Panchinario 74-81

Ci sono lettrici e lettori che mi scrivono di panchine. Qualcuno le ama, anzi, qualcuno m’invia le sue preferite. Per contro, c’è chi pensa che scrivere di panchine sia uno spreco, poiché il mondo sta andando a rotoli e abbiamo emergenze più degne dell’attenzione di uno scrittore. A questi ultimi rispondo che la letteratura non è programmatica. Credo che in queste piccole divagazioni del Panchinario appaia qualche frammento di verità, e questo mi basta: se la scrittura s’impegna nel confronto con una verità, allora non mi pare uno spreco. Ma al di là delle spiegazioni, dedicare tempo al territorio, allo spazio, alle cose minute, è un modo di affinare la propria percezione e la propria sensibilità, un modo per amare il mondo; requisito questo necessario se si vuole salvarlo.

Fra le tante panchine che sono arrivate dal mondo, oggi do spazio a quella di Emily, che scrive dalla contea di Marion nell’Oregon (USA). La sua è una panchina particolare, perché è invisibile: Emily ha filmato quanto vedeva da una panchina scavata nella roccia; ma, a causa dello spazio limitato, non è riuscita a fotografare la panchina stessa. Il suo video ritrae la cascata di South Falls, nel Silver Falls State Park (vedi anche la foto a fine articolo). È spettacolare, e per me è pure inquietante. Da bambino infatti ero intimorito dalle cascate. Il fragore, la mole, il balzo improvviso che spezza il fluire del fiume: le cascate mi toglievano il fiato, e per non sentirle mi mettevo le mani sulle orecchie. Oggi, tanti anni dopo, ho imparato ad apprezzare il canto dell’acqua che precipita a valle… ma resta sempre un filo d’inquietudine.


Con la panchina numero 81, che trovate in fondo a questo articolo, porgo a tutte le lettrici e a tutti i lettori il mio augurio di Buon Natale!

74) MASSAGNO, in via Giuseppe Motta
Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… girare un film
INTERNO CASA ANDREA FAZIOLI GIORNO: Andrea cammina annoiato. ANDREA (VOCE OFF): Non so proprio cosa fare oggi. Piove, fa freddo. (Illuminandosi) Ehi, e se andassi al cinema? ESTERNO STRADA GIORNO: È una giornata grigia. Andrea cammina sotto un leggero velo di pioggia. ESTERNO CINEMA GIORNO: Andrea si dirige verso una panchina di cemento, di fronte all’ingresso del Cinema Lux di Massagno. CUT TO: Andrea si siede sulla panchina. Ha smesso di piovere. Andrea fissa l’ingresso del cinema. ANDREA (VOCE OFF): Andare al cinema per guardare il cinema. Qualcuno entra, qualcuno esce. Quelli che escono sono ancora impregnati del film: nelle loro espressioni, nei loro gesti. Io, invece, non so ancora che cosa mi aspetta. Deserti? Metropoli? Sparatorie, forse, o magari un amore disperato… Sono pronto a tutto. CUT TO: Andrea si alza e si avvia verso il cinema. Musica. Scorrono i titoli di coda.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

 75) PLOUDALMÉZEAU, in rue du Port
Coordinate: 48°33’26.7″N; 4°42’15.1″W
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… incontrare l’Ankou.
Guardo il flusso di barche e di nuvole, finché a poco a poco scende il buio e sale la marea. All’improvviso sento un cigolio, come se qualcuno spingesse un carretto. «Piou zo azé?»chiedo in bretone. “Chi è là?” Compare un uomo alto, magro, dai capelli bianchi. La faccia è nascosta da un cappello di feltro. «Piou zo azé?», ripeto una seconda e una terza volta. L’uomo con voce cavernosa risponde: «Ma mestr ha mestr an holl, pa teut c’hoant da glewed». “Il mio padrone è il padrone di tutti, visto che desideri saperlo.” Poi mi guarda e vedo le orbite vuote, la mascella penzolante. Lo riconosco: è l’Ankou, l’oberour ar maro, l’operaio della morte. Prima che possa acciuffarmi fuggo dove ci sono luce, calore, esseri umani e sidro di mele.
(L’Ankou proviene da A. Le Braz, La Légende de la Mort chez les Bretons armoricains, 1893; in italiano tradotto nel 2003 da P. Fornasari per Sellerio con il titolo La leggenda della morte).
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76) BELLINZONA, in via Francesco Chiesa
Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… aspettare il circo.
Questa panchina non ha niente di speciale. È poco lontana dal liceo ed è rivolta verso un parcheggio. Se tornaste qui per 362 giorni all’anno vedreste solo studenti, insegnanti, cemento e automobili. Ma se avrete pazienza, un giorno di metà novembre sorgerà in poche ore il tendone del Circo Knie. Da quando studiavo (o fingevo di farlo) proprio in questo liceo, ho l’abitudine nei giorni del circo di aggirarmi intorno al caravanserraglio. Oltre allo spettacolo – non me ne perdo uno – mi affascina il paradosso insito in ogni circo. Da una parte un mondo fatto di scintille, fanfare, dove tutto è straordinario, dalla grazia dei funamboli alla maestà dei cavalli. Dall’altra parte, dietro le quinte, la quotidianità: il clown bianco che mangia un hamburger, un acrobata che fuma una sigaretta accanto alla staccionata, una trapezista che cammina verso il suo carrozzone, lentamente, cercando di scansare le pozzanghere.
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 77) CARONA, all’angolo tra via Principale e via Luigia
Coordinate: 2’716’143.0; 1’090’733.1
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… sconfiggere il drago
È quasi l’imbrunire. Si accende un lampione, dai camini arriva odore di fumo. Sotto di me ci sono gli orti; più in basso Melide, il lago, il ponte-diga intasato dal traffico. Qui tutto è silenzioso, tranne un canto di uccelli e, ogni tanto, il passo di qualcuno che torna a casa dal lavoro. Ripenso all’affresco sulla facciata della chiesa, appena sopra la panchina: san Giorgio, in groppa a un cavallo impennato, scaglia la sua lancia diritta nelle fauci del drago. Mentre scende la sera mi accorgo che lui non è lontano. Nonostante la pace, la prossimità delle case, la bellezza di queste colline. Lui è sempre vicino: il drago che mi tiene sveglio di notte, la malinconia che mi aggredisce a tradimento, lo sconforto, la solitudine che mi stringe alla gola. Comincia a fare freddo. Alzo il bavero della giacca. Spero che lo scudo regga il colpo, e che la forza mi basti ad alzare la lancia.
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Colonna sonora (30 secondi):


78) NESSUN LUOGO, da nessuna parte
Coordinate:?°?’?”N; ?°?’?”E; ?°?’?”S; ?°?’?”W
Comodità:5 stelle su 5
Vista: 5 stelle su 5
Ideale per… viaggiare.
Non so come sia finito qui. Nella nebbia intravedo la forma di una panchina. Mi siedo. Sento un rumore di ferraglia, un passo pesante. Dal nulla sorge un uomo in armatura e si mette di fianco a me. «Chi sei?», gli chiedo. Lui mi guarda. «Non mi riconosci? Sono l’Eroe… il Buono, quello che parte, lotta, supera la prova». Gli domando se sappia dove ci troviamo. «Siamo all’inizio – mi risponde – sulla Panchina Dove Nascono Le Storie». Poi dice che s’è fatto tardi e si allontana borbottando qualcosa su un maledetto ostacolo da superare. In quel momento dalla nebbia sbuca un orco bitorzoluto, dall’alito fetido. «Buongiorno – lo saluto. – Scommetto che tu sei l’Antagonista.» L’orco si siede, emette un grugnito. «Qualcosa in contrario?» «Io? No, figurati.» L’orco sembra stanco. Mi spiega che ha avuto una giornataccia. «Certa gente pensa che sia facile essere il cattivo… fatelo voi, dico io, fatelo voi, per quella miseria che ci pagano!»
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79) LUGANO, in via Foce
Coordinate: 2’717’975.5; 1’095’805.0
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 2 stelle su 5
Ideale per… meditare sulla solitudine.
A pochi passi brillano le luci di un ristorante, ma sembrano lontane migliaia di chilometri. Dietro c’è un parcheggio, mentre intorno le strade sono deserte, sferzate da un acquazzone. Questa panchina non mi offre nemmeno la possibilità di sperare che per caso qualcuno passi di qui e, perché no, si sieda accanto a me. È di forma classica, verniciata con un bel rosso-panchina… ma è una monopanca, praticamente una seggiola fissata sull’asfalto. C’è posto solo per me. A proposito, perché mi sono fermato? Perché rimango seduto sotto i rami di un salice, a scrutare nel buio? Piove. È sabato sera. Penso che fra qualche minuto mi alzerò, camminerò, andrò a cercare un luogo caldo e illuminato. Ogni viso umano, ogni parola splenderà come se fosse nuova, come se fossi scampato a un naufragio. Forse le monopanche, come le isole deserte, servono proprio a questo: a ritrovare il gusto di stare in compagnia in un piovoso sabato sera d’inverno.
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80) TORINO, nel giardino Lamarmora in via Stampatori
Coordinate: 45°04’15.5″N; 7°40’36.9″E
Comodità: 3 stelle su 5
Vista: 1 stella su 5
Ideale per… un picnic fra innamorati.
Magari, quando sentite la parola “picnic”, pensate a una radura fiorita, all’erba tenera, alla frescura degli alberi, a un ruscello gorgogliante… insomma, a quello che gli antichi chiamavano locus amœnus, un luogo d’incanto. Ma se vi capita di essere a Torino, fra lunghi viali, automobili, palazzi austeri? Non perdetevi d’animo, nessuno ha mai detto che le metropoli non possano essere romantiche. Questa panchina, per esempio, vi fornisce tutto ciò di cui avete bisogno: un paio di cuori intrecciati per l’atmosfera; un cesto della spazzatura per gettare eventuali resti di cibo; una superficie su cui scrivere i vostri nomi accompagnati da un roboante PER SEMPRE. Davanti avete una strada, alle spalle un piccolo parco. Basta poco perché Torino divenga «città della fantasticheria» e «città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi» (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 17 novembre 1935).
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81) GIUBIASCO, in Piazza Grande
Coordinate: 2’721’446.7; 1’114’658.2
Comodità: 1 stella su 5
Vista: 3 stelle su 5
Ideale per… stare a testa in giù.
È l’una del pomeriggio e a Giubiasco tutto scorre. Passano le automobili in via Bellinzona, veleggiano banchi di nuvole nel cielo, fuggono i giorni dell’avvento che portano in fretta, sempre troppo in fretta, a un altro Natale. Io, invece, sto fermo. Così come le sculture disseminate sul prato. Vicino a me c’è una famiglia di pietra: due genitori e un bambino, tutti con lo sguardo rivolto all’albero di Natale. Davanti all’albero c’è un’altra piccola statua, un uomo che sta in equilibrio sulle mani. Di colpo, mi pare che tutto ruoti intorno a quell’ometto capovolto: la piazza, il traffico, le stagioni dell’anno. Forse questi giorni stanchi di fine dicembre possono diventare un punto di svolta. Al di là delle luminarie e dei panettoni, la festa può essere un’occasione per cambiare prospettiva, per guardare le cose vecchie in maniera nuova. Ho deciso: quest’anno a Natale proverò a mettermi a testa in giù, così, per vedere l’effetto che fa.
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Colonna sonora (30 secondi):

 

PS: Potete leggere qui le prime quattro panchine, qui le panchine da 5 a 10, qui da 11 a 17 e qui da 18 a 23, qui da 24 a 30, qui da 31 a 37, qui da 38 a 45, qui da 46 a 55, qui da 56 a 64 e qui da 65 a 73. In generale, nella categoria Panchinario (in alto a destra), si trovano tutte le panchine.

PPS: Il video della cascata è stato girato da Emily, la fotografia è presa da internet. Esprimo la mia gratitudine a chi mi aiuta, mi accompagna e mi fa scoprire nuove panchine. In particolare, grazie mille a Barbara (Ploudalmézeau) e a Giacomo (Lugano).


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Un circo, in lontananza

È quasi buio. Sto camminando attraverso un grande prato, ancora libero dalle costruzioni. A un certo punto, in lontananza, avvisto le luci di un circo. Alla sinistra del tendone, avvolto dai colori, appaiono due grandi gru, impiegate in un cantiere edile. Dietro, si staglia il profilo nitido delle montagne. Più contemplo questa scena, più fatico a riprendere il cammino, nonostante il freddo. Ho l’impressione di avere già vissuto tutto questo: io immobile, in un prato che diventa buio; oltre il buio, la promessa dell’ignoto che si fa scoperta, avventura, meraviglia. Mentre ancora non ci sono arrivato, tuttavia, già sento la tristezza per la durata effimera delle luci e dello stupore. Il circo ripartirà, le due gru costruiranno un palazzo che resterà invece al suo posto, solido, massiccio. E io non sarò mai più sullo stesso prato, con lo stesso freddo, con gli stessi colori che mi aspettano all’orizzonte.
Alla fine mi sono avvicinato. Dentro il tendone era in corso uno spettacolo, perciò a guidarmi è stato il suono dell’orchestra. Ho girato intorno al circo, ho osservato gli autocarri, i recinti per gli animali, gli artisti in attesa di entrare in scena. Una cavallerizza fumava una sigaretta, appoggiandosi a una staccionata. Un clown si stropicciava le mani per tenerle calde. Fin da quando sono bambino ogni anno assisto allo spettacolo del circo Knie, e da sempre mi stupisce l’intreccio fra l’eccezionale e il quotidiano. Nella città grigia di novembre appare questo scintillìo, questa girandola di pagliacci, acrobati, cavalli. Un mondo che sorge di notte, come un incantesimo, e che dopo tre giorni riparte senza lasciare tracce. Dentro l’arena si accendono le fanfare, le risate, gli applausi; intanto fuori piove e un acrobata, avvolto in un manto sfavillante di lustrini, cammina nel fango verso il suo carrozzone.
La famiglia Knie è arrivata all’ottava generazione. Da cento anni porta in giro per tutta la Svizzera la sua carovana di animali e artisti, destreggiandosi per presentare i numeri in tre lingue e per adattarsi alle stagioni. Per me il circo ha un sapore tardo autunnale, ma in altre città dev’essere simile a una fiera estiva. In particolare, ho una predilezione per la figura del pagliaccio colto nella luce di novembre. Mi affascina quel senso di lontananza che sempre si sprigiona dai clown: sono lontani da noi, dalle nostre esperienze, sono esagerati, sono caratteri estremi… eppure, mentre li guardiamo, ci sorpendiamo all’improvviso come in uno specchio. Questa è la forza del circo: è una narrazione primordiale – forse il primo mezzo con cui l’essere umano ha provato a raccontare storie, insieme ai graffiti e alle fiabe – e allo stesso tempo è eternamente provvisorio. Arriva, crea una piccola fantasmagorica città e poi riparte.
Anche gli artisti del circo affondano le radici in una lontananza che, durante lo spettacolo, si tramuta in presente. Quest’anno ho apprezzato la figura di Yann Rossi nei panni del clown bianco. Già suo padre era un pagliaccio rinomato, così come i suoi antenati: nel 1732 i Rossi già si esibivano in Francia, alla corte di Luigi XIV. Anche Davis Vassallo e Francesco Fratellini sono stati molto bravi nel riproporre in maniera moderna e sofisticata alcuni numeri storici, fra cui quello dell’innaffiatore che finisce innaffiato. Fra l’altro, una variante elementare di questa gag ispirò un cortometraggio dei fratelli Lumière, L’arroseur arrosé, che venne proiettato nella prima rappresentazione pubblica di cinematografo, avvenuta il 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café, nel boulevard des Capucins a Parigi.
Anche Francesco Fratellini proviene da una dinastia celebre, cominciata con Giuliano Fratellini nel 1745: Francesco è un esponente dell’ottava generazione. Gli appassionati di circo conoscono soprattutto tre membri della quinta generazione: Paul (1877-1940), François (1879-1951) e Albert (1885-1961), fra i maggiori pagliacci in assoluto di tutti i tempi. Fra il 1909 e il 1940 il Trio Fratellini fece ridere tutta l’Europa, resistendo anche durante i tempi più difficili, come la Prima guerra mondiale. François era il clown bianco, Albert l’augusto, mentre Paul mediava fra i due estremi. I tre ispirarono scrittori (Jean Cocteau, Raymond Radiguet), pittori (Pablo Picasso e molti altri) o fotografi (Robert Doisneau). Annie Fratellini, nipote di Albert, fu la prima donna a vestire i panni dell’augusto; nel 1974 fondò con suo marito Pierre Étaix l’École Nationale du Cirque, poi Académie Fratellini. La coppia è presente nel film I clowns di Federico Fellini (dove appare anche Gustavo, un altro membro della famiglia). Nel 1955, a settant’anni, Albert raccontò in un libro la sua vita e quella dei suoi fratelli, augurandosi che il nome Fratellini restasse «il simbolo della gioia che s’infrange, come una tempesta, sui gradini del circo». Da quanto ho potuto vedere, la tempesta infuria ancora… e dalle onde, dalla schiuma nasce la poesia. Come ebbe a dire lo scrittore Henry Miller, «il clown ci insegna a ridere di noi stessi, ed è un ridere che nasce dalle lacrime». È un gesto potente, catartico. Perciò, sempre secondo Miller, «il clown è un poeta in azione. È lui stesso la storia che interpreta.»PS: Per chi abita non lontano dalla Svizzera italiana, suggerisco di visitare la mostra Remo Rossi e il circo. L’arte della meraviglia. Omaggio a Rolf Knie, aperta fino al 28 marzo 2020 nella sede della Fondazione Rossi a Locarno. Alcune opere sono visibili anche nella Casa Ossola a Orselina e nel Ristorante Teatro Dimitri a Verscio.
L’esposizione presenta numerosi schizzi e disegni dell’artista, dai quali scaturirono le sue opere scultoree (di cui alcune fra le più celebri sono state raccolte per l’occasione). Tra i suoi soggetti sono infatti assai numerosi i clown, gli acrobati e gli animali da circo (per esempio la scultura della foca nella piazza Governo di Bellinzona). Inoltre si possono ammirare anche alcuni dipinti e una scultura di Rolf Knie, nato nel 1949, esponente della sesta generazione, il quale fu clown, cavallerizzo e acrobata prima di diventare pittore e scultore.

PPS: La frase di Albert Fratellini proviene dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi. Le parole di Henry Miller sono tratte dalla postfazione al suo racconto The smile at the foot of the ladder (1958), tradotto in italiano da Valerio Riva (Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala, Feltrinelli 1963; 1980).

PPPS: Per conoscere altri dettagli sul circo Knie, e per mille altri approfondimenti legati al mondo del circo, consiglio di visitare il sito Solo Circo X Sempre, aggiornato e gestito con cura da Andrea Eglin.

PPPPS: Le prime tre immagini dell’articolo ritraggono il circo Knie. Poi c’è un ritratto di Albert Fratellini e una foto dello storico Trio Fratellini. Infine, Remo Rossi fotografato accanto alla scultura Acrobati su impalcatura (1960 circa). Anche la scultura qui sotto, intitolata Gli acrobati, è di Remo Rossi.

 

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Santa Fe

 “Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Settembre
Hanafuda: Crisantemo / Coppa di saké
Luogo: Santa Fe, Nuovo Messico, Stati Uniti d’America
Coordinate: 35°41’46.2″N; 106°10’21.7″W
(Latitudine 35.69616; longitudine -106.17269)
Esco a fare una passeggiata. Sul fianco di una collina mi soffermo a guardare la città dall’alto. È tardi, fra un’ora sarà buio. Riprendo a camminare, seguo un tornante e di nuovo mi giro a contemplare la città. Stavolta però mi trovo davanti il verde smagliante di una siepe. Mi viene in mente che, oltre quella siepe, si distendono le strade, le piazze, i quartieri residenziali, il fiume… ma che importa? Sono nella classica situazione leopardiana. Nel pensiero posso fingere interminati spazi e infiniti silenzi di là dalla siepe, posso giungere fin dove mi porta il desiderio. Mi accorgo però di avere trascurato un dettaglio. Di là dalla siepe c’è una terrazza. E sulla terrazza, approfittando dell’ultimo sole, un uomo e una donna stanno chiacchierando. Devono essere davanti alla porta della cucina, perché sullo sfondo sento una voce infantile che ripassa le moltiplicazioni.
– Cinque per uno cinque, cinque per due dieci, cinque per tre quindici…
La voce dell’uomo è più grave. – Lo so che fanno tutti così. Ma a me piace spendere i soldi che ho. Cioè, se voglio una macchina la compro.
– Ma se non puoi comprarla? – interviene la donna.
– Allora ne compro un’altra. Ma sarà la mia macchina.
– Anche se la prendi in leasing è tua. È la stessa cosa.
L’uomo fa un sospiro. – Io spendo solo i soldi che ho.
– Sette per tre ventuno – dice intanto il bambino (o la bambina). – Sette per quattro ventotto, sette per cinque trenta, no, trentacinque, sette per sei quarantadue, sette per sette quarantanove…
Mi allontano. Non ho visto niente, non ho immaginato niente. Ma forse ascoltare è ancora meglio. Ascoltare e capire quando è il momento buono per scrivere. Un tempo, in Giappone, durante le feste di settembre era usanza riunirsi in riva ai ruscelli e ai canali per comporre versi sullo splendore dei crisantemi. Per gioco si facevano galleggiare le coppe di saké sull’acqua corrente e tutti cercavano di scrivere un poema prima che la coppa arrivasse davanti a loro. Anch’io voglio scrivere in questo modo. Non bevendo saké (o non sempre), ma tentando di raccontare una cosa solo al momento giusto, quando mi sembra necessario condividerla.
Confesso che non mi sento del tutto pronto a parlarvi del mio viaggio nel Santa Fe National Park. Ancora non ho capito bene che cosa mi sia accaduto. Però sento che qualcosa devo dire prima che finisca settembre.
Era una giornata di sole. Non faceva troppo caldo, ma tutto era secco, e il vento sollevava sbuffi di polvere. Faticavo a orientarmi, perché il paesaggio era uniforme: rocce, piccoli arbusti che sembravano pini, qualche picco in lontananza. Forse quello a nordovest era il Cerro Micho. Speravo che potesse fungere da punto di riferimento: secondo i miei calcoli dovevo essere a una decina di chilometri dal Rio Grande, dove avrei trovato l’acqua.
Dopo un paio d’ore di cammino mi sentivo in un mio personale film western. Non ero più un Andrea qualunque, ma un personaggio: il bandito a cui hanno rubato cavallo e borraccia. L’uomo solo che deve passare dalle zone più impervie, covando la nostalgia di una voce amica, di un whisky, di un profumo femminile. Il desperado braccato dai cacciatori di taglie. In fondo il suo desiderio è fuggire in un luogo lontano e mettere su un ranch, ma sa che non sarà facile. No, non sarà per niente facile.
Il bandido, roso dalla sete, punta verso il Rio Grande. Potrebbe cambiare direzione e tornare verso Agua Fria, dove forse troverebbe un riparo per la notte. Ma è troppo rischioso. Non devo farmi prendere. Non mi resta altro che la mia libertà. È una vita sporca, misera, solitaria. Ma è la mia vita. Non me la lascerò strappare via dal primo sceriffo in cerca di gloria.
A pochi passi dal Rio Grande una voce mi coglie di sorpresa.
– Ehi, gringo, stai cercando qualcuno?
Mi volto, lentamente. Sono pronto a combattere.
Ecco. Questo è il mio delirante viaggio di settembre. È tutto vero? È tutto falso? This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend. Nel west, se la leggenda incontra la storia, vince sempre la leggenda.

HAIKU

Viene la notte –
In fondo all’orto ridono
i fiori d’oro.

 

PS: Questo è il nono  “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglio e agosto.

PPS: La frase «This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend» proviene dal film The man who shot Liberty Valance, girato da John Ford nel 1962. È un giornalista a pronunciarla, per sottolineare come sui giornali trovi posto il mito del Far West anche quando esso non corrisponde ai fatti. Nella prima parte dell’articolo, cito qualche parola della poesia L’infinito, scritta nel 1819 da Giacomo Leopardi.

PPPS: Colpiti da questa serie di viaggi immaginari, alcuni lettori del blog di viaggi Rolling Pandas hanno voluto approfondire la conoscenza con me. L’intervista si trova qui. Ringrazio Alice e tutti i responsabili del sito Rolling Pandas, che offre la possibilità di organizzare viaggi in tutto il mondo.

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Just one more thing

Porto sempre con me un taccuino. È un’abitudine che risale agli anni dell’adolescenza, quando cominciavo a prendere sul serio l’attività della scrittura. Ogni tanto qualcuno mi chiede se il taccuino sia necessario per il mio lavoro o se non sia una posa. In fondo, se mi venisse all’improvviso un’idea di quelle imperdibili (ma esistono idee imperdibili?), potrei scriverla sul cellulare o annotarla su un pezzo di carta. Non sono d’accordo: credo che il taccuino, benché non sia indispensabile, aiuti a trovare le parole. Però devo confessare che, a parte l’utilità, mi conforta l’idea di averlo con me. Qualche amico mi chiede sornione se io voglia imitare Jack Kerouac e i grandi autori on the road. Ma la verità è che voglio imitare il tenente Colombo.

Ricordo quando, da ragazzo, guardavo il telefilm in attesa del momento in cui il poliziotto interpretato da Peter Falk tirasse fuori il taccuino, sempre un po’ consunto, per annotare una minuzia o per cercare un’informazione. Mi piaceva quell’attenzione per le piccole cose all’apparenza insignificanti. Mi sembrava avere più di un’affinità con le ragioni che mi portavano a scrivere.
Il taccuino aiuta Colombo non tanto nell’operazione di raccolta degli indizi, quanto nell’entrare in relazione con il mondo. È una sorta di ponte, una passerella fra la realtà e l’immaginazione. Attraverso i particolari l’investigatore s’immedesima nel colpevole. Saper osservare infatti non significa restare esterni, senza implicarsi in ciò che si osserva. Chesterton lo scriveva già nel 1925: La scienza dell’osservazione? Vada al diavolo! […] Insisti a credere che gli investigatori privati scoprano i criminali contandone i bottoni o annusando la loro brillantina? No, […] imparano a scovare i delinquenti perché lo sono anche loro, almeno in parte. Perché appartengono a quello stesso mondo abietto.
Le storie del tenente Colombo mostrano quanto sia importante ciò che sembra marginale. Socialmente, fisicamente, psicologicamente Colombo si presenta come inferiore. Ma alla fine di ogni episodio il suo sguardo ricompone la vicenda. La rottura dell’equilibrio (cioè l’omicidio) crea un legame fra l’assassino e gli spettatori, che hanno lo stesso livello di conoscenza. Infatti gli autori della serie rovesciano il meccanismo classico dei gialli, rivelando fin dall’inizio il colpevole e suscitando nello spettatore una curiosità non sul “chi è stato?” ma sul “come farà l’investigatore a incastrare l’assassino?”. Trovando un senso negli eventi, Colombo si mette dalla parte degli spettatori, li prende con sé, li porta a riconoscere la necessità della giustizia (anche dolorosa, qualche volta). C’è pure una componente sociale, perché l’assassino è quasi sempre appartenente all’alta borghesia, e quasi sempre sottovaluta lo sdrucito poliziotto italoamericano.

Nell’episodio Riscatto per un uomo morto (1971), il tenente ripete più volte alla signora Williamson, una cinica avvocata che ha ucciso suo marito, quanto per lui siano importanti i dettagli. Certi particolari mi fanno impazzire, borbotta sbuffando il fumo del sigaro. Lei lo asseconda, lo crede inoffensivo, si presta al suo gioco. Lui insiste: Gliel’ho detto, i piccoli particolari mi fanno impazzire. In altre parole, stavo solo cercando di spiegare la mia… come posso dire? Lei: Idiosincrasia. Lui: Brava. Idiosincrasia. Ecco… una gran bella parola! Lei: Ah, ne so anche di migliori. C’è dell’altro, tenente? Lui: Ah, no. Credo che sia tutto.
Invece non è tutto. Non è mai tutto. C’è sempre un’altra domanda, un appunto sul taccuino, una parola non detta, un pensiero nascosto nel linguaggio. Colombo arriva alla verità seguendo vie misteriose: identifica il colpevole al volo, senza ragionamenti né induttivi né deduttivi. Semplicemente, sembra attaccarsi alla persona che ha commesso il delitto, coinvolgendola in un gioco sottile di battute, distrazioni e smarrimenti. Nel corso della storia il tenente arriverà poi ad accumulare gli indizi. Questi tuttavia non gli servono per capire, bensì per dimostrare agli altri (e forse anche a sé stesso) ciò che aveva già intuito in un lampo iniziale di riconoscimento.
Lo psicanalista Giovanni Foresti, in un saggio dedicato alla bilogica del tenente Colombo, paragona la tecnica d’indagine del poliziotto al colloquio fra un analista e il suo paziente. In entrambi i casi, il dialogo procede a un doppio livello. Da un lato c’è la comunicazione esplicita, che si attiene al piano tematico stabilito dalle regole sociali. Accanto a questo, il discorso dell’investigatore si muove anche a un altro livello comunicativo, che suggerisce all’interlocutore significati e ipotesi ben più imbarazzanti di quelli trasmessi al livello della coscienza discorsiva immediata.
C’è sempre un momento il cui il tenente sta per andarsene, ma poi torna indietro borbottando che c’è ancora un’ultima cosa (just one more thing). Questa domanda dell’ultimo secondo non di rado è quella decisiva. Così come i fatti che sembrano trascurabili si rivelano quelli più utili per smascherare il colpevole.
Colombo ha il dono di scorgere le cose invisibili. Il suo personaggio, nella sua ordinaria quotidianità un po’ scalcagnata, ha qualcosa di mirabile, di sovrannaturale. In questo senso ebbe una buona intuizione il regista Wim Wenders, che volle Peter Falk nel lungometraggio Il cielo sopra Berlino (1987). Recitando nel ruolo di sé stesso, Falk si porta dietro anche il personaggio di Colombo (che viene esplicitamente menzionato). Il protagonista Damiel (Bruno Ganz) è un angelo che rinuncia al proprio status per condividere l’esistenza degli esseri umani. Nel corso del film, si scopre che anche Falk un tempo era un angelo, e anche lui ha scelto di vivere nel mondo, senza limitarsi a osservarlo dall’esterno. Questa secondo me è una delle chiavi per capire il personaggio. L’impermeabile, il sigaro puzzolente, i capelli che sembrano non aver mai conosciuto un pettine… perennemente goffo, perennemente fuori posto, il tenente Colombo entra nelle nostre vite con la sapienza e la discrezione di un angelo. Un angelo munito di taccuino.

PS: Il tenente Colombo venne inventato negli anni Cinquanta da Richard Levinson e William Link: dapprima apparve in alcuni racconti e in un testo teatrale, poi in Prescrizione: assassinio, un film girato nel 1968 come “puntata zero” per una serie. Nel 1971 venne realizzato un altro pilot: Riscatto per un uomo morto. In seguito decollò la serie, che durò sette stagioni per un totale di quarantasei episodi fra il 1971 e il 1978. Il primo (Un giallo da manuale) venne diretto da Steven Spielberg, allora ventiquattrenne, che nello stesso anno esordì alla regia di un lungometraggio (Duel, 1971). Fra il 1989 e il 1993 vennero prodotte altre ventitré puntate; fra il 1995 e il 2002 alcuni film televisivi.

PPS: Segnalo anche una canzone del gruppo italiano Baustelle, contenuta nell’album Amen (Warner 2008) e dedicata proprio a Colombo.

Così commentano il brano gli autori stessi nel sito SoundblogÈ una metafora del male naturalmente insito in questo sistema capitalistico. Gli assassini di Colombo non uccidono quasi mai per motivi sentimentali: uccidono per avere più soldi o più potere. Il coro degli assassini della canzone siamo un po’ tutti noi, adulti occidentali, che viviamo in un mondo di apparente benessere ma siamo tutti schiavi del potere, della voglia di arricchirci, e restiamo imprigionati nella richiesta di sicurezza, di difesa ossessiva del proprio orto. 

PPPS: La frase di Chesterton è citata da Renato Giovannoli in Elementare, Wittgenstein. Filosofia del racconto poliziesco (Medusa 2007). Il saggio La bilogica del tenente Colombo. Paradigmi d’indagine e stili di riflessione nella letteratura poliziesca e nel lavoro psicanalitico si trova nel volume miscellaneo Psicoanalisi in giallo. L’analista come detective, pubblicato da Raffaello Cortina editore nel 2011. Foresti analizza bene diversi aspetti dell’episodio Riscatto per un uomo morto, di cui ho citato uno scambio di battute. Lo stesso dialogo è presente in uno dei video che illustrano questo articolo. L’ultima fotografia mostra Bruno Ganz e Peter Falk in una scena del film Il cielo sopra Berlino.

PPPPS: Ho scritto un pezzo sul tenente Colombo per la rivista “Cinemany”, usando alcuni frammenti di questo articolo.

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L’incanto dell’avventura

Da bambino confondevo la vita con i romanzi di avventura. Il confine tra la realtà e l’immaginazione era sfumato: leggevo Salgari, Verne, Bonelli, mi avvolgevo nelle storie come in una coperta. E mi preparavo a navigare al largo di Capo Horn, a cavalcare nelle praterie, a venire allevato dai lupi o a difendermi dagli strangolatori thugs. Qualche anno dopo, visto che nessuno tentava di strangolarmi, cominciai a rendermi conto che la vita era una faccenda diversa. La mia quotidianità non prevedeva l’abilità nel maneggiare un kriss malese, né la capacità di usare l’astrolabio per tracciare una rotta nei mari del sud. Tutte le mie nozioni su come sopravvivere a un naufragio su un’isola deserta si rivelarono pressoché inutili per affrontare una giornata di scuola. Certo, i naufragi avvengono anche nella quotidianità, ma in maniera più insidiosa, più straziante. Mi resi conto che i romanzi potevano confortarmi nelle circostanze difficili. In un certo senso, il me stesso adolescente raggiunse la consapevolezza del me stesso bambino, in maniera un po’ più tortuosa. I romanzi d’avventura non sono slegati dalla vita, non consistono in una pura evasione. Come tutte le storie, sono un modo per rappresentare il mistero e le contraddizioni degli esseri umani.
Il suo stesso essere nel mondo è per ogni essere umano il miracolo e l’enigma davanti a cui si trova posto e che costituisce l’inquietudine della sua esistenza. Queste parole del filosofo Eugen Fink illustrano bene il concetto. È ingannevole considerare la vita quotidiana come stabile, assodata, sicura. Se i romanzi di avventura servissero anche solo a mantenere desta l’inquietudine, ci renderebbero un immenso servizio. Parlo naturalmente di un’inquietudine che ci spinga a muoverci, a conoscere – pur nel tormento – e non dell’angoscia paralizzante in cui purtroppo ogni inquietudine, talvolta, rischia di sfociare.
Ecco perché, quando apro un libro come Scaramouche, percepisco che sta parlando (anche) di me. È una vicenda di cappa e di spada ambientata nella Francia del XVIII secolo. Il protagonista André Moreau intraprende un cammino rischioso per vendicare la morte del suo migliore amico. Nel corso della narrazione, come accade sempre nelle buone storie, finirà per trovare altro rispetto a ciò che s’immaginava. Scaramouche affronta temi psicologici (il valore dell’amicizia e dei legami di famiglia), sociali (nel corso della vicenda scoppia la Rivoluzione francese) e filosofici (la personalità doppia, la ricerca d’identità). Ma la sua vera forza sta nel dinamismo, nella profonda vivacità dei personaggi. L’autore Rafael Sabatini nacque in Italia nel 1875 e morì in Svizzera nel 1950. Di padre italiano e madre inglese, poliglotta e viaggiatore, fu un cittadino britannico e scrisse sempre in inglese. Nel romanzo affiorano i suoi legami con altre lingue e culture, oltre a un’ironia che si ritrova nei due film tratti dall’opera.
Il primo venne girato nel 1923, appena due anni dopo l’uscita del libro: è un film muto, con la regia di Rex Ingram e Ramon Navarro quale protagonista. Il secondo risale al 1952 e venne diretto da George Sidney, che era uno specialista di musical. Gli attori infatti si muovono con una leggiadria che non capita spesso di vedere nei film d’azione. Uno degli aspetti che mi commuove è proprio questo incanto, questa grazia nell’esserci, nonostante le difficoltà. Questo afferrare la pienezza dell’istante.
Scaramouche è insieme allegro, malinconico, drammatico, crudele, a seconda delle scene. Spesso il regista ferma il tempo narrativo, come si usa nei musical, per inserire sequenze girate con la durata reale. Nel caso dei musical si tratta di canzoni e balletti. In Scaramouche, i balletti sono sostituiti dai duelli con la spada, la cui coreografia è curata in ogni dettaglio. Nella magnifica sequenza dello scontro finale, i due rivali si affrontano all’interno di un teatro, rincorrendosi per più di sei minuti sul palco, nel corridoio, nella platea, nella galleria, mettendo in scena una sorta di “teatro nel teatro”. Goffredo Fofi, nella sua introduzione al romanzo, lo definisce il più lungo e il più bello tra i duelli alla spada nella storia del cinema.

Scaramouche è una storia di avventura, lontana nel tempo e nello spazio, ma è anche la mia vita, con il suo impasto di dolcezza e dolore, malinconia e vitalità, rabbia e tenerezza. Come non essere lì, come non sentirci noi stessi protagonisti, quando leggiamo la prima frase del romanzo? Era nato con il dono della risata e la sensazione che il mondo fosse pazzo.

PS: Le parole di Goffredo Fofi provengono dall’edizione italiana del romanzo, pubblicata nel 2009 da Donzelli (traduzione di Nello Giugliano). La frase di Eugen Fink, da me tradotta, è presa dal saggio Spiel als Weltsymbol (Stuttgart 1960). Il volume è apparso anche in italiano, tradotto da Nadia Antuono con il titolo Il gioco come simbolo del mondo (Hopefulmonster, Firenze 1992).

PPS: Anche la firma di Sabatini (la terza immagine dall’alto), era precisa e leggiadra come un colpo di fioretto.

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