Le cose necessarie

Mentre passeggiavo in una piccola città ho visto un biglietto sul marciapiede. Era lungo circa quattro per venti centimetri e conteneva un testo scritto a computer con un carattere minuscolo (forse Cambria dimensione 5). Era difficile da decifrare. La prima riga: «ecologia: stu t re k es Org:ess vi costcost da un complena di org vit». E qualche riga dopo: «flusso di ene=corrente/spostam di E da un punto ad un altro della catena». Dopo un po’ ho capito che era uno di quei foglietti sui quali gli studenti annotano ciò che devono imparare a memoria, con la speranza di sbirciare le informazioni durante le verifiche scritte. Dalle mie parti si chiamano “bigini”.

È un imbroglio, ma non si può negare che ci sia qualcosa di significativo nel costringere quanta più conoscenza nel minore spazio possibile. Inoltre, in un’epoca virtuale come la nostra, si tratta pur sempre di un buon vecchio bigino ritagliato a mano, su carta, come ai vecchi tempi. Chissà se il foglietto è stato smarrito prima o dopo la verifica. Immagino l’artefice del bigino seduto al suo banco, pronto a sfoderare la sua arma segreta. Cerca nella tasca… ma è vuota. Nella borsa? Nell’astuccio? Nel diario? Niente, il bigino non si trova. Tanta minuziosa fatica è andata sprecata… non resta che fare i conti con la propria memoria.
Questo ritrovamento mi ha fatto riflettere. Forse succede così anche a me? Tanti romanzi, racconti, saggi, segni neri sul bianco, anno dopo anno. Ma che cosa rimane? Prima o poi il tempo cancella ogni parola scritta, dal bigino al romanzo, dalla lirica d’amore alla lista della spesa. Può restare un frammento di emozione, il fantasma di un personaggio, lo straccio di un pensiero. Ma ogni memoria presto o tardi perde la presa.
Tutto passa.
Una banalità, certo.
Ma quando s’incide nella carne, nella quotidianità, è sempre un’esperienza nuova.
Comunque, è un giornata di sole. La cosa migliore sarebbe uscire, fare un giro in bicicletta, non lasciare che i pensieri si avvitino. Ma oggi ho una scusa: è il mio compleanno. Ci passiamo tutti, no? Dopo i cinque o sei anni di età, la percezione del tempo si fa sempre più acuta, e uno finisce per mettere nel calderone tutto quanto (i bigini, i romanzi, le giornate di sole).

Sarà poi vero che tutto passa? Certo: fra cento anni non ci sarà più traccia né di me né di voi che state leggendo queste righe. Ma c’è qualcosa, nel profondo della natura umana, come un bisbiglio, una voce fragile che sussurra: non è vero, non è così. Non vorrei parlare ora delle credenze personali: la fiducia nei figli, nella specie umana, nelle idee che fioriranno. Non vorrei nemmeno mettere a tema la fede in Dio e la speranza in un aldilà. Mi fermo molto prima. Da dove vengono le parole del bigino? Sono le cose indispensabili, quelle da sapere, lo stretto necessario. Da dove vengono le mie storie? Sono le stesse che i nostri progenitori raccontavano un milione di anni fa e che i nostri discendenti racconteranno fra un milione di anni, se ci saranno ancora esseri umani. La storia di un eroe che parte e scopre il mondo, la storia di uno straniero che arriva nel villaggio. È tutto qui. Ancora una volta, le cose necessarie. Ecco, io credo che se c’è qualcosa invece di niente, vuol dire che qualcosa è necessario. Altrimenti non ci sarebbe. E perdonatemi questi numeri da giocoliere (il giorno del proprio compleanno si manifesta con più intensità la tentazione di filosofeggiare).
Comunque, per dirla in maniera meno tortuosa, riconoscere le cose necessarie è forse l’esperienza più grande, l’insegnamento più saggio che una persona possa apprendere in tutta la vita. L’ironia è che in fondo, appena nati, abbiamo un’idea assai chiara delle cose necessarie, così come spesso, probabilmente, tendiamo ad averla durante la vecchiaia. È durante il cammino che perdiamo di vista l’essenziale. E forse, per allenarsi a riconoscere l’imprescindibile, può essere un esercizio utile anche compilare un bigino. E soprattutto perderlo. Ciò che rimane dopo lo smarrimento, dopo la malinconia, dopo i ragionamenti sul tempo e sulla morte. Ciò che rimane sono le cose necessarie.

PS: Il giorno del mio compleanno, di solito, condivido un racconto inedito con le lettrici e i lettori del blog. Quest’anno in realtà mi sembra di avere detto fin troppo. Ma per chi volesse ancora una storia, ecco un raccontino su Alessandro Magno, scritto nell’estate del 2021. (Ho già condiviso qui altri racconti sullo stesso personaggio: piano piano sto cercando di capirlo.)

Leggi Il mercante e il conquistatore

PPS: Per chi invece volesse andare oltre le parole, condivido il sax tenore di Sonny Rollins, accompagnato nel 1962 da Jim Hall alla chitarra, Bob Cranshaw al contrabbasso e Ben Riley alla batteria. Where are you è una vecchia canzone del 1937, scritta da Jimmy McHugh con le parole di Harold Adamson. È diventata uno standard del jazz e non solo, interpretata dai più grandi, da Frank Sinatra a Duke Ellington, da Dexter Gordon ad Aretha Franklin, da Ella Fitzgerald a Bob Dylan. «All life through must I go on pretending?», canta il sax di Rollins. Per tutta la vita devo continuare a fingere? «Where is my happy ending? Where are you?» Dov’è il mio lieto fine? Dove sei?

PPPS: La prima foto rappresenta il bigino. La seconda foto rappresenta una cosa necessaria (due, contando la scopa sullo sfondo).

PPPPS: Oggi un amico mi ha ricordato un verso di Giorgio Orelli: «”Il tempo passa. Tutto passa. Eccetera”.» (da “Una sorpresa sempre uguale spiuma”, v. 10, in Né bianco né viola, 1944). Mi sembra che si adegui alla circostanza.

PPPPPS: È una giornata di sole, lo so. Ora esco e faccio un giro in bicicletta.

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Chi l’ha visto?

Dove sono e dove sto andando? Me lo chiedo perché oggi è il mio compleanno. L’anno scorso stavo facendo un trasloco mentre ora, a prima vista, sono approdato in un luogo stabile. Ma non è così. Non è mai così. Nella mia vita ho mai saputo veramente dove sono? Sono lontano ormai dall’Andrea dell’infanzia, ma risalendo fino ai miei primi ricordi trovo una serie di intermittenze: m’incantavo a fissare un formicaio, una scena dipinta su un muro, un intrico di rami secchi. Credo che, ogni tanto, mi perdessi di vista. L’Andrea di tre anni, quello di diciotto, quello di ieri, chi li ha visti, dove sono finiti? Le fotografie nei vecchi album mi mettono in guardia: attento, tu non sei più qui. Dove sono, quindi? C’è una sola risposta possibile, che dice tutto e niente: sono qui. (Ma non chiedetemi dove sia “qui”.)


Lo scopo di questo articolo è soprattutto quello di presentare, secondo la tradizione, un breve racconto inedito. Per non limitarmi agli smarrimenti, vorrei però accennare un’occasione recente in cui mi sono riconosciuto. Qualche tempo fa ero a Zurigo e ho visitato la mostra “Kunst der Vorzeit” al Museo Rietberg. Si tratta di un’esposizione che raccoglie numerose copie di incisioni rupestri paleolitiche e neolitiche provenienti da tutto il mondo. Sono immagini splendide, realizzate fra il 1913 e il 1937 da un gruppo di pittrici e pittori diretti dall’etnologo tedesco Leo Frobenius (1873-1938). Le incisioni, risalenti fino a quarantamila anni fa, sono state meticolosamente copiate e dipinte in deserti, montagne o grotte nascoste. La mediazione degli artisti contemporanei non ci allontana dalle opere originarie, come si potrebbe pensare; anzi, ce le rende più presenti. La riproduzione infonde vita alle creazioni preistoriche, come se gli artisti del Ventesimo secolo svelassero e compissero il gesto dei loro progenitori.

Fra le altre cose, mi ha colpito una figura umana realizzata 5500 anni fa in una grotta norvegese e copiata nel 1934 da Agnes Schulz con gesso su carta. Mi sono immaginato l’artista neolitico, il suo impegno nel rappresentare le fattezze di sé stesso o di un altro essere umano a lui vicino. È un’opera quasi infantile, molto semplice, evocativa. Appena mi sono imbattuto nel quadro, mi sono chiesto: chi era? L’ho osservato da vicino e da lontano. Quella persona aveva un nome, una storia, un cuore e un cervello pieni di contraddizioni, come tutti noi. Se vivesse oggi, probabilmente sceglierebbe quell’immagine come foto profilo in qualche social network, per dire al mondo: questo sono io, amici e followers, guardatemi, sono proprio io.
Quell’uomo mi assomigliava. Il braccio sinistro è più lungo, più complesso: questo mi fa pensare che fosse mancino, come me. Le gambe sembrano indicare che stesse camminando: anche a me piace pensare mentre cammino e soprattutto anch’io, come lui, sono sempre un po’ storto, un po’ asimmetrico. La testa è inclinata verso destra, nella posizione che assumiamo quando stiamo fantasticando, quando lasciamo spazio all’immaginazione.
Sarà strano, ma in quel dipinto ho riconosciuto l’Andrea che avevo per un attimo smarrito nelle fotografie dei vecchi album. Questo mi fa pensare che, per fortuna, quando ci perdiamo di vista poi ci incontriamo di nuovo, magari quando non ce lo aspettiamo, in coda alla cassa di un supermercato, a un angolo di strada o su una parete di roccia a Tennes, in Norvegia, poco lontano dal Polo Nord.
Detto questo, ecco il racconto.

Clicca qui per leggere Chi l’ha visto?

È una storia che non parla d’incisioni rupestri né di vecchie fotografie. Il titolo del racconto è anche il titolo di questo articolo, ma la circostanza è puramente casuale. Se quanto scrivo nel blog è cronaca, la vicenda di Camilla è fantasia. È una situazione immaginaria, ambientata in una scuola immaginaria, con personaggi immaginari. L’ho scritta durante un pomeriggio grigio, ascoltando il ticchettío della pioggia e tenendo la testa lievemente inclinata verso destra.

PS: Come sempre, ecco anche un rapido bilancio del mio lavoro. Ho scritto poco, quest’anno, per varie ragioni. Però ho portato avanti alcuni progetti, anche su questo blog. Ora sto ricominciando a lavorare con una certa continuità, in particolare a un romanzo con Elia Contini e a un altro romanzo, più complesso, che sta maturando lentamente. Ho pubblicato alcune opere assai diverse fra di loro: la raccolta di racconti Il commissario e la badante (Guanda), il romanzo Le vacanze di Studer (Casagrande), creato a partire da un frammento di Friedrich Glauser inedito in italiano, e il reportage letterario A Zurigo, sulla luna (Capelli), scritto a quattro mani con Yari Bernasconi.

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La mia ipoteca

Venni al mondo il 15 maggio del 1978, in un giorno piovoso proprio come oggi. Era il lunedì di Pentecoste. Mentre sono seduto alla scrivania, di fronte al computer, ascolto i suoni della pioggia: lo scroscio, il picchiettío, il risucchio della grondaia. Magari anche allora, nella mia culla, sentivo gli stessi suoni. Se chiudo gli occhi, se faccio astrazione dal mio corpo, dai miei pensieri pieni di rughe, posso ancora essere lui, cioè io. Posso diventare quell’Andrea intatto e fragile, quel minuscolo ammasso di ossa, carne e respiro.
Si dice che i bambini appena nati sentano soprattutto le frequenze acute, ma sono convinto che quel diluvio furibondo sia penetrato nel mio cervello, almeno in parte. Del resto, spesso nelle orecchie dei neonati resta del liquido amniotico: se non il rumore della pioggia, forse avrò udito l’eco di quel brodo primordiale, dentro il quale avevo abitato per nove mesi come creatura acquatica.
Non è possibile, naturalmente.
Non ascolto più la pioggia nello stesso modo. Infatti ora la chiamo “pioggia”: il nome precisa il fenomeno, lo circoscrive, lo inserisce in una struttura di pensiero. Quella prima esperienza ormai è persa per sempre: nel 1979 già ascoltavo la pioggia in un altro modo. E forse oggi l’ascolto in maniera differente rispetto a un anno fa, anche solo per il fatto di avere scritto queste righe.
A questo punto, ci sta una precisazione. Ho scritto queste righe perché è una tradizione del blog; così com’è tradizione che, insieme ai miei vaneggiamenti, vi appioppi anche un racconto. Eccolo.

Clicca qui per leggere “Sala d’aspetto”

Mi permetto ancora qualche vaneggiamento, approfittando dell’ora mattutina e del fatto che oggi mi sento vicino a quel neonato venuto con la pioggia. Forse è perché in questi giorni sto traslocando: una marea di caos torna a rimescolare le cose della quotidianità, fra scaffali vuoti, pile di scatole, cumuli di libri che si ergono come rovine di un castello. Presto la casa dove abito sarà un ricordo, e la prossima pioggia l’ascolterò dietro finestre che ora mi sono estranee. Ho l’impressione che il trasloco sia un fenomeno temporale più che geografico.
Trans-locare: spostare qualcosa da un luogo all’altro. Ma un anno della nostra vita in fondo non è altro che un luogo, con i suoi armadi, le sue credenze, i suoi cassetti chiusi a chiave, dal lucernario che illumina il solaio pieno di desideri giù fino alle cantine polverose, ai rimpianti, alle malinconie. Quando parliamo, spesso mescoliamo lo spaziotempo: «La prima settimana è quella dove ho fatto più fatica»; «Ci sono dei periodi dove ti sembra che tutto vada bene». Forse è giusto così, forse invecchiare significa caricare le proprie masserizie su un furgone e viaggiare verso un posto nuovo. A ogni trasloco lasciamo indietro qualcosa, ma nello stesso tempo ritroviamo oggetti smarriti: lettere legate con lo spago, fotografie, penne, coltellini, barattoli pieni di conchiglie, quaderni, maschere di carnevale. Una parte di noi vorrebbe indugiare. Un’altra parte s’impigrisce al pensiero di spostare mobili, vestiti, abitudini. Comunque non possiamo farci niente: la casa aspetta, gli anni passano, c’è un’ipoteca esistenziale da pagare.
Ecco, parliamo dell’ipoteca. Non ho deciso io di venire al mondo, di cominciare questa sequela di traslochi. Qualcuno ha pagato per me, quel mattino di maggio. Anno dopo anno, mentre il tempo mi consuma, cerco di pagare le rate del mutuo, gli ammortamenti, le spese accessorie. Su internet leggo che «stipulare un’ipoteca fissa significa vincolarsi a lungo termine, e quindi correre anche un grosso rischio». Capisco bene che sia così. Ma che ci posso fare? La vita è senz’altro «un grosso rischio». Sarà anche vero che  «i contraenti di un’ipoteca dovrebbero sempre leggere attentamente anche le postille riportate in piccolo sul contratto», ma io non ho firmato niente. Sono qui, in mezzo agli scatoloni, e rimugino su come si potrebbe trasportare il pianoforte giù dalle scale.
All’inizio ho scritto: «Venni al mondo il 15 maggio del 1978». In realtà, di primo acchito, avrei voluto scrivere: «Sono venuto al mondo», così per abbreviare la distanza. Ma ora leggo su Wikipedia che «l’estensione dell’ipoteca alle accessioni dell’immobile ipotecato […] finisce con il tradursi in garanzia ipotecaria, su cose future, non menzionate nell’iscrizione ipotecaria». Mi piace quell’accenno alle «cose future». Come tutti i fastidi, anche i traslochi e le ipoteche sono un’occasione per guardare avanti. Così mi viene in mente che forse mi sto sbagliando: non dovevo dire «venni» e nemmeno «sono venuto al mondo». Questa è la frase che mi sembra più corretta: «Verrò al mondo il 15 maggio del 1978».

PS: Scrissi il racconto Sala d’aspetto un pomeriggio d’estate del 2013, in una casa di montagna. Esso vene poi pubblicato sul settimanale “Extra”, allegato al “Corriere del Ticino”. Un paio di mesi prima, mentre aspettavo per una visita di controllo dall’oculista, avevo annotato sul taccuino qualche dettaglio a proposito delle persone che vedevo intorno a me, senza accorgermi che stavo annotando cose su me stesso.

PPS: Alle lettrici e ai lettori fedeli (cioè a chi ha resistito leggendo tutto fino a questo PPS) sono lieto di annunciare che il 9 luglio 2020 uscirà per l’editore Guanda una mia raccolta di racconti brevi: Il commissario e la badante.

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Città fantasma

Sono il custode di una città fantasma.
Intorno a me nei giorni di vento le cose scricchiolano, gemono, cantano con voci remote. Mentre passano le stagioni puntello i ruderi, sgombro le strade, la sera tengo accese le lampade. Oggi è il 15 maggio, il giorno del mio compleanno. Approfitto dell’occasione per un giro di controllo. Si accumulano i vicoli dove nessuno passeggia, gli hotel delle occasioni perse, i ristoranti della compagnia assente, le stanze che non vengono più dormite, le piazze invase dal bosco.
Che cosa resta? Che cosa si salva da questo incessante dissolversi della vita? Tutti siamo custodi di una città fantasma, non solo io. Ognuno conosce a memoria le sue rovine, le ferite, le case vuote, le banche dove non resta più nulla da rapinare. Ma che cosa significa essere custodi? Spesso la mia tentazione è l’immobilità. Lasciare che gli edifici crollino, contemplare ciò che rimane. O magari fingere che le macerie non esistano, che tutto intorno scintilli come nuovo. Festeggiamo un altro anniversario! I traguardi raggiunti! Perché non rallegrarci? Forza, viene l’estate, stappiamo una bottiglia, cuciniamo costine sulla griglia, cambiamo la foto del profilo su whatsapp. Compriamo case, automobili. Facciamo figli! Stiamo attenti sempre a distinguere i buoni dai cattivi… e appena possibile, rapidi e implacabili, comunichiamo al mondo la nostra opinione!
Oggi ho camminato fino a un vero villaggio fantasma. Si trova nei boschi sopra casa mia, a sud di Bellinzona, e si chiama Prada. Poco più di trecento anni fa invece della selva scoscesa c’era un pianoro, illuminato dal sole, c’erano fontane, bambini che piangevano e galline che si rifugiavano fra una casa e l’altra. Il battito di un martello su un pezzo di ferro, l’odore della minestra, una donna che spazzava il cortile. Appena arrivato, mi fermo in mezzo al silenzio. Mi siedo. Chiudo gli occhi. Mi sento stritolare dal rimpianto per vite che non ho conosciuto, per gesti che non ho compiuto. So che il mio destino è pari a quello del villaggio, e dentro di me crollano case, spariscono sentieri, crescono rovi. Come frenare questo logorìo? Come sopravvivere? I muri stanno scomparendo, inghiottiti dalla terra. I rampicanti hanno sgretolato le pietre. Qui c’era un insediamento abitato già nel 1200. Nel 1500 a Prada vivevano quaranta famiglie. Poi fra il 1630 e il 1640 accadde qualcosa e all’improvviso il paese scomparve.
Appena tornato a casa, sento il bisogno di scrivere. Se c’è una ragione per fare il mio mestiere, essa si nasconde proprio tra quei fantasmi di case, come tentativo di capire e, nello stesso tempo, di resistere. Scrivere mi aiuta a mantenere vive le domande su di me e sul mondo. Non voglio soccombere né alla solitudine di chi non spera, né all’ottimismo di chi non vede le macerie. Che cosa uccide le città? Penso al male, alle pestilenze, alle guerre, alle faide e alle ingiustizie che consumano le società umane. Penso alla mia ghost town personale, ogni anno sempre più diroccata. Che senso ha custodire? Che cosa significa?
L’altro ieri mi sono imbattuto in un minuscolo racconto della scrittrice Eliana Elia. S’intitola Compleanni. Ecco il testo: «Di anno in anno cresce il coro di luci che un soffio azzittisce». Rileggendolo ora, penso alla mia città fantasma. Forse il senso di custodire consiste proprio nel mantenere vivo «il coro di luci». Il soffio non è sempre letale, può anche rinsaldare il fuoco, tenerlo vivo. Accoccolato nella sua baracca all’ingresso del villaggio, il custode si mantiene vigile. Sa che dalle città fantasma ogni tanto passa una carovana. Ogni tanto qualcuno vede il fuoco e si ferma. Costruisce una tenda, cucina una zuppa, scende al fiume a prendere l’acqua. Basta poco perché la vita ricominci.

PS: Il tema “città fantasma” sarà al centro di una serata di letture e musiche in programma giovedì 30 maggio a Lugano, nel patio del Palazzo Civico in Piazza della Riforma. A partire dalle 18, Yari Bernasconi e io proporremo un percorso fra poesia e prosa, accompagnati dalla chitarra di Stefano Moccetti. Nella seconda parte della serata interverrà il poeta, critico e traduttore Franco Buffoni. Infine, ci sarà una tavola rotonda con le autrici Prisca Agustoni e Azzurra D’Agostino.

PPS: In segno di gratitudine verso le lettrici e i lettori di questo blog, voglio festeggiare anche quest’anno condividendo un breve racconto inedito.

Dente di leone

Non ha niente a che vedere con le città fantasma. Però forse dice qualcosa sulla resistenza. Buona lettura!

PPPS: Oggi ho trovato un esempio di resistenza anche nel sax di Michael Brecker, nell’album Pilgrimage (Wa Records 2007), l’ultimo inciso dal musicista pochi mesi prima di morire di leucemia a 57 anni. Una canzone s’intitola Tumbleweed, e inevitabilmente mi porta a pensare alle città fantasma (i tumbleweed sono i “cespugli rotolanti” che percorrono le vie delle ghost town). Ma anche l’atmosfera è significativa: le frasi lunghe, all’inizio, con una misteriosa voce che lontano, dietro gli strumenti, intona una litania. Poi la forza dell’assolo di Brecker, poderoso, inventivo. E sul finale una sorta di jam session improvvisata nello studio di registrazione, fra grandi musicisti e grandi amici, come una promessa di vita.

PPPPS: Il racconto di Eliana Elia proviene dalla raccolta Ancora altri rapidi racconti (Taschinabili 2014).

PPPPPS: Oggi a Prada c’era questo silenzio.

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Che cosa succede?

Nei racconti di Succede sempre qualcosa (Casagrande) per la prima volta scrivo di me stesso, della mia vita. All’inizio mi sentivo in imbarazzo e avevo qualche timore. Poi, rileggendo, mi sono accorto che quell’uomo di nome Andrea è un personaggio come tutti gli altri. Forse un po’ più rognoso della media; non perché sono io, ma perché Andrea – quell’Andrea – è uno difficile da capire. (Forse lo è anche questo Andrea: ma mi fermo qui, altrimenti comincia a girarmi la testa…). Del resto, non capisco mai del tutto i miei personaggi: se ci riuscissi, mi sembrerebbero falsi.
Ho sempre amato inventare racconti. Sono un modo di sperimentare nuovi stili e modalità diverse di scrittura. Inoltre, seguendo i suggerimenti dalle lettrici e dei lettori di questo blog, negli ultimi anni mi sono cimentato pure con il genere del reportage (nulla di giornalistico: più che altro pretesti concreti per divagazioni narrative). Dopo tanti racconti pubblicati nelle riviste o in antologie, avevo il desiderio di riunirne qualcuno in una raccolta. Mi mancava però un filo conduttore.
Magda Mandelli, delle edizioni Casagrande, mi ha incoraggiato e mi ha aiutato a dare una forma precisa alle mie intenzioni. Siamo partiti dalle storie della piazzetta, un progetto nato in origine proprio per il blog.
Che cosa succede, dentro questo libro?
C’è una magnolia. Un western. Storie d’amore. Una volpe, una tigre, una zanzara, un elefante. Corto Maltese, i Tuareg, il mio bisnonno, un tappeto volante, una sirena. Storie di viaggio. Parigi. La Cina. La notte di carnevale, la notte di Natale, un sabato sera in un centro commerciale, una salita in bicicletta. Il sax di John Coltrane. Una canzone di Guccini. Un luna park. Qualche poesia, qualche canto di uccelli. Pensieri sulla morte, sulla vita. Una stanza chiusa. Il primo giorno di vacanza… e altro ancora.
(E poi ci sono io. Anche se, come vi dicevo, non sono io.)
Buona lettura!

PS: Se aveste voglia di fare due chiacchiere e di bere un aperitivo, presenterò ufficialmente Succede sempre qualcosa venerdì 6 luglio a Lugano, al Longlake Festival, con Massimo Gezzi (Park&Read, Parco Ciani, 18.30). Poi giovedì 12 luglio a Bellinzona, nell’ambito del festival Territori, con Lorenzo Erroi (Corte del Municipio, 18.00) e a Milano con Marco Rossari (a suo tempo vi darò i dettagli). È previsto anche un incontro “firma copie” alla libreria Taborelli di Bellinzona, sabato 7 luglio alle 11.30.

PPS: Grazie a Magda Mandelli, ad Anna Banfi e a tutti i collaboratori delle edizioni Casagrande. Sono grato anche a chi ha condiviso i miei viaggi, le mie letture, i miei silenzi, le mie domande. E i miei smarrimenti. (Senza perdersi, come si fa a scrivere un libro?).

PPPS: La fotografia sulla copertina è di Maia Flore, dalla serie L’enchantement va de soi (France, Deauville, 24 marzo 2016). © Maia Flore / Agence VU

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