probabilmente, venne rubato da uno dei Sai.
Non era un’azione di cui vantarsi. Allora come oggi, il destino degli eroi era quello di morire di morte eroica. Le donne spartane invitavano i loro figli a tornare o con lo scudo (e quindi vittoriosi) o sopra lo scudo (e quindi morti), ma in nessun caso senza scudo. La parola ῥίψασπις, che significa “persona che getta lo scudo e fugge dalla battaglia” non era certo un complimento. Eppure fu lo stesso Archiloco a raccontare la sua avventura in quattro versi che divennero celebri.

Ἄσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἣν παρὰ θάμνῳ,
ἔντος ἀμώμητον, κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ’ ἐξεσάωσα. τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω.

Sono due distici elegiaci, formati da un esametro e un pentametro, entrambi dattilici (qui potete ascoltare come suonano). All’inizio del primo distico nomina subito lo scudo (Ἄσπίδι), mentre all’inizio del secondo nomina nomina sé stesso (αὐτὸν). In questo modo mette in evidenza l’antitesi fra lo scudo (perso) e la vita (salvata). Nella traduzione ho cercato di rendere questa opposizione, creando un contrasto fra il primo e il terzo verso. Ho messo inoltre in evidenza l’io poetico che, in spregio alla retorica guerresca, preferisce scampare a una morte gloriosa.

Ho lasciato lo scudo fra i cespugli, a malincuore,
un’arma senza macchia. Se ne vanta un soldato dei Sai, ma io
ho salvato la vita. E che m’importa dello scudo?
Vada in malora! Ne prenderò un altro e non sarà peggiore.

Gli studiosi divergono sul significato di questi versi. In genere si pensa che Archiloco abbia voluto sottolineare l’importanza della salvezza, che vale più del codice d’onore militare. Alcuni tuttavia sottolineano la rabbia per avere perso lo scudo e, nell’ultimo verso, mettono in risalto la volontà di rivalsa. In ogni caso, dopo Archiloco, altri poeti ripresero il tema dello scudo abbandonato (Alceo e Anacreonte fra i greci, Orazio fra i latini).

Oggi è il mio compleanno. Non so bene perché proprio oggi abbia ripensato a questo classico, che dormiva negli archivi polverosi della mia mente. Comunque ho notato due cose. Primo: è vero che abbandonando lo scudo si fugge dal nemico, ma nello stesso tempo si è più esposti. Secondo: imparare a combattere senza scudo può essere il segreto per togliersi d’impiccio.
Mi è capitato di abbandonare numerosi scudi, lo confesso. Ma non ho avuto l’impressione di fuggire: anzi, senza schermi la mia percezione si è affinata. Ho scoperto che l’unico modo per essere davvero nel mondo, per essere qui e ora, è accettare di essere vunerabili.
Non amo voltarmi indietro a guardare i cespugli del passato, ma il giorno del proprio compleanno come si fa a evitarlo? Quante armature complete e corazze di piastra ho tentato d’indossare in tutti questi anni. E quanta fatica per capire come fronteggiare i nemici senza protezione: bisogna allenare l’arte della parata e della schivata, bisogna tenere le orecchie e gli occhi aperti, sopportare le ferite e, quando necessario, fuggire. Ci vuole coraggio. Chi l’ha mai detto che si debba vincere combattendo fra gli eserciti che invadono le pianure? Certe battaglie vanno risolte in montagna, nel silenzio, con l’arma della pazienza. Quando sono lassù mi rendo conto di essere il peggior nemico di me stesso.
Come raggiungere la salvezza? Non certo grazie al mio sforzo, che mi porterebbe ad appesantirmi con gli scudi e le piastre di ferro. È facile accorgermi del male che abita dentro di me. Più difficile è avvistare il bene, che si presenta all’improvviso, in maniera gratuita e sorprendente. Arriva sempre dagli altri, dagli incontri, dagli scambi. Non si può costringere in una definizione. È un momento di grazia.

PS: A proposito di grazia. Di solito il giorno del mio compleanno condivido con i lettori di questo blog un racconto inedito. Quest’anno propongo una breve storia intitolata proprio Grazia e scritta l’anno scorso per Rete 2, il canale culturale della radio svizzera (RSI). Il progetto “I nuovi sillabari”, a cura di Sandra Sain, è un omaggio a Goffredo Parise: 20 autrici e autori svizzeri di lingua italiana hanno immaginato un testo ispirato a una singola parola, come fece Parise nei suoi Sillabari. A me è toccata la parola “grazia”

ASCOLTA IL RACCONTO GRAZIA

PPS: Tradizionalmente, riepilogo anche alcune pubblicazioni uscite nell’ultimo anno. Per prima cosa segnalo Le strade oscure, pubblicato da Guanda. Qui sotto vedete il “booktrailer”. Poi sono uscite alcune traduzioni in tedesco: In Zürich auf dem Mond per Limmatverlag (A Zurigo sulla luna, scritto con Yari Bernasconi e pubblicato da Capelli nel 2021); Tod in den Bergen per Btb Verlag – Randomhouse (Gli Svizzeri muoiono felici, Guanda 2018), Wachtmeister Studers Ferien per Atlantis Verlag (Le vacanze di Studer, scritto con Friedrich Glauser, Casagrande 2020); Damals im Tessin per Atlantis Verlag (L’uomo senza casa, Guanda 2018, già tradotto da Btb con il titolo di Am Grund des Sees nel 2009). Una traduzione in lettone: Kalnu Klusumus per Latvijas Mediji (La sparizione, Guanda 2010). In allegato al “Corriere della Sera” è uscita una riedizione de L’arte del fallimento, nella collana “Noir. Il lato oscuro delle cose”, a cura di Carlo Lucarelli.

Per quanto riguarda i progetti in corso, mi limito a dire che sto lavorando a un saggio-romanzo e a un paio di racconti per delle antologie; inoltre sto riordinando le prose brevi che ho scritto nel corso degli anni. Sto lavorando anche insieme a Yari Bernasconi: abbiamo diversi progetti in cantiere.
Infine, è uscito il film di Fabio Pellegrinelli La tentazione di esistere, prodotto da Rough Cat. Con Marco Pagani e lo stesso Pellegrinelli ho scritto il copione e la sceneggiatura. Qui sotto potete vedere il trailer.

PPPS: Per questo articolo ho tradotto due frammenti di Archiloco rispolverando il mio greco antico (un po’ rugginoso, ormai). Il primo, quello che parla della lancia, è pure un distico elegiaco. Ecco il testo originale: Ἐν δορὶ μέν μοι μᾶζα μεμαγμένη, ἐν δορὶ δ’οἶνος / Ἰσμαρικὸς, πίνω δ’ἐν δορὶ κεκλιμένος.
Su Archiloco ho consultato i seguenti volumi: Archiloco, Frammenti, con un saggio di Bruno Gentili, traduzione e cura di Nicoletta Russello, Rizzoli, Milano 1993; AAVV, Lirici greci dell’età arcaica, a cura di Enzo Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1994; Massimiliano Ornaghi, La lira, la vacca e le donne insolenti, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009; Maria Chiara Martinelli, Gli strumenti del poeta: elementi di metrica greca, Cappelli, Bologna 1997.
È curiosa, fra le varie traduzioni del frammento sullo scudo, quella che fece Giuseppe Fraccaroli all’inizio del XX secolo, cercando di ricreare nei versi italiani gli accenti della metrica latina. Si trova in G. Fraccaroli, I lirici greci: elegia e giambo, vol. 1, Bocca, Torino 1910.

Povero scudo! non so – chi de’ Sai se n’adorni: alla macchia,
splendido arnese, io l’ho – proprio dovuto buttar…
Ci ho guadagnato, però, – la pelle. E che al diavolo vada
quello scudo! N’avrò – presto uno ancora miglior!

PPPPS: La prima fotografia è di dominio pubblico: è il ritratto di un guerriero accovacciato con uno scudo e risale al 560 a. C. (Archiloco visse intorno al 650 a. C, ma non ho trovato scudi di quell’epoca). La seconda ritrae una Genziana primaticcia (Gentiana verna), uno dei primi fiori a sbocciare dopo l’inverno; cresce fino a tremilacinquecento metri di quota e pure oltre. L’ho fotografata sull’altopiano della Greina, in Svizzera, fra il canton Ticino e il canton Grigioni. Credo che anche questa genziana, come il poeta soldato Archiloco, conosca bene l’arte della sopravvivenza.

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Le cose necessarie

Mentre passeggiavo in una piccola città ho visto un biglietto sul marciapiede. Era lungo circa quattro per venti centimetri e conteneva un testo scritto a computer con un carattere minuscolo (forse Cambria dimensione 5). Era difficile da decifrare. La prima riga: «ecologia: stu t re k es Org:ess vi costcost da un complena di org vit». E qualche riga dopo: «flusso di ene=corrente/spostam di E da un punto ad un altro della catena». Dopo un po’ ho capito che era uno di quei foglietti sui quali gli studenti annotano ciò che devono imparare a memoria, con la speranza di sbirciare le informazioni durante le verifiche scritte. Dalle mie parti si chiamano “bigini”.

È un imbroglio, ma non si può negare che ci sia qualcosa di significativo nel costringere quanta più conoscenza nel minore spazio possibile. Inoltre, in un’epoca virtuale come la nostra, si tratta pur sempre di un buon vecchio bigino ritagliato a mano, su carta, come ai vecchi tempi. Chissà se il foglietto è stato smarrito prima o dopo la verifica. Immagino l’artefice del bigino seduto al suo banco, pronto a sfoderare la sua arma segreta. Cerca nella tasca… ma è vuota. Nella borsa? Nell’astuccio? Nel diario? Niente, il bigino non si trova. Tanta minuziosa fatica è andata sprecata… non resta che fare i conti con la propria memoria.
Questo ritrovamento mi ha fatto riflettere. Forse succede così anche a me? Tanti romanzi, racconti, saggi, segni neri sul bianco, anno dopo anno. Ma che cosa rimane? Prima o poi il tempo cancella ogni parola scritta, dal bigino al romanzo, dalla lirica d’amore alla lista della spesa. Può restare un frammento di emozione, il fantasma di un personaggio, lo straccio di un pensiero. Ma ogni memoria presto o tardi perde la presa.
Tutto passa.
Una banalità, certo.
Ma quando s’incide nella carne, nella quotidianità, è sempre un’esperienza nuova.
Comunque, è un giornata di sole. La cosa migliore sarebbe uscire, fare un giro in bicicletta, non lasciare che i pensieri si avvitino. Ma oggi ho una scusa: è il mio compleanno. Ci passiamo tutti, no? Dopo i cinque o sei anni di età, la percezione del tempo si fa sempre più acuta, e uno finisce per mettere nel calderone tutto quanto (i bigini, i romanzi, le giornate di sole).

Sarà poi vero che tutto passa? Certo: fra cento anni non ci sarà più traccia né di me né di voi che state leggendo queste righe. Ma c’è qualcosa, nel profondo della natura umana, come un bisbiglio, una voce fragile che sussurra: non è vero, non è così. Non vorrei parlare ora delle credenze personali: la fiducia nei figli, nella specie umana, nelle idee che fioriranno. Non vorrei nemmeno mettere a tema la fede in Dio e la speranza in un aldilà. Mi fermo molto prima. Da dove vengono le parole del bigino? Sono le cose indispensabili, quelle da sapere, lo stretto necessario. Da dove vengono le mie storie? Sono le stesse che i nostri progenitori raccontavano un milione di anni fa e che i nostri discendenti racconteranno fra un milione di anni, se ci saranno ancora esseri umani. La storia di un eroe che parte e scopre il mondo, la storia di uno straniero che arriva nel villaggio. È tutto qui. Ancora una volta, le cose necessarie. Ecco, io credo che se c’è qualcosa invece di niente, vuol dire che qualcosa è necessario. Altrimenti non ci sarebbe. E perdonatemi questi numeri da giocoliere (il giorno del proprio compleanno si manifesta con più intensità la tentazione di filosofeggiare).
Comunque, per dirla in maniera meno tortuosa, riconoscere le cose necessarie è forse l’esperienza più grande, l’insegnamento più saggio che una persona possa apprendere in tutta la vita. L’ironia è che in fondo, appena nati, abbiamo un’idea assai chiara delle cose necessarie, così come spesso, probabilmente, tendiamo ad averla durante la vecchiaia. È durante il cammino che perdiamo di vista l’essenziale. E forse, per allenarsi a riconoscere l’imprescindibile, può essere un esercizio utile anche compilare un bigino. E soprattutto perderlo. Ciò che rimane dopo lo smarrimento, dopo la malinconia, dopo i ragionamenti sul tempo e sulla morte. Ciò che rimane sono le cose necessarie.

PS: Il giorno del mio compleanno, di solito, condivido un racconto inedito con le lettrici e i lettori del blog. Quest’anno in realtà mi sembra di avere detto fin troppo. Ma per chi volesse ancora una storia, ecco un raccontino su Alessandro Magno, scritto nell’estate del 2021. (Ho già condiviso qui altri racconti sullo stesso personaggio: piano piano sto cercando di capirlo.)

Leggi Il mercante e il conquistatore

PPS: Per chi invece volesse andare oltre le parole, condivido il sax tenore di Sonny Rollins, accompagnato nel 1962 da Jim Hall alla chitarra, Bob Cranshaw al contrabbasso e Ben Riley alla batteria. Where are you è una vecchia canzone del 1937, scritta da Jimmy McHugh con le parole di Harold Adamson. È diventata uno standard del jazz e non solo, interpretata dai più grandi, da Frank Sinatra a Duke Ellington, da Dexter Gordon ad Aretha Franklin, da Ella Fitzgerald a Bob Dylan. «All life through must I go on pretending?», canta il sax di Rollins. Per tutta la vita devo continuare a fingere? «Where is my happy ending? Where are you?» Dov’è il mio lieto fine? Dove sei?

PPPS: La prima foto rappresenta il bigino. La seconda foto rappresenta una cosa necessaria (due, contando la scopa sullo sfondo).

PPPPS: Oggi un amico mi ha ricordato un verso di Giorgio Orelli: «”Il tempo passa. Tutto passa. Eccetera”.» (da “Una sorpresa sempre uguale spiuma”, v. 10, in Né bianco né viola, 1944). Mi sembra che si adegui alla circostanza.

PPPPPS: È una giornata di sole, lo so. Ora esco e faccio un giro in bicicletta.

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