L’uomo nudo

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Come levare tutti gli schermi, i veli, tutte le corazze, le cotte di maglia, i giubbotti antiproiettili sotto cui nascondiamo il nostro io? Come arrivare all’essenza della nostra identità, a quello che Georges Simenon chiamava l’homme tout nu? È difficile guardare noi stessi per quello che siamo, semplicemente, senza inganni. È difficile anche guardare gli altri. Ma non solo le persone; perfino i luoghi tendono a nascondersi nel momento stesso in cui li visitiamo: sono nove mesi che torniamo a Paradeplatz, eppure a volte mi sembra di non averla ancora mai vista.
Secondo la mia esperienza, esistono due tecniche ben precise e collaudate che permettono di guardare l’uomo nudo che nascondiamo dentro noi stessi.
1) Perdersi.
2) Camminare a Zurigo quando soffia il föhn.
La sera prima del viaggio a Zurigo avevo un incontro in una libreria di Como. Alla fine ho salutato i librai e mi sono allontanato, mentre loro chiudevano bottega. Dopo qualche metro però mi sono accorto che non sapevo più dove fossi. Non solo, mi ero pure scordato dove avevo parcheggiato l’automobile. Il telefono era morto, senza batteria. Ho pensato di chiedere un’indicazione a un passante… ma per dove? Ho camminato a lungo, mentre scendeva la sera, finché mi sono imbattutto per caso nel parcheggio. Il giorno successivo sono arrivato alla stazione di Bellinzona, pronto a prendere il treno per Zurigo, e ho scoperto che il treno stava partendo proprio in quel momento. Che cos’è accaduto? Perché prima ero puntuale e poi di colpo in ritardo? Non ci sono risposte. Quando ci si perde, non bisogna indugiare sulle cause dello smarrimento, bensì muoversi, camminare, cambiare treno.
In seguito, mentre aspettavo a Paradeplatz, ho ricevuto un messaggio di Yari. M’informava che, inspiegabilmente, si era perso lungo il tragitto dalla stazione alla piazza. Mi ha inviato fotografie strane di una città che non sembrava nemmeno Zurigo. Abbiamo provato a segnalarci la nostra posizione con il telefono, ma quando sono arrivato al puntino rosso che avrebbe dovuto essere Yari, non ho trovato nessuno: il puntino yarico si era spostato nel posto in cui lo stavo aspettando prima di andare a cercarlo.
Tutto ciò per dire che il momento in cui siamo riusciti a raggiungere lo stesso luogo – Paradeplatz, finalmente! – è stato come lo scioglimento di un nodo narrativo. Musica epica in sottofondo, scena al rallentatore. Siamo qui! Siamo noi! Questa è la nostra piazza! I nostri smarrimenti ci hanno regalato uno sguardo più fresco, pronto alla meraviglia (e ai punti esclamativi). Tuttavia ci siamo resi conto che Paradeplatz non era per niente “la nostra piazza”, perché stava soffiando il föhn ed erano tutti matti… noi compresi, come dimostrano gli smarrimenti di cui sopra.
Il föhn, o favonio, è un vento caldo, secco, sfibrante. La piazza sussultava a ogni sferzata, sorpresa nella sua intimità. C’erano tre lavori in corso: due per terra e uno sul tetto di un palazzo. L’uomo al volante della macchina pulitrice aveva uno sguardo trasognato. Dal cantiere sul tetto, calavano colpi di martello, uno dopo l’altro, sopra il vocio di un gruppo di bambini (nervosi pure loro) e sopra la telefonata accorata di un signore di mezza età che ripeteva, allo sfinimento, «quando non ci sarò più, andrà tutto bene, aspetta che non ci sarò più, andrà tutto bene quando non ci sarò più». Mentre prendevo appunti sul mio taccuino una signora anziana con una nuvola di capelli azzurri vaporosi, mi ha sorriso comprensiva. È il föhn, sembrava che volesse dirmi, non puoi farci niente.
Accanto a lei, sulla panchina, sedeva una ragazza vestita di giallo. Stava leggendo Il mondo perduto di Arthur Conan Doyle, in italiano. Assorta, concentrata, con una piccola ruga sulla fronte. Mi sono ricordato che il romanzo racconta di un viaggio in terre remote: un gruppo di esploratori arriva su un altopiano isolato, in mezzo alla foresta amazzonica, sul quale vivono creature preistoriche. Terre remote? Di certo non sono più lontane di Paradeplatz, oggi, qui.

[AF]

*

Ore 10:38, Yari – Caro, mi confermi il pranzo al sacco?
Ore 10:42, Andrea – Sì, io non l’ho portato, ma compro qualcosa a Zurigo. Ricorda la poesia!
Ore 10:45, Yari – Non preoccuparti, ho preparato un tramezzino di endecasillabi.
Ore 10:46, Andrea – Ottimo se ci bevi sopra un sonetto caudato.
Ore 10:49, Yari – D’altra parte, il sonetto caudato è parente del caffè corretto, no?
Ore 10:51, Andrea – Certo, poi c’è chi esagera e prende un madrigale on the rocks.
Ore 11:00, Yari – Sono gli stessi che si fanno uno stornello non filtrato e poi lo trovano denso.
Ore 11:55, Yari – Tra l’altro, diversi disturbi sulla linea ferroviaria. Spero di arrivare. Ho paura che non resisterò e azzannerò il mio panino prima di arrivare a Paradeplatz.
Ore 12:28, Yari – 12 minuti di ritardo. Vediamoci pure a metà strada, davanti a quel ristorante italiano che abbiamo visto l’ultima volta.
Ore 12:36, Andrea – Perfetto. A dopo.
Ore 13:23, Yari – Mi sono perso. [POSIZIONE]
Ore 13:26, Andrea – Cammina dritto e vai a sinistra. Perpendicolare. [POSIZIONE]
Ore 13:30, Yari – Acc, scusa, stavo andando al contrario, ma vale la pena: è un posto strano. Arrivo.
Ore 13:32, Andrea – Non trovo il ristorante italiano.
Ore 13:34, Yari (messaggio vocale) – “È molto semplice: se guardi in direzione della stella polare e giri due volte a destra di te stesso, ecco, ci arrivi facilmente”.
Ore 13:34, Andrea – Ma dov’è? Sono alla fontana circolare grande, dove il mese scorso stava seduto il cuoco. Vicino al negozio di foulard.
Ore 13:35, Yari (messaggio vocale) – “Oppure, come diceva il mio vecchio docente di geografia, diritto verso il nord della Polare”. [POSIZIONE]
Ore 13:36, Andrea (messaggio vocale) – “Stai dicendo che tu aspetti al ristorante italiano sapendo che potrebbe accadere di tutto. Qui sta già accadendo di tutto, perché c’è in giro molta più gente strana del solito. Prova a fare un salto alla fontana”.
Ore 13:38, Yari – Fontana circolare? Circo ilare? Lucio Fontana? Ilare uccello?
Ore 13:40, Yari – Ma come?! Ti sei spostato? [POSIZIONE]
Ore 13:41, Andrea – [POSIZIONE] Fermo lì!
Ore 13:41, Yari – Io sono qui. Di fianco a me fumano un sigaro cubano. Quasi quasi mi sposto, però, perché a questo punto sarà deludente incontrarsi.
Ore 13:42, Yari – Ho appena visto transitare una ragazza che deve aver confuso il senso del ridicolo con il senso di marcia, e se ne va in giro su trampoli argentati con la gonna più corta di una sigaretta (fumata a metà).
Ore 13:43, Andrea – Macchina.
Ore 13:44, Andrea – Pulitrice.
Ore 13:44, Yari – Ti vedo. Cioè, vedo le tue scarpe rosse.

[…]

Ore 15:03, Yari – Sono sul treno.
Ore 15:14, Andrea – Anch’io.
Ore 15:29, Yari – Mi scrive mia moglie: “Certo che erano tutti strani. Succedono sempre cose strane a Zurigo, quando c’è il föhn. Lo diceva anche Dürrenmatt”.
Ore 15:29, Andrea – Bello! Con il föhn sono tutti nudi…
Ore 15:29, Yari – Sì, come gli alberi spogliati dall’autunno.
Ore 15:31, Andrea – E come gli atri delle banche.
Ore 15:33, Yari – Spogliati anche quelli dall’autunno (dell’animo umano?).

[YB]

*

È difficile incontrarsi.
Per fortuna, come dimostrano i messaggi trascritti da Yari, la tensione verso l’incontro è già una vicinanza. I messaggi s’interrompono quando siamo arrivati davvero nello stesso luogo. Dentro quella parentesi quadra – […] – oltre a osservare quanto accadeva intorno a noi, abbiamo letto una breve poesia di Federico Hindermann.

Vivi tra molti
parenti, amici, l’età confondi,
storie d’altrove, non sai chi ascolti

[AF]

*

La vita potrebbe essere proprio una parentesi quadra dove inscatolare tutti gli incontri che si fanno per strada o nei libri. Creature con cui si sorride, si soffre, si mangia. E alla fine non sai se sei tu a essere loro o loro a essere te. Confondi la tua voce con quella degli altri.

[YB]

PS: Il riferimento di Simenon all’homme tout nu si trova in parecchi testi o interviste; per esempio nella conferenza Le romancier, tenuta a New York nel 1945: Je me rapprochais de l’homme, de l’homme tout nu, de l’homme en tête à tête avec son destin qui est, je pense, le ressort suprême du roman. Il testo completo si trova in L’Âge du roman (Complexe 1988).PPS: Il mondo perduto venne pubblicato da Arthur Conan Doyle nel 1912. Fu tradotto in italiano per la prima volta nel 1913 e da allora pubblicato in varie edizioni. È la prima storia con il professor Challenger, protagonista di una serie di racconti e romanzi precursori del genere fantascientifico.PPPS: La poesia di Hindermann è tratta da I sette dormienti, a cura di Matteo M. Pedroni, Bellinzona, Sottoscala, 2018.PPPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugnoluglio e agosto.

Condividi il post

La mia felicità

Gli Svizzeri muoiono felici è la storia di un incontro impossibile. Spesso gli incontri impossibili finiscono per accadere, magari proprio quando nessuno ci sperava più: la vita infatti, come diceva il poeta Vinícius de Moraes, è l’arte dell’incontro. Il romanzo, in uscita in questi giorni per l’editore Guanda, parla di solitudine e nostalgia, di fuga, di accoglienza. Le Alpi e il deserto del Sahara fanno da sfondo a una vicenda dove la morte, l’irrimediabile lontananza, ferisce l’animo dei protagonisti. Ma nello stesso tempo, la scoperta dell’altro dischiude la possibilità della speranza. Il “booktrailer” di Alessandro Tomarchio dura un minuto e non rivela niente della trama; è un piccolo cortometraggio d’autore, liberamente ispirato ai luoghi e all’atmosfera del romanzo.

Le immagini mostrano l’altopiano della Greina, nella Svizzera italiana. Ideato, girato e montato da Alessandro Tomarchio (che è anche l’autore della colonna sonora), il video è stato realizzato grazie alla disponibilità di Martina e Paolo, che hanno fatto da guida al regista nei luoghi dove si svolgono molte scene del romanzo.
Trovate qui il risvolto di copertina, con qualche citazione dal testo, e qui le date delle presentazioni. Ne approfitto per ringraziare chi mi ha aiutato nel lavoro della scrittura: Ibrahim Kane Annour e tutti gli altri Tuareg che mi hanno ispirato (alcuni vogliono mantenere l’anonimato, perché preferiscono apparire nascosti nel personaggio di Moussa ag Ibrahim); i miei amici, i miei famigliari e i miei lettori di fiducia: Anna, Eloisa, Erina, Lucia, Maria, Michele, Nicola, Paolo, Tommaso, Yari. Sono grato a tutto il gruppo di Guanda, in particolare ad Annachiara, Monica, Paola, Lucia, Viviana. Come sempre, un pensiero speciale per la mia editor Laura Bosio, che mi ha aiutato a portare a termine questo viaggio fra l’Assekrem e la Greina.
A un certo punto, nel romanzo, l’investigatore Elia Contini viene interrogato da uno psicanalista.

 – Lei, per esempio, come giudica la sua vita da uno a dieci?
Contini sperò che fosse una domanda retorica. Ma non lo era.
– Allora? Mi dica? Si dà la sufficienza?
Contini sospirò. – Faccia come vuole. Dieci?
– Dieci! Caspita, lei è un uomo felice.
– Anzi, uno.

Non sono un uomo felice. Non lo sono mai stato. Questo non vuol dire che stia soffrendo per una circostanza precisa, né che mi sia accaduto qualcosa d’irreparabile (tranne la vita stessa), né tantomeno che voglia lamentarmi. Ma fin da bambino, non ho mai avuto l’attitudine alla felicità. Non mi sono mai lietamente riconosciuto in un gruppo, nella baraonda del cortile non avevo voglia di gridare, non m’importava di vincere o perdere. Non mi piacevano le “festicciole”, i compleanni, le scampagnate. Non sto dicendo che fossi cupo e disperato; anzi, mi piaceva scherzare e – da adolescente – ero più o meno sempre innamorato. Ma quando tutti intorno a me, insieme, perdutamente, gioivano di una gioia collettiva, in me sorgeva il desiderio di stare in disparte. È un’ombra che mi accompagna ancora oggi. Al momento degli applausi, quando si levano i calici per un brindisi, quando si grida “viva gli sposi!” o “buon anno!” o “vittoria!”, mi affretto a cercare la via di fuga più vicina. Non è una posa o un moto d’orgoglio. Semplicemente, mi rendo conto di non essere portato per la felicità. O forse devo ancora capire che cosa sia.
Gli Svizzeri muoiono felici è un romanzo noir, con il suo intreccio poliziesco e i suoi colpi di scena, ma nasconde anche una domanda sulla felicità. Da un paio d’anni mi ronzava in mente la storia di un uomo che sparisce nel cuore delle montagne. Nello stesso tempo mi è capitato di conoscere alcune persone di origine tuareg; nei loro racconti ho sentito affiorare una nostalgia e un desiderio che assomigliavano a ciò che provavo io. È possibile sentirsi vicino a un luogo dove non si è mai stati? È possibile che, nell’identità multipla di cui siamo fatti, ci sia posto anche per paesaggi e culture conosciute solo tramite i racconti? Credo di sì: non bisogna mai sottovalutare la forza di un racconto. La scrittura, fra mille altre cose, è anche compiere l’esercizio di essere un altro, pur restando sé stessi. Scrivere (e leggere, naturalmente) è sempre una ricerca, è un modo di progredire. Forse, a proposito, l’uomo felice è proprio «colui che, senza cercare direttamente la felicità, trova per di più inevitabilmente la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di sé stesso, in avanti» (Pierre Teilhard de Chardin).
Credo che ci sia una correlazione profonda, anche se nascosta, fra la Svizzera e il Sahara. La ricercatrice Jeanne-Marie Baude scrisse che «ci sarebbe tutto uno studio da fare sulla letteratura del deserto nella Svizzera romanda contemporanea». L’idea si potrebbe allargare alla letteratura europea in generale, che spesso ha fatto i conti con il concetto esistenziale di “deserto”, al di là dell’aspetto puramente geografico. Restando in Svizzera, alcune liriche di Anne Perrier hanno una consonanza con l’inquietudine di tanti poemi tuareg.

Oh rompere gli indugi
Partire partire
Io non sono fra coloro che restano
La casa il giardino tanto amati
Non sono mai dietro ma davanti
Nella splendida bruma
Sconosciuta

La stessa Anne Perrier, trafitta dal blu delle lontananze, si avventura in un deserto che è forse anche la pagina bianca su cui si compone la poesia.

Questo laggiù
Questo canto questa alba
Questo volo di fronde
Questo orizzonte come un giardino
Che riposa nella luce
E gli aromi

La letteratura permette incontri impossibili, superando ogni distanza culturale e temporale. Si può dunque appartenere sia alle montagne fra cui è nata Anne Perrier (1922–2017), sia alle dune fra cui visse Kenoūa oult Amāstan, nata nel 1860. Colpita dalla bellezza di un uomo, Kenoūa ne scrisse con impeto e struggimento, evocandolo come se fosse un paesaggio.

Io, quest’anno, ho visto
una collina di muschio dai mille colori;
l’erba era d’oro e cresceva con vigore;
il miele mescolato con il burro ingrassava la terra;
il latte scorreva e bagnava la collina, racchiusa tra maglie d’argento.

Gli Svizzeri muoiono felici si muove tra paesaggi diversi, con voci diverse. Ma ogni personaggio, compreso lo stesso Contini, prova a un certo punto la tentazione di andarsene, di lasciarsi tutto alle spalle. La fuga porta alla felicità? Difficile dirlo. Probabilmente non si può essere felici senza una certa forma di leggerezza e di autoironia, senza un certo distacco dalle cose del mondo. Ma la felicità deve anche fare i conti con la vita quotidiana, con l’impietoso scorrere dei giorni.
Mi accorgo che sto ancora parlando di felicità. Come se le parole mi potessero avvicinare al sentimento… Magari è proprio così, vai a sapere. Lo stesso Giacomo Leopardi, quando scriveva, non poteva fare a meno di una certa allegrezza: «Ma quantunque chi non ha provato la sventura non sappia nulla, è certo che l’immaginazione e anche la sensibilità malinconica non ha forza senza un’aura di prosperità e senza un vigor d’animo che non può stare senza un crepuscolo, un raggio, un barlume di allegrezza» (Zibaldone, 24 giugno 1820).PS: La vita, amico, è l’arte dell’incontro è un album di Vinícius de Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio Endrigo pubblicato dalla Fonit Cetra nel 1969. Il pensiero di Pierre Teilhard de Chardin è tratto dall’opera Sur le Bonheur (Seuil 1966), tradotta in italiano da Annetta Daverio con il titolo Sulla felicità (Queriniana 1990; 2013). La frase di Jeanne-Marie Baude proviene dal saggio “La voix nomade de Anne Perrier”, in Gérard Nauroy, Pierre Halen, Anne Spica, Le Désert, un espace paradoxal, atti del convegno all’Università di Metz (13-15 settembre 2001), Peter Lang, Berna 2001. I versi di Anne Perrier si trovano nell’opera La voie nomade (1982-86), in La voie nomade et autres poèmes. Œuvres complètes 1952-2007, L’Éscampette Éditions 2008. I versi di Kenoūa oult Amāstan si trovano in Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Sono mie le traduzioni dal francese.

PPS: La fotografia sotto il “booktrailer” raffigura il regista nell’atto di filmare. Anche la fotografia con i fiori blu rappresenta uno scorcio della Greina: le genziane primaticce (Gentiana verna) mi sembrano una buona immagine, se non della felicità, almeno della speranza.

PPPS: Ecco un altro video, sempre girato sull’altopiano della Greina, in cui le parole dell’incipit lottano contro il vento…

Condividi il post

Pourquoi ici?

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Tutto si fa distante, certe volte. Si comincia a dubitare di un dettaglio e all’improvviso manca il terreno sotto i piedi. Non è necessario che ci siano cause scatenanti evidenti o spettacolari: basta un secondo d’inspiegabile vuoto. Una minuscola goccia di buio.
È quello che mi succede oggi a Paradeplatz. Arriviamo a piedi dalla stazione, come al solito. È pomeriggio, l’una e una manciata di minuti, e ci accoglie un’ampia luce bianca. Accenno una battuta ad Andrea a proposito di un signore spaparacchiato su una panchina. Sembra il sosia perfetto di Bukowski. Sorrido, ma non sono a mio agio.
Quando ci sediamo e prendiamo i taccuini, sento sorgere un certo avvilimento. Restiamo lunghi minuti in silenzio e io non so più per quale motivo siamo lì, in mezzo a gente che sa con esattezza cosa sta facendo, e se non lo sa può vantarsi di non saperlo. Io sono solo confuso e insicuro. Vedo Andrea con la coda dell’occhio e ho l’impressione che anche lui, a dispetto dello sguardo che si posa sulla piazza, sia in realtà altrove. Evito di parlargliene. Rileggo la poesia che abbiamo portato con noi:

Io e il mio io
nello stesso scontro.
Gli dico:
non cedere allo sconforto
no, risponde,
speranza è cavalli bradi
mai calmi
mai stanchi
e nitriscono sempre.

È di un autore siriano, Faraj Bayrakdar. È stato in prigione, per anni e anni non ha potuto scrivere e si è così costruito una biblioteca personale nella memoria. Certo, mi dico ingiustamente, tutto così calzante, così perfetto! Versi che senza mezzi termini ci suggeriscono di non lasciarci addomesticare, di non addormentarci, di non stancarci di fare sentire la nostra voce. Bene, fantastico, continuo a pensare, ma quale voce? Il cavallo nitrisce per natura, è la sua unica voce, non può far altro. Ma noi? Noi possiamo scegliere e questo complica le cose: come dire qualcosa? E poi perché? Sono a Paradeplatz ma potrei essere in qualsiasi altro luogo, perché non trovo alcuno spunto valido e costruttivo. Sono stanco. Cresce il timore che la risposta da dare sia la più ovvia, e cioè che la nostra presenza a Paradeplatz è inutile e abbastanza ridicola, anche se nessuno ce lo dirà mai con queste parole.
Allora mi alzo. Mi viene in mente che stamattina, curiosamente, al posto delle lenti a contatto ho optato per gli occhiali. Mi dirigo in mezzo alla piazza e li tolgo. Oscilla tutto: non colgo i visi dei passanti, lo stile dei vestiti, i dettagli verso cui rivolgo in genere la mia attenzione. Eppure mi accorgo presto che non ci sono soltanto presenze vaghe, ma anche movimenti sinuosi, per lo più illeggibili ma con una loro armonia. Riconosco il blu dei tram, ma chi scende e chi sale è una sorprendente scia colorata che si sfalda, si ricompone, si perde.
In quel mondo incompiuto e solo suggerito, fuori fuoco, mi sento subito meglio. Persino meno solo.

[YB]

*

Eccoci, seduti uno di fianco all’altro. Entrambi con gli occhiali, entrambi con gli occhi cerchiati di sonno. Per ragioni diverse, la notte scorsa abbiamo dormito poco (fra tutti e due, meno di dieci ore). Dormire in Paradeplatz? Per un attimo il pensiero mi sfiora, poi capisco che qui è tutto troppo chiaro, troppo abbagliante. Mi sembra che ci sia più sole del consueto forse per via di questo vento secco e caldo, che spazza il cielo e porta con sé un vago odore di bruciato.
Saranno i freni dei tram, penso, e apro il taccuino. Cerco una pagina nuova. Scrivo: odore freni tram. Ma il candore della pagina mi ferisce gli occhi. Perché tutto questo chiarore? Perché tutti vestono di bianco? Faccio una verifica, dandomi un tempo di trenta secondi: intorno a me conto nove camicie bianche. Mentre cerco di arrivare a dieci, vengo distratto da un’apparizione. Di fronte a noi, maestosamente incede una giovane madre con una carrozzina: roseo il vestito così come le scarpe, lieve il sorriso, sereno lo sguardo. Dopo qualche secondo svanisce nel sole. Nel frattempo, di fianco a Yari si è seduta una coppia: lui e lei, abbracciati stretti, sospesi fra il desiderio di baciarsi perdutamente (un minuto) e fra quello di guardare un video sul cellulare (cinque minuti).
Leggo la poesia di Faraj Bayrakdar. Trovo la parola أمل [ʾamal], “speranza”, e la parola صهيل [ṣahil], “nitrito”: i segni scritti suscitano un’immagine – cavalli bradi, spazio vasto e senza confini – che può rendere prezioso ogni fatto marginale, ogni minuto passato a sbadigliare in Paradeplatz. Certo: la speranza. Il problema è che a volte, nel momento stesso in cui la nomino, la mia povera speranza rientra in sé stessa, perde la vitalità dei cavalli e dei nitriti, resta una parola. Solo un’altra parola da mettere nel taccuino: speranza. Come una farfalla infilzata.
Quale speranza trovo, in questo giorno di fine agosto, per me, per la mia vita e il mio lavoro? E per Yari? E per tutti i passanti con le loro camicie bianche, i loro baci, i loro passeggini? C’è una forma di speranza che possa placare la lotta che ognuno di noi, nascostamente, combatte contro sé stesso? In un’altra lirica, Bayrakdar scrive: «Unitevi, / uccelli delle domande. / Nitrite, / limiti del possibile. / Perché un barlume / nella disperazione / basta / a iniziare l’azzurro / a innescare le risposte.» Di nuovo, al confine di ciò che sembra inevitabile, risuona un nitrito. Ma come negoziare un po’ di azzurro in un giovedì pomeriggio di agosto, con questo vento caldo, la stanchezza, la sfiducia verso ciò che stiamo facendo?
Sulle fiancate dei tram appaiono pubblicità di centri wellness, dolciumi, cibo per animali domestici. Torna la mamma rosavestita, quando ormai pensavo fosse da tempo volata via nel sole. Invece, nel momento in cui prova a partire davvero, qualcosa si frappone fra lei e il suo destino: la porta del tram sta per chiudersi, a carrozzina si piega… immediatamente, e senza che nessuno dischiuda le labbra per dire una parola, due, tre, quattro persone intervengono e aiutano la rosea madre a salire sul tram.

Passa una macchina pulitrice. Si ferma, ne scende un uomo con una divisa arancione. Afferra una scopa di saggina. Poi spazza la sporcizia da sotto la pensilina, spingendola verso l’esterno. Le persone sedute ad aspettare il tram alzano entrambi i piedi, perché l’uomo possa allungare la scopa. Infine, l’uomo si mette al volante della macchina e risucchia ogni cosa: mozziconi di sigarette, lattine vuote, cartacce. Sul fianco della macchina c’è una scritta: Damit es in der Stadt so schön ist wie zuhause. Mi colpisce l’idea che stare qui sia come stare a casa.
Fra i vari libri che Yari e io abbiamo con noi, c’è anche un racconto per bambini tradotto in francese dal norvegese. S’intitola Pourquoi ici?. Nell’ultima pagina, il giovane protagonista sviluppa una riflessione: «Tutto avrebbe potuto essere totalmente diverso se fossi stato altrove. Perché sono nato io, e non qualcun altro? E perché sono precisamente qui? Ma forse io sono la mia casa. In questo caso, non importa dove mi trovi: dappertutto sono a casa mia.» Magari è questo il senso del nostro tornare qui mese dopo mese: con l’esercizio della scrittura tentiamo di abitare una piazza e di trovare una casa.

[AF]

*

Quando arrivo a Berna, piovono risposte illuminanti. Prima sulla vetrina di un negozio: Zuhause ist, wo dein Bett steht. Questa è per te, Andrea. Poi su un quotidiano gratuito, aperto a caso, un articolo a mezza pagina: «Ich esse manchmal WC-Papier». Questa è per tutti quelli che non sanno dove stiamo andando.

[YB]

*

Quando arrivo a Bellinzona, sto quasi dormendo. In realtà, non mi è mai riuscito facile assopirmi durante i viaggi in treno. Stavolta, nel momento in cui prendo sonno, mi rendo conto di essere giunto a destinazione. Un po’ intontito, mi avvio lungo il corridoio. Pourquoi ici?

[AF]

PS: Le poesie di Bayrakdar sono tratte da Specchi dell’assenza (Interlinea  2017; traduzione e cura di Elena Chiti). Hvorfor er jet her?, scritto nel 2014 da Constance Ørbeck-Nilssen e illustrato da Akin Düzakin, è stato tradotto in francese nel 2017 da Aude Pasquier, con il titolo Pourquoi ici?, per le edizioni La Joie de lire.

PPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno e luglio.

Condividi il post

La solitudine del formichiere

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Lorenzo ha diciannove anni e vive allo zoo di Zurigo. È uno dei più vecchi formichieri del mondo. Anzi, per essere precisi è un tamandua (Tamandua tetradactyla): è lungo circa un metro dalla punta del naso alla fine della coda, ha una lingua di quaranta centimetri, è di indole solitaria e divora qualche migliaio di formiche al giorno. Un anno fa i responsabili dello zoo ebbero l’idea di farlo socializzare con un gruppo di scimmie leonine (Leontopithecus rosalia). Ma le scimmie, che sono animaletti vivaci, dalla coda lunga e dalla pelle color albicocca, non erano d’accordo. Entrambe le specie sono originarie del Sudamerica, tuttavia questo non basta per fondare un’amicizia. In linea di massima Lorenzo si sarebbe anche adattato alla compagnia, non avendo grandi esigenze se non quella di passeggiare fra i tronchi d’albero aspirando formiche. Le scimmie però adottarono un atteggiamento di chiusura, arrivando a episodi di bullismo e costringendo il vecchio formichiere a rintanarsi nel suo buco. Secondo gli specialisti, probabilmente il maschio riproduttore dei leontopitechi si era sentito attaccato nel suo «Sicherheitsbedürfnis», cioè nel suo bisogno di sicurezza. Immagino che gli stessi specialisti avranno provato a spiegargli che il placido Lorenzo non intendeva mettersi in competizione con nessuno; ma si sa, i maschi riproduttori talvolta sono lenti a comprendere le cose.
Appena scendo dal tram, in una Paradeplatz inondata dal sole, mi sento un tamandua tra le scimmie leonine. Mi guardo intorno e mi accorgo che il luogo è pieno di gente che si sta divertendo, che si è appena divertita o che sta per andare a divertirsi. Ragazzi glabri e abbronzati, fanciulle che schioccano le infradito, famiglie che fanno jogging. Nessuno ciondola senza combinare niente: anche il divertimento, qui, è una cosa seria. Un uomo lucido di sudore si avvicina correndo e quasi mi travolge, mentre un gruppo di turisti consuma un’orgia di selfie. Cerco di rifugiarmi sotto la tettoia, ma tutto è diverso. Le panchine sono semivuote, l’edicola è chiusa e le scale che portano ai bagni sono disseminate di cartelli inquietanti: pavimento scivoloso – scale sdrucciolevoli – superficie viscida – badate a voi!
Passano meno tram. A momenti Paradeplatz diventa quasi silenziosa, percorsa da lontani scampanii che sembrano già un ricordo, come uno di quei sogni sognati il mattino presto, prima di svegliarsi, e subito dimenticati. Poi appaiono cappelli di paglia, tavole per nuotare nel lago, cesti da picnic, palette di plastica per la sabbia. Vedo una sola cravatta ma è rossa a pallini gialli, quindi forse non conta.
Leggiamo una poesia di Anna Achmatova.

No, non sotto un cielo straniero,
non al riparo di ali straniere:
io ero allora col mio popolo,
là dove, per sventura, il mio popolo era.

Esistono cieli che non siano stranieri? Esistono luoghi che possiamo definire “nostri”? Credo di no, e infatti i versi parlano di un popolo, non di un luogo. Ma è difficile per me riconoscermi in questo popolo domenicale, almeno finché non mi rendo conto che ne faccio parte anch’io. Come sempre, c’è chi è più tamandua e chi è più scimmia leonina. Ed è normale che i tamandua ogni tanto si sentano soli.
Yari e io abbiamo pianificato di visitare lo zoo di Zurigo con alcuni amici e famigliari. Ecco dunque che anche il nostro gruppo, mentre si raduna intorno a una panchina ombreggiata, diventa un frammento di popolo: voci, saluti, richiami. All’angolo della panchina, fra l’altro, c’è un uomo che dorme con il capo posato sopra una valigia. È immobile, e resta così per almeno quaranta minuti, mentre noi studiamo gli orari dei tram, acquistiamo i biglietti, telefoniamo agli amici. Quando l’uomo si sveglia e incrocio il suo sguardo un po’ smarrito, all’improvviso, per un attimo, avverto un moto di riconoscimento.
Dopotutto, i tamandua sono più numerosi di quanto credessi.

[AF]

*

Non so quanto si possa considerare permalosa una piazza. Vero è che Paradeplatz, nel momento del bisogno, non si fa problemi a fartela pagare. Succede infatti che quando la domenica decidi di andare allo zoo di Zurigo con Andrea e le rispettive famiglie, raggiungendo a piedi la famosa piazza per uno sguardo furtivo, di passaggio, quasi scherzoso, come a dire «eccola» sorridendo sotto i baffi che non hai (ma sogni di avere), ebbene succede che una voce fuori campo ti chieda con misurata sufficienza: dove pensi di andare? E scopri in breve tempo che i tram diretti allo zoo non esistono. I tram che fino a un giorno prima – e per tutti i mesi che hai frequentato la piazza – portavano fieri sulla loro ampia fronte il capolinea «ZOO» non esistono. I tram che ancora ieri scampanellavano selvaggiamente per farti notare che se c’è qualcuno che deve spostarsi sei tu e solo tu (e anzi datti una mossa) non esistono.
La tabella degli orari sembra una vignetta satirica: da lunedì a sabato una rete fittissima di arrivi e partenze, delle colonne dense di numeri neri come il carbone, come se lo zoo di Zurigo fosse il centro del mondo; e poi sulla destra, placida, una colonna bianca come la rampa del salto con gli sci, una striscia di vuoto cosmico, a rappresentare naturalmente la domenica. Spiegalo tu, a una piazza, che si può anche intraprendere il viaggio combinando le attività, unendo l’utile al dilettevole (come dice chi si vergogna di fare qualcosa di utile e vuole sottolineare a tutti i costi la presenza del dilettevole; o per i più strani il contrario), non avere insomma come Scopo Ultimo di un viaggio a Zurigo l’osservazione di Paradeplatz. Ma niente, tram non ce ne sono, la piazza indispettita guarda altrove, se ne va a «culodritto» direbbe Guccini, e a noi tocca incamminarci con il pranzo al sacco alla ricerca di un altro luogo di partenza, magari un luogo più accogliente, simpatico e meno suscettibile. (Sì, l’ho presa benissimo questa cosa dei tram.)
Certo, incamminarsi in gruppo con un passeggino e qualche sacco, scoprendo qualcosa di nuovo a ogni occhiata, sottolinea una volta di più la nostra estraneità al tessuto urbano zurighese. Se in Paradeplatz non ci sentiamo più del tutto stranieri, bastano pochi metri per ripiombare nei panni dei forestieri. E in fondo, anche la familiarità con Paradeplatz è soprattutto una nostra proiezione. Basta guardare l’architettura e l’utilizzo della piazza, leggere le insegne, ascoltare gli avventori: tutto porta lontano dalla nostra cultura d’origine e dalla nostra lingua madre. Non c’è nulla di più intrigante, beninteso, ma la distanza rimane; e, pur con qualche eccezione, rimarrà. Insomma siamo e resteremo stranieri, a meno che il concetto non risulti obsoleto. Quando penso alla geografia, per esempio, o più precisamente all’appartenenza a un luogo, i miei sentimenti sono molto diversi da quelli che potevano avere i miei avi (che del resto erano ovunque, salvo nei luoghi in cui sono nato e cresciuto).
Credo che Andrea abbia ragione: non ci sono luoghi che possiamo definire “nostri”. L’appartenenza e il radicamento sono da ricercare altrove. Possono essere un popolo, come appunto per l’Achmatova: «io ero allora col mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era» (in un testo che apre un ciclo intitolato, simbolicamente, Requiem). Possono essere la nostra lingua o la nostra cultura, come avrei tendenza a credere. Possono essere un ideale o un sogno. In ogni caso, dubito si tratti di qualcosa che potremmo fissare e scolpire nella pietra: più probabile che sia volubile e volatile. Ancorché necessario.
Mi piace sempre ricordare Simone Weil, che ne La prima radice afferma: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale, all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».

[YB]

*

Infine, stanchi ma felici, tornammo a casa. Così un tempo finivano i temi scolastici. Ora si tende a evitare quel passato remoto tanto perentorio e, soprattutto, non è sempre chiaro dove sia “casa”. Un altro “pensierino”: Oggi andammo allo zoo. L’animale che più mi piacque…
Yari, quale animale maggiormente ti piacque allo zoo di Zurigo?

[AF]

*

Caro amico di penna,
il gorilla è il mio animale preferito. Mio papà dice che ci sono diversi tipi di gorilla, ma sono sempre pelosi. Sono neri e anche un po’ grigi. Allo zoo di Zurigo c’è un gorilla che è anche più vecchio del mio papà. È nato nel 1977. Quando lo guardi lo capisci che è più vecchio e che ha visto più cose e sa anche molte più cose di te.
Quando lo guardi per tanto tempo forse anche lui ti guarda. Il gorilla ti guarda sempre in modo triste. Forse perché è chiuso in uno zoo o forse perché è solo triste di essere triste. Ma lui lo sa di sicuro perché è vecchio e saggio. Il mio papà mi ha detto che lui invece non lo sa. Quando il gorilla mi guarda divento triste anch’io, ma non so perché. Sono triste senza saperlo.
Scrivimi presto.
La tua amica di penna

[YB]

PS: Un ringraziamento speciale a Martina e Gregorio. Le informazioni sugli animali provengono dalla newsletter e dal sito dello Zoo di Zurigo.

PPS: I versi di Anna Achmatova fungono da epigrafe al ciclo intitolato Requiem, che si può leggere in Poema senza eroe e altre poesie (Einaudi, 1966; traduzione di Carlo Riccio).

PPPS: La canzone di Francesco Guccini Culodritto, dedicata alla figlia Teresa (allora bambina), è nell’album Signora Bovary, uscito nel 1987. Comincia così: «Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti / e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti, / ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare / e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare»…

PPPPS: La citazione di Simone Weil è in La prima radice (Edizioni di Comunità, 1954, ripubblicato nel 2017; traduzione di Franco Fortini).

PPPPPS: Vi segnaliamo le altre puntate della serie. Siamo già stati a Paradeplatz in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio e giugno.

 

Condividi il post

A Zurigo, sulla luna

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Di fianco a noi siede un ragazzo olivastro.
Barba scura, maglietta nera e scarpe
da ginnastica. Sull’orecchio un brillante
pacchiano. Fissa il suo telefono, poi aggiusta
nelle orecchie gli auricolari. Solo quando si gira
mi accorgo che i suoi occhi sono più azzurri
del vento, senza macchie, e si spalancano
densi come nubi. La piazza riflessa è diventata
minuscola, ora, noi tutti siamo punti dispersi
che non ritrovo, che si sommano ad altri
nel profondo marino di depositi e secoli.

Finché si alza, ride forte e riparte. Anche lui
torna presto insignificante.

[YB]

*

Quando non ci vedi più, immagini tutto. Le cose che sono, quelle che sono state. Le cose che potrebbero essere. Ho negli occhi il paesaggio della mia infanzia – il deserto, le vie della città vecchia, i minareti – e ho nelle orecchie le voci di questa piazza. Ho nelle narici i suoi odori. La campana del tram risuona anche troppo vicina. Il negozio di tabacchi si protende fino a me, insieme alla bottega del fioraio, alla pasticceria, all’edicola con i giornali freschi di stampa. Raggiungo in fretta il marciapiede, prima che arrivi il prossimo tram. Muovo il bastone davanti ai piedi, esplorando l’asfalto. Percepisco i corpi che si scansano per lasciarmi passare.
Mi siedo. Sono stanco. Il cervello lavora per ricostruire lo spazio, immaginando la distanza fra le persone, i palazzi delle banche, il volto di una madre che spinge una carrozzina. Ma nello stesso tempo, con poca fatica, il cervello immagina mia madre: i suoi denti bianchi quando ride, il velo ciclamino dei giorni di festa, le sue mani che impastano la farina. Mia madre, morta da anni, scivola in mezzo a un gruppo di ragazzi in gita scolastica. Il cielo senza confini non è più remoto del piccione che beccheggia a pochi centimetri dalle mie scarpe. Che cosa scegliere?
Potrei vedermi da vecchio al mio paese. Potrei vedermi all’altro capo del mondo. Potrei vedere una donna bellissima sopra i tacchi che si muove, si ferma, si muove. Potrei vedere le labbra che pronunciano parole in tedesco, in inglese, in spagnolo, in italiano, in altre lingue che non conosco. Una donna chiacchiera in arabo al telefono. Rihla sa’ida, buon viaggio. E io resto sulla panchina, con i pensieri che fuggono. Sento una ragazza che dice a un’altra, in tedesco: hai visto che occhi, quello lì? Guarda come sono chiari! Capisco che stanno parlando di un uomo seduto accanto a me. Non so se sia vecchio, se sia giovane, se sia straniero. Lo sfioro delicatamente sul braccio. Lui si volta, mi guarda.
Occhi blu, silenziosi come il mare sognato, come il cielo ricordato, come il tempo della giovinezza e come i pomeriggi che non finiscono mai. Mormoro due parole di scusa e avverto il suo imbarazzo nell’accorgersi che sono cieco. Lui torna a voltarsi dall’altra parte. L’invisibile azzurro del suo sguardo resta con me, ancora per un po’, nel vasto incrocio di Paradeplatz.

[AF]

*

Indietreggiare può fare bene, ogni tanto. Ritornare sulle proprie idee, mostrarsi timidi, lasciare spazio a qualcun altro. Così, all’angolo di Paradeplatz, invece di avanzare sicuri con i nostri taccuini in direzione della solita panchina, indietreggiamo un passo dopo l’altro, fino a ritrovarci all’interno di una corte ricca di marmi, bancomat e boutiques. Qualche metro ancora e compare un bar lussuoso agghindato con qualche pallone, bandierine, finte zolle di finta erba e un trionfante calcio balilla a ricordare il comune gaudio (mezzo mal?) dei campionati del mondo in Russia. Giunge l’eco di frasi lontane, pronunciate a mezza voce dentro un cellulare. Intorno domina la perenne staticità delle pietre levigate. L’unico movimento è quello di una fontana che, sul fondo, lascia intravvedere alcune frasi che scorrono. Sono desideri apparentemente inesaudibili, espressi in più lingue: respirer sous l’eau, essere invisibile, auf einem Teppich fliegen, die Zeit anhalten, be wherever I want…

“Siamo quello che siamo”, si sente dire ogni tanto: “prendere o lasciare”. Invece siamo molto più spesso quello che non possiamo diventare e quello non siamo riusciti a fare. Poco male, la poesia che abbiamo portato con noi sembra proprio uscita da quella fontana e dal flusso di parole: è un’ottava dell’Ariosto, tratta dall’Orlando furioso, dall’episodio di Astolfo sulla Luna (alla ricerca del senno di Orlando).

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

La Luna: ecco dove finiscono i vani disegni e i vani desidèri che rincorriamo per tutta la vita, e che non di rado ci plasmano e ci trasformano. Non si contano, sono moltissimi, e infatti la più parte ingombran di quel loco. Un loco speciale, lassù. Luminoso nel cielo di notte e appena accennato nel cielo di giorno, quando il colore dell’aria non è troppo intenso.
Indietreggiare fino alla Luna: presto scompare Zurigo, poi la Svizzera e l’Europa, i territori si dissolvono nel blu, l’orologio non scorre, la gravità è relativa, spazio e tempo sono una cosa sola, noi ci siamo e non ci siamo.
«Luna!», dice mia figlia di un anno e mezzo indicando il cielo con il dito fragile e deciso. «Sì, è la Luna», rispondo ogni volta. E insieme spalanchiamo gli occhi.

[YB]

*

Altre cose viste: due ragazze che si scattano un selfie davanti ai bancomat; un cieco che entra da Sprüngli; ventinove fra uomini e donne che camminano con un bastone (compreso il cieco); due scolaresche; un uomo che si soffia il naso nella maglietta; un mozzicone di sigaro cubano in un vaso; una donna con un velo ciclamino; una madre che sprona i figli a camminare gridando, in italiano, «È laggiù la fontanella!»; tredici carrozzine; innumerevoli cravatte; nuvole; bandiere; un elefante a rovescio; due monaci buddisti con l’ombrello; un carretto a pedali che trasporta champagne; due donne che indossano abiti dello stesso colore del cielo; un candelabro; cani; sigarette; ciclisti; un uomo altissimo.

[AF]

PS: Ludovico Ariosto pubblicò per la prima volta il suo poema nel 1516. Abbiamo citato l’ottava 75 del canto XXXIV (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Einaudi, 1966; 2015).PPS: Scoprire che il tempo non scorre, e anzi non esiste in quanto tale, può dare qualche vertigine. Ma come dice Carlo Rovelli, «L’assenza del tempo non significa […] che tutto sia gelato e immoto. Significa che l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic-tac […]. È una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici. Il mondo è più come Napoli che come Singapore» (in L’ordine del tempo, Adelphi, 2017).

  

 

Condividi il post