Oggi sono troppo stanco per scrivere. Ci provo, in effetti lo sto facendo, ma l’Andrea che scrive è poco più di un gesto. È la schiena che cerca una posizione, sono le dita che premono sulla tastiera. È sempre così: una lettera dopo l’altra. Ecco, ho già scritto cinquanta parole, senza contare gli articoli. Non è difficile. Basta non pensarci. Stamattina presto ero in onda alla radio, e per quattro ore non ho parlato con nessuno (tranne un rapido saluto all’addetta alla sicurezza). O almeno, questa è la mia impressione: un lungo passaggio silenzioso. In realtà ho parlato, naturalmente. Ho posato l’indice sul pulsante rosso del microfono e ho parlato. Ho anche intervistato degli esseri umani. Ma parlare nel microfono mi sembra solo un’altra forma di silenzio, più ambigua, più elusiva. E ora? Continuo a tacere e continuo a premere tasti. E fuoriescono parole, molto più di cinquanta, non sto a contarle. Ma insisto: è solo un modo per tacere. La scrittura per me è ascolto, piuttosto che espressione. Naturalmente finisco per dire qualcosa, ma per riuscirci devo prestare attenzione a ciò che si muove intorno a me, dimenticandomi. Poi devo paragonare i suoni, le meraviglie, le ferite del mondo a ciò che d’inesprimibile accade dentro di me. Insomma, scrivere è un modo per essere attenti. È come quando a scuola prendevo appunti non tanto per rileggerli in futuro, quanto soprattutto per non addormentarmi durante la lezione. Nessun racconto dice mai l’ultima parola. Nemmeno quelli con un finale perfetto. È dopo, nel silenzio, che i personaggi compiono il loro destino, all’insaputa di chi scrive e di chi legge. Ci pensavo proprio stamattina, sempre alla radio, quando parlavo di Franz Kafka. (Lo so, non si dovrebbe parlare di Kafka prima delle otto del mattino, ma proprio oggi si celebrano i cento anni dalla morte.)
A lungo ho avuto una certa ritrosia nel leggere Kafka. Ero frenato dall’aggettivo: “kafkiano”, con tutto il suo strascico di compiaciuta erudizione. Ma poi ho pensato che non è colpa di Kafka se l’hanno aggettivato. Ora lo leggo spesso, soprattutto i racconti brevi e gli aforismi. In particolare apprezzo i frammenti incompiuti. Come questo, per esempio: «Chiesi a un viandante che trovai sulla strada maestra se dietro i sette mari ci fossero i sette deserti e dietro a quelli le sette montagne, sulla settima montagna il castello e». Perché Kafka si è fermato dopo quella “e”? Aveva perso il conto? Oppure la frase non gli piaceva? Però non l’ha cancellata, l’ha soltanto lasciata in sospeso. Forse qualcuno l’ha interrotto mentre stava scrivendo. Forse aveva finito l’inchiostro. Comunque sia, quel frammento incompiuto mi pare uno dei più belli, circondato di silenzio. «Il castello e». Non c’è altro da dire, perché dopo la “e” tutti stiamo già visitando il nostro castello, che è nostro e insieme di Kafka. Siamo soli e in compagnia, scriviamo e restiamo in silenzio, diciamo senza dire. È per questo che amiamo la letteratura.
PS: Il testo di Kafka proviene dalla sezione “Frammenti” in F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1972. La fotografia ritrae un castello e.
Anni fa avevo letto in un libro la storia del ciottolo di Makapansgat. Mi ero procurato un’immagine della pietra e l’avevo salvata nel mio telefono. In seguito ho dimenticato sia il titolo del libro, sia la storia del ciottolo. Due giorni fa, cercando un’altra foto, ho ritrovato per caso l’immagine: un sasso che assomiglia a un volto umano, con dei solchi per gli occhi e la bocca. Ho fatto qualche ricerca e ho letto – riletto, ma era come se fosse la prima volta – che la pietra risale a 2.95 milioni di anni fa ed è stata trovata in una grotta a Makapansgat, in Sudafrica Si tratta di un diaspro di colore rosso-brunastro. Accanto al ciottolo c’erano dei resti di Australopithecus africanus. Il materiale di cui è composta la pietra non proviene dai dintorni: qualcuno deve averla raccolta altrove e portata con sé. Che cosa spinse quell’ominide a trascinarsi dietro il ciottolo per molti chilometri? Non è difficile capirlo: anche a me piace raccogliere sassi, tanto più se ne trovo uno che assomiglia a una faccia. Ma io vivo all’inizio del Ventunesimo secolo e sono abituato ad attribuire un valore simbolico agli oggetti. Per arrivare a me il percorso è stato lungo: gli antenati degli esseri umani impararono lentamente che le cose potevano assomigliare ad altre cose. È quello che succede ai bambini, quando riconoscono nei nostri disegni stilizzati un uomo, una donna, una casa, un gatto.
Il ciottolo di Makapansgat è un oggetto artistico, forse il primo in assoluto. Non è stato creato da un essere umano, poiché la sua origine è naturale. Ma una persona l’ha visto, l’ha afferrato. Immagino la sua meraviglia. Non ha nemmeno potuto indicarlo a qualcuno ed esclamare “ehi, guarda, sembra la tua faccia!”, perché ancora non si era sviluppato il linguaggio. Sono convinto però che l’avrà mostrato con fierezza ai membri del proprio clan. E gli altri l’avranno ammirato a bocca aperta. Forse qualcuno avrà scosso il capo, pensando che raccattare sassi fosse una perdita di tempo. Ancora oggi c’è gente che la pensa così. Quando ci penso, quel gesto mi commuove. Il ciottolo venne raccolto quando gli ominidi ancora non sapevano costruire utensili in pietra, più di un milione di anni prima che imparassero a controllare il fuoco. Le manifestazioni artistiche dirette, come le incisioni rupestri, sarebbero arrivate centinaia di migliaia di anni più tardi. Gli scienziati discutono sulla reale portata di quell’azione, ma non voglio addentrarmi nella diatriba. Per me oggi basta questo: riconoscere il proprio volto nelle cose del mondo, senza costruire o modificare niente, è l’inizio di ogni storia. Tutta l’arte, tutta la letteratura nacque nel momento in cui un ominide tirò su una pietra e se la mise in tasca (in una proto-tasca), proprio dove noi teniamo il telefono e il portafogli. Mi piace immaginare che fosse un luminoso mattino di primavera. Come sempre, in occasione del mio compleanno, mi trovo a riflettere su di me, sul mio mestiere. Credo che il ciottolo di Makapansgat sia una sorta di manifesto anche per un narratore. Le storie non si traggono dal nulla, ma esistono già: bisogna solo raccoglierle da terra. La poesia non è un’invenzione, ma un riconoscimento. Questo mi aiuta nei momenti in cui mi chiedo che cosa fare, che direzione dare alla mia scrittura, come lavorare a un testo. Nella pratica quotidiana, anno dopo anno, mi rendo conto che non si tratta di affermare la mia personalità, bensì di lasciare spazio al mondo, perché esso si rifletta nelle mie parole. Chissà, forse la prima volta in cui mi capitò di leggere la storia del ciottolo avevo sviluppato dei pensieri simili. In ogni caso, poi ho dimenticato tutto finché lunedì scorso, passeggiando fra le fotografie conservate nel mio telefono, ho raccolto il ciottolo un’altra volta. Anche questo mi conforta: dimenticare le cose non è per forza un male, anzi, può essere un’opportunità per continuare a riscoprirle. Per fortuna, là fuori l’universo è pieno di ciottoli.
PS: Negli ultimi mesi scrivo poco in questo blog. Non so nemmeno il perché. In generale, faccio fatica a usare anche i social network e le forme di comunicazione immediata. Credo tuttavia che sia giusto fare uno sforzo per proseguire anche questo tipo di scrittura, insieme a quella più lenta e più meditata delle mie pubblicazioni “ufficiali”. Quindi, tornerò a farmi vivo, presto o tardi… Intanto, per chi segue ogni tanto anche il blog, voglio festeggiare il compleanno con un breve inedito, come vuole la tradizione. S’intitola Pensieri dell’ingorgo.
(Il testo è già stato pubblicato in un volume a tiratura limitata, un omaggio a più voci al poeta Alberto Nessi: AAVV, Rampe di lancio doganieri nuvole, Omaggio ad Alberto Nessi, a cura della Casa della letteratura per la Svizzera italiana, Bellinzona, Edizioni sottoscala, 2020.)
Sono seduto in una stanza fredda. Di fronte a me non c’è nessuna cosa blu. Un computer grigio, qualche libro rosso, uno marrone, uno giallo, una penna rossa, un tagliacarte argenteo. Carta bianca, camicia rossa e nera, lampada gialla. È una stanza spoglia, in una casa di montagna. Davanti a me il muro (bianco) e una finestra con le imposte rosse dalle quali traspare il chiarore del sole. Perché dovrebbero esserci cose blu? Non lo so. Però mi dispiace che non ci siano. Certo, i miei occhi sono blu e chissà, forse improntano il mondo con la loro bluità. Nel dubbio, appoggio accanto alla scrivania la mia penna stilografica (azzurra, con inchiostro blu) e una copia di Une histoire de bleu, di Jean-Michel Maulpoix. Sfogliando il volume di poesie, m’imbatto in una frase che mi sembra adatta a inaugurare un nuovo anno: «Je contemple dans le language le bleu du ciel», contemplo nel linguaggio il blu del cielo. Il linguaggio per me ha parecchie tinte oscure. Del resto nemmeno il cielo è veramente blu, secondo gli esperti. Ma che cosa importa? Il blu è il colore della lontananza e dell’intimità: fra questi due poli si muove il mio tentativo di dire qualcosa con le parole. Il blu è anche il colore dei fiumi, che sono i maestri di ogni narratore.
Il testo di Maulpoix contiene altre osservazioni memorabili. Traduco: «Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. […] Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani.» Se si rinuncia al linguaggio come mezzo di possesso, allora le parole saranno un modo per toccare «con le mani»; e come sappiamo fin da bambini, il desiderio di toccare le cose riflette quello di conoscerle davvero, con la nostra pelle.
Manca poco a Capodanno. Mi torna alla mente un racconto che scrissi in primavera e che, tuttavia, anticipava il 31 dicembre. S’intitola Il custode dell’abisso ed è contenuto nell’antologia Un lungo Capodanno in noir, edita da Guanda qualche settimana fa. Gli altri autori sono Gianni Biondillo, Gian Andrea Cerone, Luca Crovi, Giancarlo De Cataldo, Marco De Franchi, Diego De Silva, Marcello Fois, Leonardo Gori e Marco Vichi, che è il curatore della raccolta. La mia storia racconta di un uomo ossessionato dall’intelligenza artificiale. L’investigatore Elia Contini affronta un caso minimo, sospeso fra l’assurdo e il mistero che formano il cuore degli esseri umani. Il valore di questo libro, per me, consiste soprattutto nella possibilità di condividere la tecnica e il senso di un mestiere. Il cosiddetto mondo letterario purtroppo è spesso composto da monadi, da colossali ego che si urtano fra loro come continenti alla deriva. Una casa editrice che inviti degli autori ad affrontare un tema invita anche allo scambio, al confronto, al contatto diretto fra scrittori che vivono in luoghi diversi e che scrivono con colori diversi (ma un po’ di blu non manca mai, mescolato con il noir). La motivazione profonda del mio scrivere discende dal mio essere lettore (e prima ancora ascoltatore e narratore di storie trasmesse oralmente). Perciò, fin dalla primavera, mi rallegravo non solo per l’opportunità di scrivere un racconto venato di malinconie capodannesche, ma soprattutto per la prospettiva di leggere i racconti degli altri, di entrare nel loro mondo. Il che è anche un modo per sentirmi meno solo. Stamani, mentre caricavo i bagagli in automobile per salire in montagna, una delle mie figlie mi ha fatto notare come fosse nitido il mio riflesso sulla fiancata della macchina. «È quasi uno specchio!» A me sembrava molto confuso, ma ho provato a scattare una fotografia. In effetti l’immagine mi pare assai offuscata… in compenso non è priva di atmosfera. Mi colpisce la presenza dell’ambiguo e dell’ignoto. Sulla sinistra è comparso una sorta di paesaggio innevato (che non c’era) e addirittura quello che potrebbe essere un abete solitario. La casa alle mie spalle è diventata una dimora quasi spettrale. E il mio volto sfocato sembra invocare la grazia di un compimento, di un tratto che restituisca il blu allo sguardo.
Ecco, per me ogni esperienza di condivisione artistica è un passo verso il compimento. Non mi addentro nei dettagli delle singole esperienze (magari aggiungo un Post Scriptum), ma voglio ribadire che Un lungo Capodanno in noir è una di queste. Se la scrittura è la ricerca del proprio volto umano (a partire da un riflesso, da un richiamo), allora tale ricerca deve per forza implicare la presenza degli altri: prima del nostro, infatti, vediamo il volto degli altri, a partire dalla nascita e dal volto materno fino all’ultimo che riusciremo a contemplare, prima di chiudere gli occhi per sempre. Sono partito con l’idea di scrivere qualcosa sul Capodanno e mi ritrovo a parlare della morte. Non era pianificato. A pensarci però mi sembra inevitabile. Così funziona il mondo. È nella terra dura che dormono i semi, nell’aria tagliente che fioriscono i germogli. Per fortuna, il ghiaccio della pagina bianca prima o poi lascia sempre spazio all’azzurro di un fiume, anche solo di un rigagnolo. Auguro a tutte le lettrici e i lettori di questo blog un anno ricco di ruscelli, di blu, di volti da scoprire e, in generale, di meraviglia. Buon 2024! Concludo con un estratto dal racconto Il custode dell’abisso.
Ci sono persone che sono felici il 31 dicembre. Carlo ne conosceva qualcuna fin dall’adolescenza. Addirittura c’è chi a Capodanno trova l’amore, o qualcosa che ci assomiglia. Il mondo è vario: c’è chi adora il conto alla rovescia. Altri invece, presagendo la sconfitta, riescono a trovare una scusa: basta un raffreddore al momento giusto. Carlo, invece, cominciava ad agitarsi verso la fine di novembre. Quale invito accettare? E se avesse sbagliato festa? E se fosse capitato per sbaglio a una cena fra coppiette? Tutto questo a vent’anni è sopportabile, anzi, c’è una sorta di amaro compiacimento nel pensare a sé stesso come a un lupo solitario. A trent’anni invece sei prigioniero dei tuoi desideri, come sbarre di ferro, e non puoi evadere dalla gabbia sociale. Dopo i quaranta provi a metterla sul ridere, ma quando sei solo in cucina il mattino del 31 dicembre, dopo colazione, è difficile fingere di non sapere tutto. L’aperitivo, la musica sempre troppo forte, gli ehi-com’è-tutto-a-posto-non-ci-vediamo-da-un-po’, le chiacchiere sullo sport e sul lavoro, gli amici con figli e i relativi beati-voi-che-fate-festa-noi-invece-a-letto-presto. Poi la cena, l’amico esperto di vini, quello che si è comprato una barca, quello che corre in salita e sembra uno spaventapasseri, quello che produce in casa la birra e il pane. Le solite lenticchie, la solita euforia. Infine si va in piazza, dove c’è un palco con gente pagata per gridare, la musica di nuovo troppo forte, i fuochi d’artificio sul lago, oh, meraviglia, ma quanto costeranno? E la prospettiva di bere quel tanto che basta per riuscire a resistere fino al cinque quattro tre due uno, o forse un po’ di più, forse quel tanto che basta per dimenticare tutto il giorno dopo.
PS: Il testo di Jean-Michel Maulpoix è tratto da Une histoire de bleu, Gallimard, Paris 2005 (ed. orig. 1992). Si trova nelle sezione “Carnet d’un éphémère”. Ecco una traduzione dell’intera prosa.
Contemplo nel linguaggio il blu del cielo.
Le parole per me non avrebbero valore se si rassegnassero a nominare o a descrivere ciò che è, invece di precipitarsi verso ciò che non è. Mi si addice la loro cecità: io sono un sognatore irriducibile. Le parole hanno un modo tutto loro per dissipare il mistero aumentandolo, e non mi rivelano niente di cui prima non abbiano deformato i tratti. Conosco i loro inganni e mi ci sono rassegnato. Non voglio più appropriarmi delle cose che nomino: mi basta abbozzare il gesto di toccarle con le mani. Anche solo per ravvivarne il dolore, concedo al linguaggio di corteggiare l’impossibile. La scrittura non è mai troppo ricca di desideri o di menzogne per chi faccia un uso tragico delle sue maschere. Sapendo la sua vanità, non vi rinuncia ma la coltiva come un veleno. Da quel momento niente l’ossessiona più di questa duplicità, dalla quale riconosce che sta diventando un uomo.
PPS: Chi legge questo blog si sarà accorto che gli aggiornamenti sono discontinui. Non è per trascuratezza, ma perché mi sembra opportuno misurare le parole. Il vantaggio di un blog, rispetto a qualunque social network, è che non chiede niente, né “like” o condivisioni, né pubblicità. Quindi pubblico qualcosa quando ne ho voglia, senza darmi nessuna scadenza.
PPPS: Una precisazione sulla creatività condivisa. Per me accade prima di tutto, e in maniera profonda, nella scrittura a quattro mani con Yari Bernasconi. Insieme abbiamo creato una “terza voce”: Yari Bernasconi & Andrea Fazioli è un’entità diversa da YB e AF intesi come autori singoli. Ma tale condivisione si è verificata anche quando ho collaborato con musicisti, pittori, registi teatrali e cinematografici. Vorrei citare almeno Marco Pagani e Fabio Pellegrinelli, con i quali ho sceneggiato La tentazione di esistere(Rough Cat 2023), un film diretto dallo stesso Pellegrinelli, che dopo avere vinto il festival di Benevento, è fra le opere selezionate per il prossimo Premio del cinema svizzero.
Siamo io e lui. Come sempre. Io pedalo controvento, ai margini dei campi, mentre lui scivola al mio fianco, leggero, leggerissimo, come io non sarò mai. Io tendo i muscoli, sudo, respiro l’aria fredda con la bocca. E lui? L’Andrea d’ombra è un pensiero di sfuggita, una rapina. Fugace come il dito di un illusionista. La terra è chiusa nell’inverno, con il promemoria di qualche ciuffo d’erba color verde sciupato. Ma l’Andrea d’ombra non sente la terra, la sfiora appena.
Vedi, le crepe fra le zolle somigliano alle mie domande. Sciocchezze, bisbiglia l’Andrea d’ombra. Un anno è andato, bene o male. C’è stato il male, sì. La fine di questo e di quello, e le persone in fuga e gli strappi e le ferite della morte, un colpo alla volta. E guerre. E sangue. Non fermarti, mormora l’Andrea d’ombra. Hai avuto anche la felicità, la resistenza. Se lo dici tu. Ma sì, occhi sgranati, castagne d’India in un cortile, pane, alberi, cuscini sprimacciati, l’incanto e le parole… Ma che stai dicendo? Non ti fidi. Come potrei? Sei ombra, senza ferite. Non è vero: custodisco le tue. E so che tutto quello che ti serve, ora, è questa strada di campagna, con l’asfalto un poco sconnesso, questo indugio del sole nel tardo pomeriggio.
Come ogni vigilia di Natale, io e l’Andrea d’ombra facciamo il punto della situazione. Come sempre mi lamento per i progetti incompiuti, per le pagine scritte che non sono come vorrei. E per fortuna, dice lui. Poi mi chiede: non sei contento di quel libretto? Quale libretto? Ma sì: Manca poco a Natale, appena pubblicato da Gabriele Capelli. Ma quello non è opera mia, rispondo. Come no? Dice: illustrato da Antoine Déprez, scritto da Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. Appunto. Yari Bernasconi & Andrea Fazioli sono un’entità indipendente, diversa sia da Yari Bernasconi, sia da Andrea Fazioli, sia dallo Yari d’ombra, sia dall’Andrea d’ombra. E non dimenticare Yari Bernasconi & Andrea Fazioli d’ombra. Sì, hai ragione. Anche la & può essere una & d’ombra. Insomma, siamo una mezza dozzina. Solo gli autori. Ma se aggiungi anche i personaggi… Basta, basta, ho capito. Ogni libro nasconde una folla. E anche una follia… Così, mentre la bicicletta sfreccia, io e l’Andrea d’ombra passiamo il tempo fra battibecchi e pessimi giochi di parole. Cose minuscole. In una poesia del libretto ci sono queste parole: «“Anche le cose più comuni / sono straordinarie” diceva mio nonno / con gli occhi, camminando». Il Natale è anche questo, semplicemente: un gesto d’attenzione. La vastità mutata in piccolezza, l’intuizione che le cose banali covano in sé la meraviglia. Il prodigio è il mondo che ogni mattina si presenta come nuovo, nonostante tutto. «Quello che ci rende possibile continuare a vivere è il costante inizio», scrisse Romano Guardini. Il «nuovo» si presenta ogni giorno «con ogni compito e incontro; con ogni dolore e ogni gioia». Spesso noi «intendiamo per nuovo quanto ci eccita. Solo di rado siamo pronti ad avvertire il nuovo in quel che è piccolo e sommesso». Anche la letteratura è un fermento di cose banali che diventano necessarie, che rivelano sé stesse (e noi che scriviamo, che leggiamo). In una lirica di Manca poco a Natale appare un personaggio – idealmente un ragazzino – che affida il dopopranzo natalizio all’immaginazione.
E quando inizia a voltare le pagine oltre il brusio del pranzo e dei parenti, dal suo angolo discosto, l’orizzonte perde i contorni. Come gli gnomi, adesso, cavalca i cinghiali e soccorre le volpi, siede guardingo con i gufi sull’orlo della notte, attendendo l’oscurità di quelle valli boscose che cercano un nome.
Il desiderio di un Natale «piccolo e sommesso» ha guidato Yari Bernasconi & Andrea Fazioli nella stesura dei testi lirici che compongono il libretto. E questo è anche l’augurio mio (e di tutta la mezza dozzina di autori) per questo Natale: che sia piccolo e silenzioso, ma promettente. Come una serie di tracce sulla neve che portano a un rifugio, a un calore. Buon Natale!
PS: Il libretto Manca poco a Natale è stato stampato in edizione limitata a 500 esemplari, di cui circa 330 in commercio. Non so se sia ancora disponibile. Per informazioni, potete scrivere a gabrielecapellieditore@gmail.com.
PPS: Le parole di Romano Guardini sono tratte da Nähe des Herrn. Betrachtungen über Advent, Weihnachten, Jahreswende und Epiphanie, TOPOS-Taschenbuch, Matthias Grünewald Verlag, Mainz, 1992, traduzione italiana di Giulio Colombi in Natale e Capodanno, Morcelliana, Brescia 1995.
Mi capita a volte di pensare ad animali che non esistono. Per anni ho buttato giù appunti su queste bestie immaginarie. Mi sono appassionato all’argomento, ho letto bestiari medievali e bestiari moderni. Piano piano ho scritto delle prose, poi molte le ho abbandonate, altre le ho corrette e riviste, altre ancora le ho perse e ritrovate. Alcune sono finite nel romanzo Le strade oscure (Guanda).
Da sempre gli scrittori affidano agli animali le parole che non riescono a dire. Nelle mie ricerche sono partito da antichi testi cinesi ed ebraici e dalla stessa Bibbia, che contiene molti animali fantastici. Poi mi sono soffermato sul Fisiologo, che è il bestiario occidentale più antico, composto in greco ad Alessandria nel II secolo. Nella loro ingenuità, i vecchi bestiari possono suscitare commozione. «C’è un uccello chiamato upupa – dice il Fisiologo. – I figli, quando vedono i genitori invecchiati, strappano le loro vecchie ali e leccano i loro occhi, li riscaldano sotto le loro ali e li covano e questi ridiventano giovani; allora dicono ai loro genitori: “Voi ci avete covati e avete faticato per allevarci; anche noi abbiamo fatto lo stesso con voi”.» Oltre alla tenerezza delle cure, stupisce questa infanzia rinata nell’estrema vecchiezza. Curioso come proprio questo uccello sia stato in seguito, come ebbe a dire Eugenio Montale, «calunniato dai poeti». Foscolo lo rappresenta come un’«immonda» creatura che svolazza fra le tombe e Parini l’annovera fra i «mostri avversi al sole». Montale invece è più vicino al Fisiologo, quando definisce l’upupa un «ilare uccello» e un «nunzio primaverile», celebrandone la vitalità: «per te il tempo s’arresta / non muore più febbraio».
Anche nei migliori bestiari del Novecento gli animali esprimono la drammaticità e la grazia della vita umana. Federigo Tozzi, per esempio, con le sue Bestie (1917) compone una serie di prose brevi dove compare sempre un animale, come clausola misteriosa. Così l’autore racconta il suo ritorno a casa in una notte stellata: «E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me; e spinge in qua l’uscio, sì che duro fatica a rinchiuderlo. Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia?» Il brano finisce qui, con il fremito dell’animale che rappresenta la segreta tensione dell’uomo. In questo caso sono animali reali, come l’upupa e la gatta, usati però al servizio dell’immaginazione. Ma nei bestiari appaiono anche veri e propri animali immaginari, come le «particelle grammaticali» di Ermanno Cavazzoni: «I laonde, i per cui, i costà appartengono alla categoria degli insetti e ronzano intorno alla testa del poeta sotto ispirazione». Oppure pensiamo al Manuale di zoologia fantastica, in cui Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero annotano le caratteristiche di molte creature interessanti, fra le quali il Goofus Bird, «uccello che costruisce il nido a rovescio e vola all’indietro, perché non gli importa del posto dove va, ma di quello dove stava».
Nel romanzo Le strade oscure appaiono animali tratti dai bestiari antichi e da quelli moderni. Ma le prose specificamente dedicate a queste invenzioni, sebbene partano dalle figurazioni medievali, si sviluppano in maniera indipendente. Ecco un esempio.
Avrai sentito parlare del grizzly. È uno degli orsi più grandi che ci siano al mondo. Ho letto di un esemplare che pesava ben 680 chilogrammi. Poi c’è il cosiddetto «orso grolare», che è ancora più grosso ed è un incrocio fra un grizzly e un orso polare. Pochi invece conoscono l’esistenza del grilly. È altrettanto grande e pericoloso, ma non ha denti né unghie. Per dirla tutta non ha nemmeno pelo, grasso, ossa, nervi o muscoli. Il grilly non si può toccare, non si può vedere. È qualcosa che percorre le strade nei pomeriggi assolati dei weekend. Le madri preparano l’insalata di patate, i padri accendono la carbonella. I bambini giocano dentro una piscina azzurra. I nonni o gli zii bevono un bicchiere di bianco. L’uomo che cammina cade facilmente nell’agguato. La stretta poderosa del grilly lo cattura all’improvviso: egli allora pensa a quanto sia lontano dai suoi cari e si perde nella nuvola odorosa di carne, birra, famiglie felici, risate, persone che sanno stare tranquille. L’uomo, tra le zampe della bestia, è disperatamente solo. È possibile sconfiggere un grilly? Sì, ma bisogna essere molto coraggiosi. E anche molto fortunati.
Prima di chiudere vorrei fare un altro esempio, per illustrare la genesi di un altro animale immaginario che si trova nel romanzo. Spesso, quando guardo il cielo, mi capita di vedere draghi. Molte persone riconoscono forme nelle nuvole: uomini, donne, cose, bestie, magari anche creature più oniriche e bizzarre. È quasi inevitabile. Gli animali, del resto, non appaiono soltanto nelle nuvole, ma si nascondono ovunque: ricordo un passo di Moby Dick in cui Melville accenna alle balene intraviste in un profilo di montagna. Da quando lo lessi per la prima volta, anch’io ho avvistato parecchi di questi inafferrabili “cetacei di montagna”. Tornando al cielo, in un primo momento mi venne in mente di scrivere una piccola prosa dedicata alla “nuvola-drago”. Ma mi sembrava troppo banale, troppo ancorata a un semplice esercizio di fantasia. Voglio dire, nella mia vita avevo conosciuto molte nuvole-drago (e ogni estate ne scopro di nuove), ma non mi sembravano un vero e proprio animale immaginario come lo sniek, il buiardo, il segretolo, l’erkraidguyok, la fogliassera, il ciottolicchio, la pulciottera e tutti gli altri che riempivano le pagine del mio taccuino (quelli appena citati, in particolare, sono finiti anche nel romanzo). Alla fine compresi che il drago doveva apparire diverso: non una nuvola che si staglia nel cielo, ma una creatura più profonda, più vasta, più indecifrabile, proprio come il cielo stesso.
Nella vita di tutti noi ci sono molti draghi. Quelli più remoti, che risalgono alle fiabe ascoltate da bambini, quelli impalpabili che cerchiamo nelle costellazioni o nella forma delle nuvole, quelli che incontriamo nei libri, nei dipinti, nelle sculture. Ci sono draghi che s’insinuano di notte nei nostri sogni, altri a cui diamo nomi diversi: dinosauri, serpentoni, mostri, chimere. Ma il drago più grande è il cielo. O meglio, non il vero cielo, ma una creatura che gli si pone davanti, dello stesso colore, della stessa sostanza. È un animale mimetico, in grado di assumere la forma celeste tanto da ingannare chiunque. Per individuarlo bisogna sdraiarsi su un prato, in un pomeriggio estivo, e contemplare a lungo l’azzurro. Allora capiterà di sorprendere un movimento furtivo, un colpo d’ala o uno sbuffo di fumo. Per un attimo sarà come vedere un cielo adagiato contro il cielo. Quando poi il drago volerà via, la profondità sopra di noi sembrerà ancora più vasta, più misteriosa. A che cosa serve, ti chiederai, questo drago tanto difficile da reperire? È semplice: serve a guardare meglio il cielo.
PS: Approfitto di questo articolo che prende spunto da Le strade oscure per annunciare ai lettori di questo blog che il romanzo è stato scelto nella cinquina dei finalisti al Premio Scerbanenco 2022, in seguito alla selezione della giuria e al voto del pubblico; a questo proposito, ringrazio di cuore tutte le persone che hanno votato per il romanzo.
PPS: Avevo già approfondito qui alcuni aspetti della genesi del romanzo. E avevo già parlato degli animali immaginari in un articolo apparso su “Il Libraio”.
PPPS: Ecco un elenco dei testi che ho citato nell’articolo: AAVV, Bestiari tardoantichi e medievali, a cura di Francesco Zambon, Bompiani 2018; Foscolo, “I sepolcri”, in Sepolcri Odi Sonetti, Mondadori 1987; Parini, “La Notte”, in Il Giorno, Mondadori 1986; Ermanno Cavazzoni, Guida agli animali fantastici, Guanda 2011; Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, Manual de zoología fantástica, 1957, Manuale di zoologia fantastica, trad. di Franco Lucentini, nuova edizione a cura di Glauco Felci, Einaudi 1998; Federigo Tozzi, Bestie, in Opere, Mondadori 1987. Non ho citato esplicitamente il passo di Moby Dick (ve lo lascio cercare, se volete, com’è giusto che si faccia con le balene); comunque, se l’avessi fatto, sarebbe stato nella traduzione di Cesare Pavese pubblicata da Adelphi.