“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.
Cartolina numero 33 Da Arth-Goldau, Svizzera
Arth-Goldau non esiste. È un luogo su questa terra, certo, puoi cercarlo sulle mappe. Ma a ben guardare non esiste: puoi solo arrivarci o partire. E nel momento stesso in cui esci dalla stazione dei treni, puff, sei già da qualche altra parte. C’è posto migliore per una delle nostre escursioni? Appena mettiamo i piedi a terra, ci rendiamo conto di (non) essere arrivati nel (non) luogo giusto. Poco lontano tre figure misteriose, dai tratti del viso asiatici, si fanno largo fra le barriere di un cantiere che scopriamo immenso, una voragine diretta al centro della terra. Una donna con un tailleur giallo sembra chiedere un’informazione a un operaio, che le fa segno di seguirlo. Insieme scendono in un buco vicino, oltre le reti di sicurezza. A quel punto cerchiamo anche noi di entrare, attirando l’attenzione di un uomo alto, con i capelli corvini sotto il casco giallo, che ci rimprovera prima in portoghese, poi in buon tedesco. E quando uno di noi insiste per capire che cosa ci sia oltre le transenne, oltre le macchine e i mucchi di terra, lui mostra i denti gialli, scoppia a ridere e girandoci le spalle dice: «Il vostro momento non è ancora arrivato».
CARTOLINA NUMERO 34 Da Bogotà, Colombia
I manuali di storia dicono che El Dorado è un’antica città sognata dai conquistadores spagnoli. I manuali di geografia dicono che è l’aeroporto di Bogotà. Per noi è anche un uomo interamente ricoperto di vernice dorata, che cammina con incedere maestoso fra passanti, turisti, pensionati, studenti e venditori ambulanti. A pochi passi, seduto per terra in plazoleta del Rosario, un ragazzo sta picchiando sui tasti di una macchina per scrivere. Di fianco a lui è posata una valigia aperta, nella quale notiamo alcuni spiccioli. Sopra, un cartello: POEMAS A LA VENTA (poesie in vendita). Ci guardiamo negli occhi: come non acquistarne una? Ci informiamo sui prezzi, ma il ragazzo risponde che «la poesia no tiene precio», quindi possiamo dargli quello che vogliamo. Ci allunga due poesie battute a macchina: Carta a mi mismo e Cómo se concibe un poema. Intanto uno studente ha cominciato a suonare la chitarra e l’immenso El Dorado, anche se forse non si vede più, è sempre qui.
CARTOLINA NUMERO 35 Dal tendone del circo Knie
I nostri pensieri, nell’ombra, somigliano a grigie periferie, a palazzi dismessi e a interminabili pomeriggi domenicali; però al momento giusto entrano in scena i cavalli. Sgraniamo gli occhi. Apriamo la bocca. Ci ascoltiamo esclamare a turno: «Oooh!». Sì, perché proprio i cavalli, con il loro odore di cavalli, la terra, la segatura, ci aiutano a capire che il circo non è altro che il racconto della nostra vita. Tutto è necessario: la fanfara, laleggiadria di un funambolo, il sentore acre delle bestie, il gesto poetico di un clown, il sudore degli acrobati, il trucco pesante, i lustrini, gli abiti pacchiani e meravigliosi, i «ragazzi di pista» che smontano e rimontano, lo zucchero filato, il presentatore che ci ringrazia «sentitamente» e che poi ci saluta con la mano «e… arrivederci al prossimo anno!». Mentre usciamo, nel parcheggio, ci viene in mente una frase del grande clown François Fratellini: «Les acteurs font semblant, nous c’est pour de vrai». Nel circo tutto è fasullo, ma tutto è vero.
CARTOLINA NUMERO 36 Dal ghiacciaio della Plaine Morte, Svizzera
Ogni passo è un pensiero. Ogni respiro l’attesa di un’immagine, di una svolta. Quando arriviamo in cima, sfiorando i 3’000 metri, il lago ghiacciato è uno strappo nella roccia. Dietro, la costruzione militare sembra la versione alpina della Fortezza Bastiani, nel Deserto dei Tartari. Noi però continuiamo a darle le spalle: tutti i nostri muscoli, anche i più piccoli, quelli sconosciuti, sono tesi verso quel drappo innevato con pochi segni. Quella fenditura vertiginosa e soffice. Quella pagina bianca che non vogliamo riempire.
PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20, qui dalla 21 alla 24, qui dalla 25 alla 28, e qui dalla 29 alla 32.
PPS: Da Wikipedia: «La stazione di Arth-Goldau (in tedesco Bahnhof Arth-Goldau) è un nodo ferroviario del Canton Svitto, in Svizzera. La stazione si trova nel centro abitato di Goldau e serve il comprensorio di Arth.»
PPPS: La frase di Albert Fratellini è tratta dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi.
PPPPS: La Fortezza Bastiani si trova nel romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, pubblicato la prima volta da Mondadori nel 1940 (e da allora più volte ristampato).
Ci sono lettrici e lettori che mi scrivono di panchine. Qualcuno le ama, anzi, qualcuno m’invia le sue preferite. Per contro, c’è chi pensa che scrivere di panchine sia uno spreco, poiché il mondo sta andando a rotoli e abbiamo emergenze più degne dell’attenzione di uno scrittore. A questi ultimi rispondo che la letteratura non è programmatica. Credo che in queste piccole divagazioni del Panchinario appaia qualche frammento di verità, e questo mi basta: se la scrittura s’impegna nel confronto con una verità, allora non mi pare uno spreco. Ma al di là delle spiegazioni, dedicare tempo al territorio, allo spazio, alle cose minute, è un modo di affinare la propria percezione e la propria sensibilità, un modo per amare il mondo; requisito questo necessario se si vuole salvarlo.
Fra le tante panchine che sono arrivate dal mondo, oggi do spazio a quella di Emily, che scrive dalla contea di Marion nell’Oregon (USA). La sua è una panchina particolare, perché è invisibile: Emily ha filmato quanto vedeva da una panchina scavata nella roccia; ma, a causa dello spazio limitato, non è riuscita a fotografare la panchina stessa. Il suo video ritrae la cascata di South Falls, nel Silver Falls State Park (vedi anche la foto a fine articolo). È spettacolare, e per me è pure inquietante. Da bambino infatti ero intimorito dalle cascate. Il fragore, la mole, il balzo improvviso che spezza il fluire del fiume: le cascate mi toglievano il fiato, e per non sentirle mi mettevo le mani sulle orecchie. Oggi, tanti anni dopo, ho imparato ad apprezzare il canto dell’acqua che precipita a valle… ma resta sempre un filo d’inquietudine.
Con la panchina numero 81, che trovate in fondo a questo articolo, porgo a tutte le lettrici e a tutti i lettori il mio augurio di Buon Natale!
74) MASSAGNO, in via Giuseppe Motta Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5 Comodità: 1 stella su 5 Vista: 1 stella su 5 Ideale per… girare un film
INTERNO CASA ANDREA FAZIOLI GIORNO: Andrea cammina annoiato. ANDREA (VOCE OFF): Non so proprio cosa fare oggi. Piove, fa freddo. (Illuminandosi) Ehi, e se andassi al cinema? ESTERNO STRADA GIORNO: È una giornata grigia. Andrea cammina sotto un leggero velo di pioggia. ESTERNO CINEMA GIORNO: Andrea si dirige verso una panchina di cemento, di fronte all’ingresso del Cinema Lux di Massagno. CUT TO: Andrea si siede sulla panchina. Ha smesso di piovere. Andrea fissa l’ingresso del cinema. ANDREA (VOCE OFF): Andare al cinema per guardare il cinema. Qualcuno entra, qualcuno esce. Quelli che escono sono ancora impregnati del film: nelle loro espressioni, nei loro gesti. Io, invece, non so ancora che cosa mi aspetta. Deserti? Metropoli? Sparatorie, forse, o magari un amore disperato… Sono pronto a tutto. CUT TO: Andrea si alza e si avvia verso il cinema. Musica. Scorrono i titoli di coda. PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
75) PLOUDALMÉZEAU, in rue du Port Coordinate: 48°33’26.7″N; 4°42’15.1″W Comodità: 3 stelle su 5 Vista: 5 stelle su 5 Ideale per… incontrare l’Ankou. Guardo il flusso di barche e di nuvole, finché a poco a poco scende il buio e sale la marea. All’improvviso sento un cigolio, come se qualcuno spingesse un carretto. «Piou zo azé?»chiedo in bretone. “Chi è là?” Compare un uomo alto, magro, dai capelli bianchi. La faccia è nascosta da un cappello di feltro. «Piou zo azé?», ripeto una seconda e una terza volta. L’uomo con voce cavernosa risponde: «Ma mestr ha mestr an holl, pa teut c’hoant da glewed». “Il mio padrone è il padrone di tutti, visto che desideri saperlo.” Poi mi guarda e vedo le orbite vuote, la mascella penzolante. Lo riconosco: è l’Ankou, l’oberour ar maro, l’operaio della morte. Prima che possa acciuffarmi fuggo dove ci sono luce, calore, esseri umani e sidro di mele. (L’Ankou proviene da A. Le Braz, La Légende de la Mort chez les Bretons armoricains, 1893; in italiano tradotto nel 2003 da P. Fornasari per Sellerio con il titolo La leggenda della morte). PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
76) BELLINZONA, in via Francesco Chiesa Coordinate: 2’716’566.5; 1’096’790.5 Comodità: 1 stella su 5 Vista: 1 stella su 5 Ideale per… aspettare il circo. Questa panchina non ha niente di speciale. È poco lontana dal liceo ed è rivolta verso un parcheggio. Se tornaste qui per 362 giorni all’anno vedreste solo studenti, insegnanti, cemento e automobili. Ma se avrete pazienza, un giorno di metà novembre sorgerà in poche ore il tendone del Circo Knie. Da quando studiavo (o fingevo di farlo) proprio in questo liceo, ho l’abitudine nei giorni del circo di aggirarmi intorno al caravanserraglio. Oltre allo spettacolo – non me ne perdo uno – mi affascina il paradosso insito in ogni circo. Da una parte un mondo fatto di scintille, fanfare, dove tutto è straordinario, dalla grazia dei funamboli alla maestà dei cavalli. Dall’altra parte, dietro le quinte, la quotidianità: il clown bianco che mangia un hamburger, un acrobata che fuma una sigaretta accanto alla staccionata, una trapezista che cammina verso il suo carrozzone, lentamente, cercando di scansare le pozzanghere. PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
77) CARONA, all’angolo tra via Principale e via Luigia Coordinate: 2’716’143.0; 1’090’733.1 Comodità: 3 stelle su 5 Vista: 3 stelle su 5 Ideale per… sconfiggere il drago È quasi l’imbrunire. Si accende un lampione, dai camini arriva odore di fumo. Sotto di me ci sono gli orti; più in basso Melide, il lago, il ponte-diga intasato dal traffico. Qui tutto è silenzioso, tranne un canto di uccelli e, ogni tanto, il passo di qualcuno che torna a casa dal lavoro. Ripenso all’affresco sulla facciata della chiesa, appena sopra la panchina: san Giorgio, in groppa a un cavallo impennato, scaglia la sua lancia diritta nelle fauci del drago. Mentre scende la sera mi accorgo che lui non è lontano. Nonostante la pace, la prossimità delle case, la bellezza di queste colline. Lui è sempre vicino: il drago che mi tiene sveglio di notte, la malinconia che mi aggredisce a tradimento, lo sconforto, la solitudine che mi stringe alla gola. Comincia a fare freddo. Alzo il bavero della giacca. Spero che lo scudo regga il colpo, e che la forza mi basti ad alzare la lancia. PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
78) NESSUN LUOGO, da nessuna parte Coordinate:?°?’?”N; ?°?’?”E; ?°?’?”S; ?°?’?”W Comodità:5 stelle su 5 Vista: 5 stelle su 5 Ideale per… viaggiare. Non so come sia finito qui. Nella nebbia intravedo la forma di una panchina. Mi siedo. Sento un rumore di ferraglia, un passo pesante. Dal nulla sorge un uomo in armatura e si mette di fianco a me. «Chi sei?», gli chiedo. Lui mi guarda. «Non mi riconosci? Sono l’Eroe… il Buono, quello che parte, lotta, supera la prova». Gli domando se sappia dove ci troviamo. «Siamo all’inizio – mi risponde – sulla Panchina Dove Nascono Le Storie». Poi dice che s’è fatto tardi e si allontana borbottando qualcosa su un maledetto ostacolo da superare. In quel momento dalla nebbia sbuca un orco bitorzoluto, dall’alito fetido. «Buongiorno – lo saluto. – Scommetto che tu sei l’Antagonista.» L’orco si siede, emette un grugnito. «Qualcosa in contrario?» «Io? No, figurati.» L’orco sembra stanco. Mi spiega che ha avuto una giornataccia. «Certa gente pensa che sia facile essere il cattivo… fatelo voi, dico io, fatelo voi, per quella miseria che ci pagano!» PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
79) LUGANO, in via Foce Coordinate: 2’717’975.5; 1’095’805.0 Comodità: 3 stelle su 5 Vista: 2 stelle su 5 Ideale per… meditare sulla solitudine. A pochi passi brillano le luci di un ristorante, ma sembrano lontane migliaia di chilometri. Dietro c’è un parcheggio, mentre intorno le strade sono deserte, sferzate da un acquazzone. Questa panchina non mi offre nemmeno la possibilità di sperare che per caso qualcuno passi di qui e, perché no, si sieda accanto a me. È di forma classica, verniciata con un bel rosso-panchina… ma è una monopanca, praticamente una seggiola fissata sull’asfalto. C’è posto solo per me. A proposito, perché mi sono fermato? Perché rimango seduto sotto i rami di un salice, a scrutare nel buio? Piove. È sabato sera. Penso che fra qualche minuto mi alzerò, camminerò, andrò a cercare un luogo caldo e illuminato. Ogni viso umano, ogni parola splenderà come se fosse nuova, come se fossi scampato a un naufragio. Forse le monopanche, come le isole deserte, servono proprio a questo: a ritrovare il gusto di stare in compagnia in un piovoso sabato sera d’inverno. PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
80) TORINO, nel giardino Lamarmora in via Stampatori Coordinate: 45°04’15.5″N; 7°40’36.9″E Comodità: 3 stelle su 5 Vista: 1 stella su 5 Ideale per… un picnic fra innamorati. Magari, quando sentite la parola “picnic”, pensate a una radura fiorita, all’erba tenera, alla frescura degli alberi, a un ruscello gorgogliante… insomma, a quello che gli antichi chiamavano locus amœnus, un luogo d’incanto. Ma se vi capita di essere a Torino, fra lunghi viali, automobili, palazzi austeri? Non perdetevi d’animo, nessuno ha mai detto che le metropoli non possano essere romantiche. Questa panchina, per esempio, vi fornisce tutto ciò di cui avete bisogno: un paio di cuori intrecciati per l’atmosfera; un cesto della spazzatura per gettare eventuali resti di cibo; una superficie su cui scrivere i vostri nomi accompagnati da un roboante PER SEMPRE. Davanti avete una strada, alle spalle un piccolo parco. Basta poco perché Torino divenga «città della fantasticheria» e «città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi» (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 17 novembre 1935). PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
81) GIUBIASCO, in Piazza Grande Coordinate: 2’721’446.7; 1’114’658.2 Comodità: 1 stella su 5 Vista: 3 stelle su 5 Ideale per… stare a testa in giù. È l’una del pomeriggio e a Giubiasco tutto scorre. Passano le automobili in via Bellinzona, veleggiano banchi di nuvole nel cielo, fuggono i giorni dell’avvento che portano in fretta, sempre troppo in fretta, a un altro Natale. Io, invece, sto fermo. Così come le sculture disseminate sul prato. Vicino a me c’è una famiglia di pietra: due genitori e un bambino, tutti con lo sguardo rivolto all’albero di Natale. Davanti all’albero c’è un’altra piccola statua, un uomo che sta in equilibrio sulle mani. Di colpo, mi pare che tutto ruoti intorno a quell’ometto capovolto: la piazza, il traffico, le stagioni dell’anno. Forse questi giorni stanchi di fine dicembre possono diventare un punto di svolta. Al di là delle luminarie e dei panettoni, la festa può essere un’occasione per cambiare prospettiva, per guardare le cose vecchie in maniera nuova. Ho deciso: quest’anno a Natale proverò a mettermi a testa in giù, così, per vedere l’effetto che fa. PDF dell’articolo su “Ticino 7” Colonna sonora (30 secondi):
PS: Potete leggere qui le prime quattro panchine, qui le panchine da 5 a 10, qui da 11 a 17 e qui da 18 a 23, qui da 24 a 30, qui da 31 a 37, qui da 38 a 45, qui da 46 a 55, qui da 56 a 64 e qui da 65 a 73. In generale, nella categoria Panchinario (in alto a destra), si trovano tutte le panchine.
PPS: Il video della cascata è stato girato da Emily, la fotografia è presa da internet. Esprimo la mia gratitudine a chi mi aiuta, mi accompagna e mi fa scoprire nuove panchine. In particolare, grazie mille a Barbara (Ploudalmézeau) e a Giacomo (Lugano).
È quasi buio. Sto camminando attraverso un grande prato, ancora libero dalle costruzioni. A un certo punto, in lontananza, avvisto le luci di un circo. Alla sinistra del tendone, avvolto dai colori, appaiono due grandi gru, impiegate in un cantiere edile. Dietro, si staglia il profilo nitido delle montagne. Più contemplo questa scena, più fatico a riprendere il cammino, nonostante il freddo. Ho l’impressione di avere già vissuto tutto questo: io immobile, in un prato che diventa buio; oltre il buio, la promessa dell’ignoto che si fa scoperta, avventura, meraviglia. Mentre ancora non ci sono arrivato, tuttavia, già sento la tristezza per la durata effimera delle luci e dello stupore. Il circo ripartirà, le due gru costruiranno un palazzo che resterà invece al suo posto, solido, massiccio. E io non sarò mai più sullo stesso prato, con lo stesso freddo, con gli stessi colori che mi aspettano all’orizzonte. Alla fine mi sono avvicinato. Dentro il tendone era in corso uno spettacolo, perciò a guidarmi è stato il suono dell’orchestra. Ho girato intorno al circo, ho osservato gli autocarri, i recinti per gli animali, gli artisti in attesa di entrare in scena. Una cavallerizza fumava una sigaretta, appoggiandosi a una staccionata. Un clown si stropicciava le mani per tenerle calde. Fin da quando sono bambino ogni anno assisto allo spettacolo del circo Knie, e da sempre mi stupisce l’intreccio fra l’eccezionale e il quotidiano. Nella città grigia di novembre appare questo scintillìo, questa girandola di pagliacci, acrobati, cavalli. Un mondo che sorge di notte, come un incantesimo, e che dopo tre giorni riparte senza lasciare tracce. Dentro l’arena si accendono le fanfare, le risate, gli applausi; intanto fuori piove e un acrobata, avvolto in un manto sfavillante di lustrini, cammina nel fango verso il suo carrozzone. La famiglia Knie è arrivata all’ottava generazione. Da cento anni porta in giro per tutta la Svizzera la sua carovana di animali e artisti, destreggiandosi per presentare i numeri in tre lingue e per adattarsi alle stagioni. Per me il circo ha un sapore tardo autunnale, ma in altre città dev’essere simile a una fiera estiva. In particolare, ho una predilezione per la figura del pagliaccio colto nella luce di novembre. Mi affascina quel senso di lontananza che sempre si sprigiona dai clown: sono lontani da noi, dalle nostre esperienze, sono esagerati, sono caratteri estremi… eppure, mentre li guardiamo, ci sorpendiamo all’improvviso come in uno specchio. Questa è la forza del circo: è una narrazione primordiale – forse il primo mezzo con cui l’essere umano ha provato a raccontare storie, insieme ai graffiti e alle fiabe – e allo stesso tempo è eternamente provvisorio. Arriva, crea una piccola fantasmagorica città e poi riparte.
Anche gli artisti del circo affondano le radici in una lontananza che, durante lo spettacolo, si tramuta in presente. Quest’anno ho apprezzato la figura di Yann Rossi nei panni del clown bianco. Già suo padre era un pagliaccio rinomato, così come i suoi antenati: nel 1732 i Rossi già si esibivano in Francia, alla corte di Luigi XIV. Anche Davis Vassallo e Francesco Fratellini sono stati molto bravi nel riproporre in maniera moderna e sofisticata alcuni numeri storici, fra cui quello dell’innaffiatore che finisce innaffiato. Fra l’altro, una variante elementare di questa gag ispirò un cortometraggio dei fratelli Lumière, L’arroseur arrosé, che venne proiettato nella prima rappresentazione pubblica di cinematografo, avvenuta il 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café, nel boulevard des Capucins a Parigi. Anche Francesco Fratellini proviene da una dinastia celebre, cominciata con Giuliano Fratellini nel 1745: Francesco è un esponente dell’ottava generazione. Gli appassionati di circo conoscono soprattutto tre membri della quinta generazione: Paul (1877-1940), François (1879-1951) e Albert (1885-1961), fra i maggiori pagliacci in assoluto di tutti i tempi. Fra il 1909 e il 1940 il Trio Fratellini fece ridere tutta l’Europa, resistendo anche durante i tempi più difficili, come la Prima guerra mondiale. François era il clown bianco, Albert l’augusto, mentre Paul mediava fra i due estremi. I tre ispirarono scrittori (Jean Cocteau, Raymond Radiguet), pittori (Pablo Picasso e molti altri) o fotografi (Robert Doisneau). Annie Fratellini, nipote di Albert, fu la prima donna a vestire i panni dell’augusto; nel 1974 fondò con suo marito Pierre Étaix l’École Nationale du Cirque, poi Académie Fratellini. La coppia è presente nel film I clowns di Federico Fellini (dove appare anche Gustavo, un altro membro della famiglia). Nel 1955, a settant’anni, Albert raccontò in un libro la sua vita e quella dei suoi fratelli, augurandosi che il nome Fratellini restasse «il simbolo della gioia che s’infrange, come una tempesta, sui gradini del circo». Da quanto ho potuto vedere, la tempesta infuria ancora… e dalle onde, dalla schiuma nasce la poesia. Come ebbe a dire lo scrittore Henry Miller, «il clown ci insegna a ridere di noi stessi, ed è un ridere che nasce dalle lacrime». È un gesto potente, catartico. Perciò, sempre secondo Miller, «il clown è un poeta in azione. È lui stesso la storia che interpreta.»PS: Per chi abita non lontano dalla Svizzera italiana, suggerisco di visitare la mostra Remo Rossi e il circo. L’arte della meraviglia. Omaggio a Rolf Knie, aperta fino al 28 marzo 2020 nella sede della Fondazione Rossi a Locarno. Alcune opere sono visibili anche nella Casa Ossola a Orselina e nel Ristorante Teatro Dimitri a Verscio. L’esposizione presenta numerosi schizzi e disegni dell’artista, dai quali scaturirono le sue opere scultoree (di cui alcune fra le più celebri sono state raccolte per l’occasione). Tra i suoi soggetti sono infatti assai numerosi i clown, gli acrobati e gli animali da circo (per esempio la scultura della foca nella piazza Governo di Bellinzona). Inoltre si possono ammirare anche alcuni dipinti e una scultura di Rolf Knie, nato nel 1949, esponente della sesta generazione, il quale fu clown, cavallerizzo e acrobata prima di diventare pittore e scultore.
PPS: La frase di Albert Fratellini proviene dal suo libro Nous, les Fratellini, edito per la prima volta nel 1958 e ripubblicato nel 2009 dalle Éditions Cartouches di Parigi. Le parole di Henry Miller sono tratte dalla postfazione al suo racconto The smile at the foot of the ladder (1958), tradotto in italiano da Valerio Riva (Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala, Feltrinelli 1963; 1980).
PPPS: Per conoscere altri dettagli sul circo Knie, e per mille altri approfondimenti legati al mondo del circo, consiglio di visitare il sito Solo Circo X Sempre, aggiornato e gestito con cura da Andrea Eglin.
PPPPS: Le prime tre immagini dell’articolo ritraggono il circo Knie. Poi c’è un ritratto di Albert Fratellini e una foto dello storico Trio Fratellini. Infine, Remo Rossi fotografato accanto alla scultura Acrobati su impalcatura (1960 circa). Anche la scultura qui sotto, intitolata Gli acrobati, è di Remo Rossi.
Alcuni libri, letti durante l’infanzia, si fissano nella memoria. Le parole e le immagini mettono radici dentro di noi, e anni dopo le ritroviamo mescolate agli altri ricordi, tanto che quasi non distinguiamo più ciò che abbiamo vissuto da ciò che abbiamo letto. In fondo, questo è il senso della letteratura: aumentare la vita. L’immaginazione ci rende più consapevoli di noi stessi, tiene deste le domande sul mondo, ci rammenta che ogni realtà visibile poggia su fondamenti invisibili. Proprio per verificare i fondamenti, è opportuno qualche volta tornare alle storie che ci meravigliavano da bambini. Ogni anno, in novembre, rileggo una storia di Bruno Munari: Nella nebbia di Milano, Corraini Editore (prima edizione 1968; ristampato parecchie volte, l’ultima nel 2013). È una passeggiata nella grande città immersa nella nebbia, con il richiamo delle luci di un circo, l’incanto dello spettacolo e infine il ritorno a casa attraversando il parco. L’autore, com’è nel suo stile, trasforma il libro in un oggetto dinamico, per mezzo di illustrazioni, pagine trasparenti, sovrapposizioni e ritagli che creano connessioni segrete. Il fascino di quest’opera consiste soprattutto nell’atmosfera, che si diffonde grazie a due elementi in apparenza diversi, ma intimamente legati: la nebbia e il circo. Fin da bambino amo sia la nebbia, sia il circo. Anzi, per me il circo è un evento luminoso che si manifesta proprio durante l’inverno, con la musica dell’organetto di Barberia che si diffonde nel buio, con quell’odore di popcorn e di segatura, di zucchero filato e di cavalli. Ogni anno, ancora oggi, assisto allo spettacolo del Circo Knie a Bellinzona. Certo, lo stupore non è più quello assoluto dell’infanzia, ma quando varco la soglia del tendone avviene uno sfasamento temporale. È come se per un istante mi fossero restituite le sensazioni di quel bambino dai capelli biondi, sbalordito dai riflettori e dall’ampiezza dell’arena. Oggi il bambino non esiste più – cioè, ormai sono diventato io, con il mio strascico di esperienze e disillusioni. Ma è davvero così? Forse acrobati e pagliacci resistono anche per questo, per congiungere epoche lontane con il linguaggio delle pantomime, del salto mortale e dei volti truccati, con quello struggimento dolceamaro che sempre il circo porta con sé. È un mondo nomade, che arriva e riparte, che appartiene a tutti i luoghi e a tutte le età, senza mai radicarsi veramente. Così annotava nel 1939 Tristan Rémy, uno dei più grandi critici circensi: Nella grande famiglia errante dei tendoni, delle carovane e dei transatlantici, si preparano nuove meraviglie, nuovi misteri si compiono, la fantasia prepara nuove forme. Il circo non è un museo. Gli artisti viaggianti non sono manichini. Vivono. E vivere è, per loro come per tutti, sorpassare sé stessi, sorpassarsi ancora. Lo spettacolo di quest’anno miscelava alcuni grandi classici (la “posta ungherese” di Ivan Frédéric Knie o il numero indiavolato del giocoliere Michael Ferreri) con qualche novità soprattutto nel campo delle acrobazie (penso in particolare ai lazos della Xinjiang Troupe). Per quanto riguarda i clown, l’attrazione dello spettacolo era l’artista ungherese Semen Shuster, conosciuto come Housch-ma-Housch. Sia lui sia l’altro comico presente – il portoghese Cesar Dias – hanno fatto un largo uso degli effetti sonori ottenuti con il microfono. Entrambi mi sono parsi di buon livello, sebbene con una tendenza forse eccessiva a coinvolgere direttamente il pubblico. Uno dei momenti più intensi è stato il finale, prima della chiusura del sipario. Gli spettatori seduti dietro di me se n’erano già andati, presi dalla frenesia di raggiungere il più presto possibile la loro automobile; altri si stavano alzando. Housch-ma-Housch è tornato in scena con un foglio, dal quale ha letto un breve messaggio di ringraziamento nel suo gergo caratteristico. Poi ha girato il foglio, che era bianco e vuoto, e ha proseguito il discorso. Infine ha spezzato il foglio e, aguzzando lo sguardo, ha continuato a leggere di profilo. Ecco una cosa alla quale non avevo mai pensato: la pagina bianca non è soltanto fronte e retro; anche nel taglio si celano parole minuscole, quasi inafferrabili. Come scrittore, questa piccola rivelazione circense mi ha fatto riflettere. Da dove arrivano le storie? Credo che le parole trovate non corrispondano mai precisamente a quelle che si cercavano: il senso profondo di un testo, per fortuna, supera sempre le intenzioni dell’autore. Le parole più preziose sono quelle che non aspettavamo, quelle che sono apparse nel taglio nascosto della storia. L’atto del narrare dischiude mondi sconosciuti al narratore stesso: i personaggi si manifestano lentamente, dapprima incorporei e poi sempre più vivi, così come – nel testo di Bruno Munari – la nebbia diventa sempre più colorata man mano che ci avviciniamo alle luci rosse e gialle del Gran Circo.
PS: Da bambino, nel libro di Munari a colpirmi non erano tanto i colori del circo, quanto gli autobus che mescolano lentamente la nebbia dei vari quartieri. Era l’attesa prima dello spettacolo, la sospensione narrativa: nella nebbia di Milano anche i gatti vanno a passo d’uomo. E il ritorno a casa non è un banale ritorno alla normalità: dopo l’incontro con la realtà irreale del circo, anche i viali del parco sembrano avvolti in un prodigio. D’inverno la natura dorme e quando sogna appare la nebbia. Camminare dentro la nebbia è come curiosare nel sogno della natura: gli uccelli fanno voli corti per non perdere l’orientamento, scompaiono i segnali e i divieti nelle strade, i veicoli vanno piano e si fa appena in tempo a riconoscerli che spariscono.
PPS: Le parole di Tristan Rémy provengono dal saggio Le cirque, uscito sul primo numero del mensile Mieux Vivre (gennaio 1939); in italiano, si può leggere tradotto da Luana Savarani per l’antologia Tornano i clown (Medusa 2017). Anche le due fotografie in bianco e nero provengono dal saggio di Rémy (la prima s’intitola Equilibrio, la seconda Intervallo).
PPPS: Per approfondire i contenuti dello spettacolo, e per vedere le fotografie del circo a Bellinzona, consiglio di visitare il blog specialistico https://solocirco.blogspot.ch. È meticolosamente aggiornato e curato con passione. (Questa estate, sono usciti anche degli interessanti reportage sui grandi clown.)
Qualche giorno fa ho visto lo spettacolo del circo nazionale svizzero Knie. Fra i vari artisti, spiccava la presenza del clown italiano David Larible. È uno dei pagliacci più famosi e più bravi al mondo (avevo già avuto l’occasione di ammirarlo in passato); nella tournée con il Knie, oltre a riproporre un paio di numeri classici, ha voluto citare il suo stesso spettacolo teatrale. Larible infatti è uno dei pochi clown che, come Dimitri e come Grock, abbiano saputo portare anche a teatro la propria sapienza comica. Nello spettacolo Il clown dei clown, che conta centinaia di repliche in tutto il mondo, Larible gioca con l’idea della trasformazione: all’inizio è un semplice inserviente, poi si trucca e si traveste direttamente sul palcoscenico finché, come per miracolo ma davanti agli occhi di tutti, appare il clown. Anche nell’arena di segatura, davanti al suo tavolino, Larible si è messo il fondotinta, si è munito di naso rosso e ha dato avvio all’incantesimo del circo. La città era deserta, in una fredda sera di novembre. Si sentiva l’umidità nell’aria e una grande luna, che pareva di cartapesta, se ne stava appostata sopra le luci rosse e gialle del tendone. C’è sempre un po’ di tristezza, in quella musica di fanfara, in quelle facce dipinte, c’è un velo di malinconia nella grande fiera che si accampa sulla terra brulla, fra un palazzotto di cemento e un cantiere. Ricordo che da ragazzo andavo a spiare la costruzione – incredibilmente veloce ed efficiente – di quel mondo sfavillante, ordinato, perfetto nella sua armonia interna. È un mondo provvisorio, però, perché dopo un paio di giorni tutto scompare, e la città continua serena ad attraversare i giorni grigi di novembre, come se nulla fosse accaduto. Non è accaduto nulla? I ricordi dello spettacolo sfumano, si alzano i baveri dei cappotti e l’eco delle risate viene coperta dai motori che si riavviano: ognuno ha fretta di tornare a casa. Ma il circo è qualcosa, è un fatto concreto che ha preso vita nel tempo. Non è la registrazione di uno spettacolo, non è l’interpretazione di un testo scritto o di uno spartito musicale; è un atto creativo che, in primo luogo, si può definire come un passaggio di stati d’animo. Così dice lo stesso Larible: Il clown è per me un giocoliere di emozioni che deve essere in grado di smuovere i sentimenti e di tirare fuori le pulsioni che tutti possediamo. Spesso mi chiedono quale messaggio io intenda mandare con le mie gag. La mia risposta a questa domanda è che io non intendo mandare messaggi (per quello esistono gli sms): ciò che faccio è entrare in pista e svuotarmi le tasche di quello che ho, sia essa tristezza, gioia, forza, malinconia. Il pubblico poi può servirsi liberamente e prendere ciò di cui ha più bisogno in quell’occasione. Può ridere, sorridere, commuoversi o cullarsi nella malinconia. Questo è l’unico modo con cui io riesco a concepire, e quindi a definire, il clown. Questa trasmissione avviene in tutte le arti. Quando scrivo, cerco di indagare la sostanza delle mie emozioni, dei miei stati d’animo. Se vado a fondo di ciò che sono, riesco a comprendere meglio me stesso e anche l’oggetto di cui sto scrivendo. La scrittura, quindi, è una forma di conoscenza del mondo, perché ci pone in relazione con ciò che è fuori da noi stessi. Anche l’arte creativa del clown, nella sua antica semplicità, tocca le corde primordiali dei sentimenti: il riso, la sorpresa, la malinconia. David Larible ha riproposto al circo Knie alcune variazioni di entrée storiche, come quella dei piatti che si rompono o quella in cui gioca con una chiazza di luce sull’arena (con un richiamo a Pierre Étaix e a Dimitri, due grandi clown da poco scomparsi, e prima di loro a Oleg Popov). In generale, ha mostrato la sua grande abilità nell’intuire e nel leggere le reazioni del pubblico, fino a tirare fuori il clown che dorme dentro ogni spettatore. Lo spettacolo del circo Knie si chiama Smile, come la famosa canzone composta da Charlie Chaplin (uno dei maestri di ogni clown, e il modello di riferimento per eccellenza dello stesso Larible). Chaplin scrisse questa melodia per il film Modern times del 1936, in un’epoca in cui era ancora indeciso fra il cinema muto e quello sonoro. Le parole, che invitano a sorridere nonostante le avversità, vennero aggiunte più tardi da John Turner e Geoffrey Parsons. Ma prima di farvi ascoltare Smile (ne trovate mille versioni su internet), voglio condividere con voi una canzone che per me ha una funzione simile: When you’re smiling, con la voce di Billie Holiday. È un brano che, in qualche modo, riecheggia l’invito di tutti i clown del mondo: si può sorridere nonostante. Nonostante le difficoltà, nonostante il tempo che ci corrode, nonostante la morte. Ci vuole coraggio. Ma ci si può provare.
Billie Holiday conosceva il dolore e la disperazione; eppure in ogni sua nota sapeva agguantare l’equilibrio e l’eleganza dello swing, insieme alla profondità del blues (sebbene abbia inciso pochi veri e propri blues, si può dire che la sua voce sia intrisa di quel sentimento). Quando ascolto le canzoni di Billie Holiday degli anni Cinquanta – scrive Murakami Haruki – sento che lei prende su di sé in blocco tutti gli sbagli che ho commesso fino ad oggi, tutte le ferite che ho inferto finora a tante persone. Non si tratta di una cura, precisa l’autore giapponese, perché non è qualcosa che possa essere curato. Perdonato però sì, semplicemente perdonato.
When you’re smiling non risale agli anni Cinquanta, ma è del 1938: Billie Holiday non è ancora troppo incrinata dalle droghe e dalla malattia. Però si ha davvero l’impressione che la sua voce accolga la sofferenza, che in qualche modo sopporti il male e che cerchi di orientarlo verso un possibile perdono. A 2.04, è magistrale e carico di consapevolezza anche l’assolo al sax tenore di Lester Young, amico fraterno di Billie Holiday. «When you are smiling, the whole world smiles with you», canta Billie. E il mondo davvero sorride. Non so se lo vediate o meno, ma fa veramente un gran sorriso.
PS: Le parole di David Larible provengono dal volume Consigli a un giovane clown, scritto con Massimo Locuratolo e Alessandro Serena e pubblicato da Mimesis nel 2015. Dallo stesso volume proviene il ritratto di Gianluigi Di Napoli, che raffigura Larible al Ringling Bros. and Barnum and Bailey Circus, il maggior circo degli Stati Uniti. Le parole di Murakami (autore anche dell’ultima frase dell’articolo) sono tratte da Ritratti in jazz, scritto nel 1997 e pubblicato in italiano da Einaudi nel 2013. L’immagine con Charlie Chaplin è un fotogramma del film Modern times. L’uomo sorridente (vedi sopra) è un’opera della fotografa tedesca Aenne Biermann (1898-1933), composta prima del 1930 e intitolata Lächelnder Mann (“Uomo che ride”); si trova nella Pinakothek der Moderne di Monaco, in Baviera.
PPS: When you’re smiling è una canzone scritta da Larry Shay, Mark Fisher e Joe Goodwin. La versione di Billie Holiday, con Lester Young al sax, è stata registrata il 6 gennaio 1938 a New York. Potete trovarla nella raccolta Billie Holiday + Lester Young: a musical romance (Columbia 2002). Gli altri musicisti: Teddy Wilson (piano), Buck Clayton (tromba), Benny Morton (trombone), Freddy Green (chitarra), Walter Page (contrabbasso), Jo Jones (batteria).
PPPS: Avevo già accennato qui a David Larible; qui, invece, parlo del rapporto che lega Billie Holiday e Lester Young.
PPPPS: Ecco infine anche Smile, in una versione incisa da Nat King Cole a Hollywood il 27 luglio del 1954.