A a B b C c

CARTOLINE (NOVEMBRE)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 41
Dalla foresta



Né giovani né vecchi, ci siamo ritrovati dentro una buia foresta. Era un bosco boscoso, fitto, intricato. All’inizio non c’era nient’altro che rami contorti, cespugli, rocce, burroni. Mentre meditavamo su dove fosse il nord, abbiamo incontrato un cavaliere che avanzava a piedi. Ricoperto dall’armatura, con un pesante spadone, correva trafelato. Non si è fermato nemmeno per salutare, così non abbiamo capito se inseguisse un’elusiva fanciulla o il suo cavallo (forse entrambi). Era proprio una gran selva, dove si può solo fallire la propria via: chi su, chi giù, chi qua, chi là, tutti si perdono. A un tratto abbiamo udito un urlo formidabile, mentre una figura indistinta passava fra i rami più alti. Allora ci è tornato in mente l’inizio di questa storia: siamo entrati nella selva tanto tempo fa, quando eravamo bambini. Ci eravamo inoltrati in una radura armati di arco e frecce, vestiti di verde. Il sole disegnava arabeschi sull’erba, mentre noi procedevamo con cautela, attenti a ogni dettaglio. Come vedi, siamo ancora qui.

CARTOLINA NUMERO 42
Da Ginevra, Svizzera


È la città degli incontri: dalla Ginevra internazionale, con gli stuoli di diplomatici, gli avvocati, i congressi delle multinazionali e gli alberghi chic, alla Ginevra umanitaria e attivista, con gli istituti, le associazioni, la Croce Rossa. Per non parlare della Ginevra finanziaria, con i business lunch e le Bentley, e quella storico-culturale, con i musei, le statue, le manifestazioni… S’incontrano tutti, a Ginevra. Tutti, tranne noi due. Le premesse erano ottime: Salone del libro. Come sbagliarsi? Uscire dalla stazione Genève-Aéroport, camminare per cinque minuti in direzione del Palexpo, entrare nella fiera. Fine. Così abbiamo allineato gli orologi e ci siamo dati appuntamento proprio all’entrata alle 14:30. Peccato non aver pensato a controllare il giorno. Confusi dal fatto che alcuni venerdì soleggiati somigliano terribilmente ai sabati, e che ogni tanto i sabati – da sempre un po’ libertari – s’incaponiscono per allontanarsi dalle domeniche, eccoci qui: uno con la penna in mano, l’altro al telefono. Uno a casa, l’altro a Ginevra. Non stupirti se le firme ti sembreranno simili: siamo in due, ma la mano è una. 

CARTOLINA NUMERO 43
Dall’Altaripa Resort***, Europa Sud, Marte


È stato un viaggio lungo e complicato, inutile nasconderlo. Tanto più che avevamo un solo traduttore automatico in due (l’altro l’abbiamo dimenticato nella stazione di transito dello Spazioporto di Gravellona Toce). Dopo l’ammartaggio, però, siamo arrivati comodamente in albergo con i treni digitali e ci siamo potuti riposare. Domani dovremmo visitare Nova Firenze. Le prime impressioni di Europa Sud sono abbastanza buone, anche se la sensazione di déjà vu ci accompagna a ogni passeggiata. Non a caso lo slogan pubblicitario che campeggia all’entrata del nostro albergo recita HOME SWEET HOME. Ovviamente queste imitazioni hanno i loro vantaggi: nessun pericolo di smarrirsi, niente di davvero nuovo e interlocutorio, nessuna preoccupazione. Eppure ieri, quando siamo andati sul confine, di fronte al deserto che separa Europa Sud da Europa Nord, davanti alla ruggine misteriosa del territorio, ci è sembrato che qualcosa si muovesse dentro di noi. Un battito accelerato, un accenno di stupore. È stato un momento fulmineo, ma c’è stato. 

CARTOLINA NUMERO 44
Da un’aula scolastica vuota


Se possiamo inviarti una cartolina, è perché anni fa qualcuno ha scritto per noi alla lavagna: A a B b C c D d E e F f G g e così via. Sempre qui abbiamo scoperto che, in un triangolo rettangolo, il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati sugli altri due lati. E sai una cosa? Sarà sempre uguale. Passano i regni, derivano i continenti, crollano le montagne, ma il quadrato dell’ipotenusa resta una certezza. L’aula è vuota il mattino, prima che tutto cominci, ma per vederla così bisogna arrivare in anticipo (non esageriamo!). Oppure la sera, quando ci attardiamo a finire un compito mentre gli altri escono di corsa, e intanto il sole scompare, il bidello avanza lungo il corridoio, il campanello suona per la seconda volta. Non c’è più tempo. Andiamo. Tanto abbiamo già imparato l’essenziale: A a B b C c fino a Z z, le sappiamo tutte, anche se qualche volta ci dimentichiamo la K k o la W w. Quando usciamo anche noi, nell’aula buia resta solo, in perenne attesa, il quadrato dell’ipotenusa.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20, qui dalla 21 alla 24, qui dalla 25 alla 28, qui dalla 29 alla 32qui dalla 33 alla 36 e qui dalla 37 alla 40. Oppure, nelle “categorie”, trovate la sezione “Cartoline2020“.

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As-Summan

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Novembre
Hanafuda: Salice / Poeta / Rondine
Luogo: as-Summan (لصمّان), Arabia Saudita
Coordinate: 23°40’19.6″N; 49°25’45.3″E
(Latitudine 23.67210; longitudine 49.42926)
La scrittura, così come la lettura, è un modo di allungare la strada. Se nella mia vita devo andare da un punto A a un punto B, come dicono i matematici, se devo affrontare qualsiasi esperienza, potrei scegliere la via più rapida, quella più efficiente. Il gesto di prendere un foglio e scrivere – o di aprire un libro e leggere – è una perdita di tempo, una sorta di espediente per vivere vite che non sono la mia. Eppure, quanta ricchezza in questa divagazione fra il punto A e l’inesorabile punto B.
Capita a volte di sorprendere una lentezza, una sospensione nascosta nelle cose ordinarie. Qualche giorno fa stavo tornando a casa lungo una strada che dal centro della mia città porta verso la collina. Faceva freddo, perciò la mia intenzione era quella di affrettarmi per arrivare il più presto possibile. Eppure, a un certo punto, mi sono fermato, e in pochi secondi mi sono accorto che stavo leggendo il mondo in maniera diversa. Mi sembrava di essere al centro di un mosaico, le cui tessere si disponevano con precisione. Poco più avanti passava un treno, orizzontalmente; di fianco a me scorrevano le automobili, verticalmente. Sulla sinistra, dietro la vetrata di una palestra, ragazzi con abiti colorati ripetevano lo stesso gesto; sulla destra, ingrossato dalla pioggia, scendeva un torrente. Ogni tessera aveva un suono o un silenzio: lo sferragliare del treno, il pigolare degli uccelli, il rombo delle automobili, il gorgoglìo del ruscello, le azioni mute dei ginnasti dietro la vetrata.


Prima la realtà sembrava una cosa sola, come se fosse un monolite. Dopo la mia sosta, invece, le singole tessere del mosaico spiccavano nel loro splendore. Ho cercato di riprodurre questa sensazione anche nel mio viaggio ad as-Summan, in Arabia Saudita. È stato più difficile, perché all’inizio percepivo soltanto il vuoto. Poi, passato qualche minuto, il vuoto è diventato qualcosa di ancora più lancinante: un’assenza, una privazione.
Stavo camminando sull’altopiano di as-Summan, che si estende per quattrocento chilometri a est di ad-Dahna. Procedendo verso nord, in direzione del Golfo Persico, dopo un centinaio di chilometri avrei incontrato una regione meno improba, intorno all’oasi di al-Aḥsāʾ, la più grande di tutto il paese, abitata fin dalla preistoria. Ma non era mia intenzione percorrere tutti quei chilometri: ero al volante di una vecchia Toyota e avevo bisogno di fare benzina. Il mio piano era quello di procedere fuori strada per circa quattro chilometri; poi avrei trovato una strada che in un’ora mi avrebbe portato fino alla città di Haradh, famosa per le installazioni petrolifere e del gas. Ma non è di tutto ciò che voglio parlare, né dell’atmosfera di Haradh, con le sue case piccole e bianche, raggruppate insieme, e intorno un immenso cantiere, un mostruoso pianeta di tubi, acciaio e cemento.
Quello che mi piacerebbe descrivere è proprio quel momento in cui mi sono fermato, ho girato lo sguardo intorno e non ho trovato niente. Nessun appiglio per gli occhi, nessuna tessera del mosaico. Mi è venuto un pensiero bizzarro: questa situazione è tanto diversa da quella che ho trovato lungo la strada che portava a casa mia? Che cosa si nasconde dietro l’asfalto, il ruscello, il vetro, i binari della ferrovia?
Il nulla è sempre a un passo da noi. Abbiamo costruito, nei secoli, nei millenni, abbiamo abitato la terra, l’abbiamo trasformata. Abbiamo il desiderio di lasciare un segno, ma fino a quando? Tuttavia, proprio nel profondo del deserto ho sentito che questo desiderio non è vano. Anche se il vento cancellerà ogni cosa, anche se il tempo macinerà le nostre opere, averle compiute non è privo di senso. Il bisogno della bellezza è inestirpabile nell’essere umano, così come la necessità di far fiorire i deserti, che siano geografici o esistenziali.
Guardo le carte di novembre. Il Salice è un invito ad accogliere quanto succede, a sapersi piegare, adattare, mentre il Poeta (o L’Uomo della Pioggia) è un invito a insistere, a non demordere nel seguire la propria esigenza espressiva. L’uomo si chiamava Ono no Michikaze (894-966), conosciuto anche con il nome di Ono no Tōfū. Fu lui il primo a dare i tratti distintivi alla calligrafia giapponese, distinguendola da quella cinese. Si racconta che un giorno, deluso e amareggiato per la mancanza di risultati nel suo lavoro, si soffermò a osservare una rana che tentava di saltare sopra il ramo di un salice: dopo sei balzi falliti, la rana riuscì infine nel suo obiettivo; e in quel momento Ono no Tōfū trovò la forza interiore per proseguire nella sua ricerca. Oggi il calligrafo è raffigurato su una carta da gioco, nello stesso mese in cui appare anche il Fulmine: l’imprevisto, l’azzardo, l’ignoto che, mentre porta scompiglio, può condurre verso una rivelazione.

HAIKU

L’eco di un fischio
indugia sopra i tetti –
L’ultima rondine.

PS: Ho inserito un frammento audio registrato proprio nel momento in cui vedevo comporsi le tessere del mosaico.

PPS: Questo è l’undicesimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagostosettembre e ottobre.

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Un circo, in lontananza

È quasi buio. Sto camminando attraverso un grande prato, ancora libero dalle costruzioni. A un certo punto, in lontananza, avvisto le luci di un circo. Alla sinistra del tendone, avvolto dai colori, appaiono due grandi gru, impiegate in un cantiere edile. Dietro, si staglia il profilo nitido delle montagne. Più contemplo questa scena, più fatico a riprendere il cammino, nonostante il freddo. Ho l’impressione di avere già vissuto tutto questo: io immobile, in un prato che diventa buio; oltre il buio, la promessa dell’ignoto che si fa scoperta, avventura, meraviglia. Mentre ancora non ci sono arrivato, tuttavia, già sento la tristezza per la durata effimera delle luci e dello stupore. Il circo ripartirà, le due gru costruiranno un palazzo che resterà invece al suo posto, solido, massiccio. E io non sarò mai più sullo stesso prato, con lo stesso freddo, con gli stessi colori che mi aspettano all’orizzonte.
Alla fine mi sono avvicinato. Dentro il tendone era in corso uno spettacolo, perciò a guidarmi è stato il suono dell’orchestra. Ho girato intorno al circo, ho osservato gli autocarri, i recinti per gli animali, gli artisti in attesa di entrare in scena. Una cavallerizza fumava una sigaretta, appoggiandosi a una staccionata. Un clown si stropicciava le mani per tenerle calde. Fin da quando sono bambino ogni anno assisto allo spettacolo del circo Knie, e da sempre mi stupisce l’intreccio fra l’eccezionale e il quotidiano. Nella città grigia di novembre appare questo scintillìo, questa girandola di pagliacci, acrobati, cavalli. Un mondo che sorge di notte, come un incantesimo, e che dopo tre giorni riparte senza lasciare tracce. Dentro l’arena si accendono le fanfare, le risate, gli applausi; intanto fuori piove e un acrobata, avvolto in un manto sfavillante di lustrini, cammina nel fango verso il suo carrozzone.
La famiglia Knie è arrivata all’ottava generazione. Da cento anni porta in giro per tutta la Svizzera la sua carovana di animali e artisti, destreggiandosi per presentare i numeri in tre lingue e per adattarsi alle stagioni. Per me il circo ha un sapore tardo autunnale, ma in altre città dev’essere simile a una fiera estiva. In particolare, ho una predilezione per la figura del pagliaccio colto nella luce di novembre. Mi affascina quel senso di lontananza che sempre si sprigiona dai clown: sono lontani da noi, dalle nostre esperienze, sono esagerati, sono caratteri estremi… eppure, mentre li guardiamo, ci sorpendiamo all’improvviso come in uno specchio. Questa è la forza del circo: è una narrazione primordiale – forse il primo mezzo con cui l’essere umano ha provato a raccontare storie, insieme ai graffiti e alle fiabe – e allo stesso tempo è eternamente provvisorio. Arriva, crea una piccola fantasmagorica città e poi riparte.
Anche gli artisti del circo affondano le radici in una lontananza che, durante lo spettacolo, si tramuta in presente. Quest’anno ho apprezzato la figura di Yann Rossi nei panni del clown bianco. Già suo padre era un pagliaccio rinomato, così come i suoi antenati: nel 1732 i Rossi già si esibivano in Francia, alla corte di Luigi XIV. Anche Davis Vassallo e Francesco Fratellini sono stati molto bravi nel riproporre in maniera moderna e sofisticata alcuni numeri storici, fra cui quello dell’innaffiatore che finisce innaffiato. Fra l’altro, una variante elementare di questa gag ispirò un cortometraggio dei fratelli Lumière, L’arroseur arrosé, che venne proiettato nella prima rappresentazione pubblica di cinematografo, avvenuta il 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café, nel boulevard des Capucins a Parigi.
Anche Francesco Fratellini proviene da una dinastia celebre, cominciata con Giuliano Fratellini nel 1745: Francesco è un esponente dell’ottava generazione. Gli appassionati di circo conoscono soprattutto tre membri della quinta generazione: Paul (1877-1940), François (1879-1951) e Albert (1885-1961), fra i maggiori pagliacci in assoluto di tutti i tempi. Fra il 1909 e il 1940 il Trio Fratellini fece ridere tutta l’Europa, resistendo anche durante i tempi più difficili, come la Prima guerra mondiale. François era il clown bianco, Albert l’augusto, mentre Paul mediava fra i due estremi. I tre ispirarono scrittori (Jean Cocteau, Raymond Radiguet), pittori (Pablo Picasso e molti altri) o fotografi (Robert Doisneau). Annie Fratellini, nipote di Albert, fu la prima donna a vestire i panni dell’augusto; nel 1974 fondò con suo marito Pierre Étaix l’École Nationale du Cirque, poi Académie Fratellini. La coppia è presente nel film I clowns di Federico Fellini (dove appare anche Gustavo, un altro membro della famiglia). Nel 1955, a settant’anni, Albert raccontò in un libro la sua vita e quella dei suoi fratelli, augurandosi che il nome Fratellini restasse «il simbolo della gioia che s’infrange, come una tempesta, sui gradini del circo». Da quanto ho potuto vedere, la tempesta infuria ancora… e dalle onde, dalla schiuma nasce la poesia. Come ebbe a dire lo scrittore Henry Miller, «il clown ci insegna a ridere di noi stessi, ed è un ridere che nasce dalle lacrime». È un gesto potente, catartico. Perciò, sempre secondo Miller, «il clown è un poeta in azione. È lui stesso la storia che interpreta.»PS: Per chi abita non lontano dalla Svizzera italiana, suggerisco di visitare la mostra Remo Rossi e il circo. L’arte della meraviglia. Omaggio a Rolf Knie, aperta fino al 28 marzo 2020 nella sede della Fondazione Rossi a Locarno. Alcune opere sono visibili anche nella Casa Ossola a Orselina e nel Ristorante Teatro Dimitri a Verscio.
L’esposizione presenta numerosi schizzi e disegni dell’artista, dai quali scaturirono le sue opere scultoree (di cui alcune fra le più celebri sono state raccolte per l’occasione). Tra i suoi soggetti sono infatti assai numerosi i clown, gli acrobati e gli animali da circo (per esempio la scultura della foca nella piazza Governo di Bellinzona). Inoltre si possono ammirare anche alcuni dipinti e una scultura di Rolf Knie, nato nel 1949, esponente della sesta generazione, il quale fu clown, cavallerizzo e acrobata prima di diventare pittore e scultore.

PPS: La frase di Albert Fratellini proviene dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi. Le parole di Henry Miller sono tratte dalla postfazione al suo racconto The smile at the foot of the ladder (1958), tradotto in italiano da Valerio Riva (Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala, Feltrinelli 1963; 1980).

PPPS: Per conoscere altri dettagli sul circo Knie, e per mille altri approfondimenti legati al mondo del circo, consiglio di visitare il sito Solo Circo X Sempre, aggiornato e gestito con cura da Andrea Eglin.

PPPPS: Le prime tre immagini dell’articolo ritraggono il circo Knie. Poi c’è un ritratto di Albert Fratellini e una foto dello storico Trio Fratellini. Infine, Remo Rossi fotografato accanto alla scultura Acrobati su impalcatura (1960 circa). Anche la scultura qui sotto, intitolata Gli acrobati, è di Remo Rossi.

 

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Il sergente Studer?

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

A volte gli addii sono più lunghi del viaggio.
Prima di partire saluti la persona che ti sta accanto. Le stringi la mano. Dopo qualche secondo entri nell’automobile. Accendi il motore e abbassi il finestrino, per una parola di commiato. Lei resta in piedi e ti fa un cenno. Tu rispondi, mentre con l’altra mano ruoti il volante per uscire dal parcheggio. Lei sta ancora sventolando il braccio destro. Tu alzi brevemente i fari, come un battito di ciglia. Poi t’immetti in una strada che gira intorno al cortile e un’altra volta passi di fianco a lei che, instancabile, muove il braccio avanti e indietro. Allora per forza rallenti, abbassi il finestrino – ciao, gridi sporgendo la mano – acceleri leggermente e un attimo dopo, alzando il capo, la scorgi nello specchietto retrovisore… è ritta in piedi, ancora ti sta guardando; e a te sembra che ogni istante apra un solco nella memoria, nella speranza, come una ferita. Tu pensi alla strada, alla direzione da prendere. Ma vorresti tornare, salutare di nuovo la persona che ami, prolungare il gesto dell’addio, anche se quello stesso gesto ti riempie di dolore.
Ecco, per me il mese di novembre funziona più o meno così. Ci sono queste giornate sontuose, con i muretti caldi al sole del mezzogiorno. Ma il blu del cielo è diverso, più circospetto. I pomeriggi mettono in scena una sorta di parodia della lentezza estiva, con la luce che si distende, che incide il profilo delle montagne. Le montagne tuttavia sono brune, il cielo si spegne in pochi minuti, il freddo scende nei polmoni a ogni respiro. Questo incombere del buio ti fa pensare al tempo che si accorcia, alla vita che si consuma. Perché l’addio dev’essere tanto lungo? Perché l’inverno non arriva in un soffio? Ma niente, novembre ci tiene alla sua bellezza.
In uno di questi giorni di commiato, Yari e io andiamo a Paradeplatz. Stavolta ci arriviamo in maniera diversa: uno concretamente e l’altro affacciato alla finestra di FaceTime. Accadde già nel mese di maggio: Yari, per ragioni di forza maggiore, dovette visitare Paradeplatz attraverso il mio sguardo. Stavolta sono io che mi affido ai suoi occhi per tentare di capire questo luogo che ancora ci ossessiona con il suo segreto, undici mesi dopo l’inizio delle nostre indagini.
Mi trovo in un giardino, a Breganzona, con una spendida vista sul laghetto di Muzzano. Novembre si mette in mostra: lo scintillio del sole sull’acqua, il verde smagliante dei prati, il vento quasi tiepido che pulisce l’aria. Dall’altra parte, è tutto grigio. Nello schermo del telefono vedo Paradeplatz intrisa di pioggia e di malinconia: grigio l’asfalto, grigie le facciate delle banche e dell’hotel, grigio l’albero di Natale, grigie anche le bocce colorate, grigi i tram, grigi i passanti che scantonano sotto l’ombrello, grigia la vetrina di Marsano – ma dove sono andati i fiori? – e grigia la faccia di Yari irrigidita dal freddo.
Gli alberi di Natale schierati sopra il tetto dell’UBS sembrano un plotone di esecuzione poco prima dell’alba. Ma non è l’alba. Non è nemmeno mattina, sebbene l’orologio segni le undici. È un mondo senza tempo, dove novembre a lungo scioglie il suo canto d’addio. Yari e io ci scambiamo qualche parola, ma non sappiamo bene che cosa dire: questo incrocio di universi, questo urtarsi di sole e pioggia, di verde e grigio, questo paradosso che filtra nei nostri telefoni parla da sé.
– Ho portato una poesia – borbotta Yari dopo un po’.
– Ah bene – dico io.
– Non è facile da capire, devi leggere attentamente.
Comincio a preoccuparmi.
– Arriva da molto lontano – aggiunge Yari. – Te la invio?
Poco dopo, sullo schermo del mio telefono appare un codice miniato.

[AF]

*

Essere in ritardo quando nessuno ti sta aspettando è un’esperienza decisamente meno adrenalinica rispetto al canonico ritardo, quello che prevede la presenza di almeno un’altra persona o di un quadro istituzionale, professionale, sociale. Così quando il treno che da Berna mi sta portando a Zurigo si ferma improvvisamente a Rothrist, e il vagone è attraversato da un vociare convulso di donne scandalizzate e uomini isterici, io appoggio sul tavolino il libro di Friedrich Glauser e guardo con stanchezza attraverso il finestrino. Alla fine saranno trenta i minuti di ritardo complessivi, che su un viaggio di poco meno di un’ora non sono irrilevanti, come fa notare qualcuno. L’annuncio del capotreno germanofono è epico, soprattutto nel forzato passaggio al francese – «dérangement de véhicules», pronunciato lentamente e con la gravità di chi conosce, di chi sa– e infine a un inglese tanto improbabile da far pensare alla Linea di Cavandoli (forse una citazione voluta).
Continuo a guardare dal mio rettangolo trasparente quello che offre il panorama, cioè pioggia. E sullo sfondo il collo chino, dalle movenze preistoriche, di una gru o una scavatrice. Questa volta le ragioni di forza maggiore hanno reso la trasferta di Andrea impossibile. Il signore con i baffi seduto davanti a me – piuttosto anziano, senza nulla d’appariscente – osserva il mio taccuino mentre scrivo: non-ritardo. Non si capisce bene se sia serio o sorrida. A pochi metri, una donna anziana sembra sentirsi poco bene, poi l’emergenza rientra.
Giunto a Paradeplatz propongo una videochiamata ad Andrea e cerco di mostrargli tutto quello che novembre ha tolto: i fiori, i colori, la spensieratezza. Complice la pioggia, la gente si stringe sotto la tettoia centrale e sembra poco propensa al sorriso. Tutti consultano orari e tabelloni. Alcune vetrine digitali mostrano il solito Natale standard di candeline, renne, paesaggi innevati, calorose casette, zenzero, marzapane e vogliamoci bene. «Ehi, ma allora siamo vicini. Io sono a Paradeplatz, hai in mente? Sì, le banche. Ti aspetto davanti alla Lindt&Sprüngli»: l’uomo spegne il telefono, esita, ma dopo pochi istanti se ne va di corsa, senza guardarsi intorno. Evito di restare nei paraggi, d’incrociare – chi lo sa – uno sguardo deluso. Si può dire addio anche se non ci si è incontrati?
Sarà l’inesorabile bellezza di novembre, ma sono sfiduciato. Eppure, quasi ottocento anni fa, tale Giovanni di Pietro di Bernardone, umbro d’origine, sembrava nutrire una maggiore fiducia in quello che gli stava intorno, tanto da scrivere una delle poesie più memorabili fra le memorabili. Già. Chissà cosa direbbe oggi Francesco d’Assisi della sora nostra matre terra. Siederebbe pure lui al riparo dalla pioggia, nel tripudio d’asfalto, rotaie e addobbi natalizi. Osserverebbe passare i fenicotteri rosa con le zampe a mollo in un blu-piscina pubblicitario, su uno dei tanti tram. Poserebbe lo sguardo sulle due alci dorate all’entrata del fioraio. Loderebbe il suo Signore per Paradeplatz. Poi, con una piccola dose – diciamo una punta – di cinismo, ricorderebbe una volta di più la sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare.
Spedisco ad Andrea il Cantico delle creature: magari lui, che è dall’altra parte del mondo, riesce a essere più fiducioso. Intanto un ragazzo mi guarda e solo dopo avere registrato il mio (finto) disinteresse si siede sulla panchina, a pochi centimeri dal mio zaino, e gioca a calcio sul suo cellulare. Se non fosse stato per lui, non avrei notato l’uomo alle nostre spalle, dietro la porta d’entrata dei bagni pubblici. Immobile, vicino al vetro, guarda intorno con pazienza. Mi sembra di riconoscerlo, piuttosto anziano, senza nulla d’appariscente, con quei baffi che non si capisce bene se sia serio o sorrida.

[YB]

*

Era un uomo piuttosto anziano che non aveva nulla d’appariscente: camicia con colletto floscio, abito grigio un po’ sformato perché il corpo che vestiva era grasso. Quell’uomo aveva un volto pallido, magro, i baffi coprivano la bocca, sicché non si capiva bene se sorridesse o fosse serio. Si frugò in tasca, ne cavò un sigaro Brissago e lo infilò tra le labbra. Aveva gli occhi semichiusi, ma non gli sfuggiva niente di quanto accadeva sulla piazza lucida di pioggia. Passanti, ombrelli, tram… tutto appariva come doveva essere. Davvero? Fece un passo avanti, accostando la porta alle sue spalle. Trasse una scatola di fiammiferi e accese il sigaro, mentre la sua attenzione veniva attratta da un dettaglio bizzarro. Un’inceppatura nel sistema? Qualcosa del genere…
Un uomo alto, infagottato in un giaccone. Prima aveva parlato a lungo al telefono, poi aveva scattato fotografie agli edifici intorno alla piazza. Ora aveva per le mani un documento dall’aspetto antico, e leggeva mormorando le parole a fior di labbra. Era tutto normale? L’uomo anziano si domandò che cosa avrebbero detto i suoi giovani colleghi. Sicuramente che dava i numeri.
Quando i colleghi dicevano che era matto, forse volevano dire che aveva troppa fantasia per un bernese. Ma anche questo non era del tutto vero. Vedeva forse un po’ al di là del suo naso che sporgeva lungo, appuntito e sottile sul volto magro, e non si adattava affatto al suo corpo massiccio.
Notò che l’uomo alto stava per salire su un tram, ma aveva lasciato la pergamena, o quello che era, appoggiata sulla panchina. Si avvicinò. Provò a leggere quelle strane lettere che parevano arrivare da un altro mondo.

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu omo ène dignu Te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue Creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le Stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua,
la quale è multo utile et umile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke ’l sosterranno in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande umilitate.

[AF]

*

Non so quanta umilitate ci voglia per accettare un eufemismo come «Personenunfall – Accident de personne», che è quanto si sente ogni tanto sui treni che fanno la spola fra Romandia e Svizzera tedesca, a cui segue un contegno artificioso e, solitamente, il poco dissimulato nervosismo dei pendolari. Nessuno – io incluso – si chiede mai se la persona che giace inerte sui binari se ne sia andata con ancora addosso i suoi peccata mortali, chi fosse, cosa facesse, e naturalmente: perché. «Non c’è tempo», si dirà. «Così va il mondo». Per fortuna c’è ancora chi cava un Brissago dalla tasca.

[YB]

PS: La Linea è il celebre e indimenticabile personaggio animato di Osvaldo Cavandoli (1920-2007), creato alla fine degli anni ’50.

PPS: San Francesco d’Assisi (1181-1226) scrisse le Laudes Creaturarum o Canticum fratris Solis nel 1224. Il Cantico è considerato il primo testo poetico (di cui si conosca l’autore) della letteratura italiana. Per altri dettagli si veda Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, 1976.

PPPS: Il testo contiene due citazioni da Friedrich Glauser. La frase in corsivo che comincia con Era un uomo piuttosto anziano è tratta da Il sergente Studer (Sellerio 1986; traduzione di Gabriella De’ Grandi e Valeria Valenza da Wachtmeister Studer, Morgarten, Zürich 1936). La frase in corsivo che appare qualche riga sotto (quella che comincia con Quando i colleghi; ma già l’espressione dava i numeri) è tratta da Il grafico della febbre (Sellerio 1985; traduzione di Gabriella De’ Grandi da Die Fieberkurve, Morgarten, Zürich 1938). Entrambe sono riferite a Jakob Studer, l’investigatore della Polizia cantonale di Berna protagonista di alcuni romanzi e racconti di Friedrich Glauser (1896-1938).

PPPPS: La terza immagine di questo articolo è un dipinto dell’artista tedesco Wolf Panizza (1901-1977). È intitolato Novemberlandschaft, risale al 1935 ed è conservato nella Pinakothek der Moderne di Monaco.

PPPPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugnoluglioagostosettembre e ottobre.

 

 

 

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Fuori dagli stalli demarcati

Oggi è il 30 novembre, festa di sant’Andrea. Secondo la tradizione è l’inizio dell’inverno. È anche il giorno in cui si chiudono i conti: ognuno restituisce ciò che ha preso e riprende ciò che ha dato. L’anno sta finendo, si comincia a pensare al futuro, ma intanto le giornate sono sempre più fredde e assediate dall’oscurità. Nel pomeriggio raggiungo la mia solita piazzetta, nel quartiere delle Semine a Bellinzona. Mi siedo su una panchina e mi metto a pensare al futuro. La piazzetta è vuota, la fontana muta, i cespugli sfioriti. Passano due ragazzi con un barboncino al guinzaglio. Il barboncino ha un cappotto nero. L’ultimo sole sta pennellando la cima delle montagne. Be’, insomma, che cos’è il futuro? Quando comincia, esattamente?
Ricordo che nel mese di luglio me ne stavo seduto su questa stessa panchina. C’erano pensionati in canottiera, adolescenti abbronzati, un ubriacone che teneva la birra in fresco nella fontana. Dal Mc Donald’s veniva un odore di fritto, mentre le auto in coda al semaforo, scintillanti sotto il sole, mettevano caldo solo a guardarle. E io già pensavo al futuro, e il futuro era questa piazzetta nel mese di novembre. Per essere precisi: la neve sulle montagne, l’aria pungente, l’arancione dei cachi sui rami spogli. Ed eccomi qui. Ora che mi trovo nel futuro, come immaginare la piazzetta di luglio? È diventata passato oppure diventerà altro futuro? È una di quelle situazioni in cui i pensieri si mordono la coda. Cose che succedono d’autunno, nelle piazze vuote. Il mondo è sospeso fra un prima e un dopo che si confondono, tanto che il dopo potrebbe venire prima e io, muovendomi verso la mia morte, potrei tornare in qualche modo alla mia infanzia, come un salmone che sale verso lontani ruscelli dimenticati.
Alzo il bavero della giacca e leggo I racconti di Nick Adams di Ernest Hemingway. Aveva paura di guardare Marjorie. Poi la guardò. Seduta gli voltava la schiena. Guardò la schiena di Marjorie: «Proprio non è divertente» disse. «Nemmeno un po’.» Lei non disse niente. Egli continuò. «Mi pare come se tutto dentro di me fosse andato al diavolo. Non so, Marge. Non so proprio cosa dire.» Continuò a fissare la schiena di lei. Chiese Marjorie: «Non è divertente l’amore?» «No» disse Nick.
Il ritmo inesorabile della prosa di Hemingway sostituisce le chiacchiere dei pensionati, che oggi sono rimasti al caldo. È uno strano libro, in cui si percepisce una tenerezza verso le cose semplici, un desiderio di essere fedele alla vita. Nello stesso tempo, c’è da combattere contro il buio che, all’inizio, si presenta in maniera ingannevole, travestito da nostalgia per il passato o da incertezza per il futuro. Il protagonista combatte come sempre fanno gli eroi di Hemingway: se ne sta ancorato al qui e ora, cercando di fare nel miglior modo possibile ciò che deve fare. Make your job, che si tratti di pescare nei ruscelli del Michigan o di sopravvivere alla guerra o ancora di scrivere come Cézanne dipingeva.
Vicino alla piazzetta c’è un camper parcheggiato senza targhe, in attesa che torni la bella stagione. Sul retro ci sono due adesivi con le scritte Sun Living e Vivere viaggiando. Visto che non c’è nessuno, lascio Hemingway e ne approfitto per fare un filmato, girando intorno alla fontana. Due ragazzine mi osservano sconcertate. Quando mi avvicino, si voltano e scappano di corsa. Io scatto una foto a un albero di cachi. Da lontano sento una delle ragazzine che dice all’amica: Ma non può, Ali, è casa nostra! Andiamo a dirlo alla mia mamma! Prima di che qualcuno mi denunci, torno a sedermi e cambio paesaggio. Mark Twain, Huck Finn, Tom Sawyer e La Salle si affollarono disordinatamente nella testa di Nick che guardava la scura e liscia distesa d’acqua lentamente in moto. Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice.

Non dovrei essere qui. Un uomo avvolto in un giaccone, solo con un libro nella piazza deserta, sorpreso nell’atto di fotografare cachi e di navigare sul Mississippi. Non dovrei essere qui. Perché butto via il tempo? Dovrei lavorare o andare a correre o pensare ai regali di Natale, o fare qualunque cosa ragionevole che mi permetta poi di lamentarmi per lo stress. Oh, vorrei essere stressato. Se fossi stressato, tutto sarebbe più semplice. Di certo non cadrei nella trappola della piazzetta e non confonderei il passato e il futuro.
Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice. La felicità nei racconti di Hemingway è così pura da essere straziante, anche perché dura solo il tempo di pulire le trote. O di finire la pagina.
Cézanne cominciò con tutti i trucchi. Poi demolì tutto e costruì la cosa vera. Fu tremendo da fare. Fu lui il più grande. Il più grande d’ogni tempo e per sempre. Non era un culto il suo. Era che Nick voleva scrivere della campagna per riuscire a essere quello che Cézanne era stato in pittura. Bisognava farlo dall’interno di sé stessi. Non c’erano trucchi. Nessuno aveva scritto mai così della campagna. Nick provava quasi un sentimento religioso a questo riguardo, faceva terribilmente sul serio. Si poteva riuscire a saperlo tirar fuori di prepotenza. Riuscire a vivere giusto con gli occhi.
Il vento solleva un mucchio di foglie secche. Capisco che, anche volendo scrivere di una semplice piazzetta, bisogna proprio farlo dall’interno di sé stessi. Bisogna scrivere le parole in fila, per bene: il vento solleva un mucchio di foglie secche. Bisogna essere qui e demolire tutto per costruire la cosa vera. C’è modo e modo di scrivere del vento. C’è modo e modo di guardare una piazza vuota, o di esserne guardati. Apro il taccuino: vento, annoto, e foglie secche. Poi, tra parentesi: gialle, rosse. Ci sono dettagli che vanno coordinati fra di loro: una piuma di uccello sul vialetto, il rosso stinto di una bandiera svizzera sopravvissuta all’estate, la mezzaluna che affiora nel cielo. È giusto dire che la mezzaluna affiora? Potrei scrivere appare, ma sarebbe impreciso (non è un’apparizione, è un lento emergere dall’invisibile). Spunta non avrebbe senso. Fa capolino sarebbe tragico. No, lasciamola affiorare.
Tornando a casa, passo da una via dove le macchine devono andare a trenta all’ora, zigzagando tra vasi di cemento. I pedoni invece possono viaggiare alla velocità che preferiscono. Io cammino adagio, con le mani in tasca. Il sole si riflette su un cartello, creando un effetto di arcobaleno. Una scritta ammonisce gli automobilisti, ricordando loro che è proibito parcheggiare fuori dagli stalli demarcati.
Penso che in quelle quattro parole, così lividamente efficaci, si celi tutto quello che volevo dire oggi. Il passato, il futuro, il presente sono diversi quando cambi prospettiva, quando osservi stando fuori dagli stalli demarcati. È anche l’unico modo per scrivere davvero senza trucchi. Prima devi trovare uno stallo demarcato (qualunque cosa sia), devi girarci intorno, entrarci dentro, farci amicizia. Poi devi uscirne. E soltanto allora, forse, potrai dire davvero che il vento solleva un mucchio di foglie secche. Un mucchio di foglie gialle e rosse.

PS: The Nick Adam’s Stories, che uscì postumo nel 1972, è una serie cronologica di racconti scritti negli anni Venti e Trenta. Il libro posato sulla panchina è l’edizione Mondadori del 1972 (traduzione di Giuseppe Trevisani). Ernest Hemingway (1899-1961) appare qui sopra in due fotografie: la prima lo ritrae all’ospedale della Croce Rossa, in via Manzoni 10 a Milano (luglio 1918), la seconda nel Michigan durante la giovinezza. Le immagini sono tratte da Hemingway. Le parole, le immagini (Mondadori 1994). Nella quarta di copertina, c’è questa frase dello stesso Hemingway: Voglio continuare a scrivere il meglio e il più sinceramente che posso finché morirò. E spero di non morire mai.

PPS: Oltre che nel mese di luglio, mi sono seduto nella piazzetta anche in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, agosto, settembre, ottobre.

 

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