Fuori dagli stalli demarcati

Oggi è il 30 novembre, festa di sant’Andrea. Secondo la tradizione è l’inizio dell’inverno. È anche il giorno in cui si chiudono i conti: ognuno restituisce ciò che ha preso e riprende ciò che ha dato. L’anno sta finendo, si comincia a pensare al futuro, ma intanto le giornate sono sempre più fredde e assediate dall’oscurità. Nel pomeriggio raggiungo la mia solita piazzetta, nel quartiere delle Semine a Bellinzona. Mi siedo su una panchina e mi metto a pensare al futuro. La piazzetta è vuota, la fontana muta, i cespugli sfioriti. Passano due ragazzi con un barboncino al guinzaglio. Il barboncino ha un cappotto nero. L’ultimo sole sta pennellando la cima delle montagne. Be’, insomma, che cos’è il futuro? Quando comincia, esattamente?
Ricordo che nel mese di luglio me ne stavo seduto su questa stessa panchina. C’erano pensionati in canottiera, adolescenti abbronzati, un ubriacone che teneva la birra in fresco nella fontana. Dal Mc Donald’s veniva un odore di fritto, mentre le auto in coda al semaforo, scintillanti sotto il sole, mettevano caldo solo a guardarle. E io già pensavo al futuro, e il futuro era questa piazzetta nel mese di novembre. Per essere precisi: la neve sulle montagne, l’aria pungente, l’arancione dei cachi sui rami spogli. Ed eccomi qui. Ora che mi trovo nel futuro, come immaginare la piazzetta di luglio? È diventata passato oppure diventerà altro futuro? È una di quelle situazioni in cui i pensieri si mordono la coda. Cose che succedono d’autunno, nelle piazze vuote. Il mondo è sospeso fra un prima e un dopo che si confondono, tanto che il dopo potrebbe venire prima e io, muovendomi verso la mia morte, potrei tornare in qualche modo alla mia infanzia, come un salmone che sale verso lontani ruscelli dimenticati.
Alzo il bavero della giacca e leggo I racconti di Nick Adams di Ernest Hemingway. Aveva paura di guardare Marjorie. Poi la guardò. Seduta gli voltava la schiena. Guardò la schiena di Marjorie: «Proprio non è divertente» disse. «Nemmeno un po’.» Lei non disse niente. Egli continuò. «Mi pare come se tutto dentro di me fosse andato al diavolo. Non so, Marge. Non so proprio cosa dire.» Continuò a fissare la schiena di lei. Chiese Marjorie: «Non è divertente l’amore?» «No» disse Nick.
Il ritmo inesorabile della prosa di Hemingway sostituisce le chiacchiere dei pensionati, che oggi sono rimasti al caldo. È uno strano libro, in cui si percepisce una tenerezza verso le cose semplici, un desiderio di essere fedele alla vita. Nello stesso tempo, c’è da combattere contro il buio che, all’inizio, si presenta in maniera ingannevole, travestito da nostalgia per il passato o da incertezza per il futuro. Il protagonista combatte come sempre fanno gli eroi di Hemingway: se ne sta ancorato al qui e ora, cercando di fare nel miglior modo possibile ciò che deve fare. Make your job, che si tratti di pescare nei ruscelli del Michigan o di sopravvivere alla guerra o ancora di scrivere come Cézanne dipingeva.
Vicino alla piazzetta c’è un camper parcheggiato senza targhe, in attesa che torni la bella stagione. Sul retro ci sono due adesivi con le scritte Sun Living e Vivere viaggiando. Visto che non c’è nessuno, lascio Hemingway e ne approfitto per fare un filmato, girando intorno alla fontana. Due ragazzine mi osservano sconcertate. Quando mi avvicino, si voltano e scappano di corsa. Io scatto una foto a un albero di cachi. Da lontano sento una delle ragazzine che dice all’amica: Ma non può, Ali, è casa nostra! Andiamo a dirlo alla mia mamma! Prima di che qualcuno mi denunci, torno a sedermi e cambio paesaggio. Mark Twain, Huck Finn, Tom Sawyer e La Salle si affollarono disordinatamente nella testa di Nick che guardava la scura e liscia distesa d’acqua lentamente in moto. Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice.

Non dovrei essere qui. Un uomo avvolto in un giaccone, solo con un libro nella piazza deserta, sorpreso nell’atto di fotografare cachi e di navigare sul Mississippi. Non dovrei essere qui. Perché butto via il tempo? Dovrei lavorare o andare a correre o pensare ai regali di Natale, o fare qualunque cosa ragionevole che mi permetta poi di lamentarmi per lo stress. Oh, vorrei essere stressato. Se fossi stressato, tutto sarebbe più semplice. Di certo non cadrei nella trappola della piazzetta e non confonderei il passato e il futuro.
Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice. La felicità nei racconti di Hemingway è così pura da essere straziante, anche perché dura solo il tempo di pulire le trote. O di finire la pagina.
Cézanne cominciò con tutti i trucchi. Poi demolì tutto e costruì la cosa vera. Fu tremendo da fare. Fu lui il più grande. Il più grande d’ogni tempo e per sempre. Non era un culto il suo. Era che Nick voleva scrivere della campagna per riuscire a essere quello che Cézanne era stato in pittura. Bisognava farlo dall’interno di sé stessi. Non c’erano trucchi. Nessuno aveva scritto mai così della campagna. Nick provava quasi un sentimento religioso a questo riguardo, faceva terribilmente sul serio. Si poteva riuscire a saperlo tirar fuori di prepotenza. Riuscire a vivere giusto con gli occhi.
Il vento solleva un mucchio di foglie secche. Capisco che, anche volendo scrivere di una semplice piazzetta, bisogna proprio farlo dall’interno di sé stessi. Bisogna scrivere le parole in fila, per bene: il vento solleva un mucchio di foglie secche. Bisogna essere qui e demolire tutto per costruire la cosa vera. C’è modo e modo di scrivere del vento. C’è modo e modo di guardare una piazza vuota, o di esserne guardati. Apro il taccuino: vento, annoto, e foglie secche. Poi, tra parentesi: gialle, rosse. Ci sono dettagli che vanno coordinati fra di loro: una piuma di uccello sul vialetto, il rosso stinto di una bandiera svizzera sopravvissuta all’estate, la mezzaluna che affiora nel cielo. È giusto dire che la mezzaluna affiora? Potrei scrivere appare, ma sarebbe impreciso (non è un’apparizione, è un lento emergere dall’invisibile). Spunta non avrebbe senso. Fa capolino sarebbe tragico. No, lasciamola affiorare.
Tornando a casa, passo da una via dove le macchine devono andare a trenta all’ora, zigzagando tra vasi di cemento. I pedoni invece possono viaggiare alla velocità che preferiscono. Io cammino adagio, con le mani in tasca. Il sole si riflette su un cartello, creando un effetto di arcobaleno. Una scritta ammonisce gli automobilisti, ricordando loro che è proibito parcheggiare fuori dagli stalli demarcati.
Penso che in quelle quattro parole, così lividamente efficaci, si celi tutto quello che volevo dire oggi. Il passato, il futuro, il presente sono diversi quando cambi prospettiva, quando osservi stando fuori dagli stalli demarcati. È anche l’unico modo per scrivere davvero senza trucchi. Prima devi trovare uno stallo demarcato (qualunque cosa sia), devi girarci intorno, entrarci dentro, farci amicizia. Poi devi uscirne. E soltanto allora, forse, potrai dire davvero che il vento solleva un mucchio di foglie secche. Un mucchio di foglie gialle e rosse.

PS: The Nick Adam’s Stories, che uscì postumo nel 1972, è una serie cronologica di racconti scritti negli anni Venti e Trenta. Il libro posato sulla panchina è l’edizione Mondadori del 1972 (traduzione di Giuseppe Trevisani). Ernest Hemingway (1899-1961) appare qui sopra in due fotografie: la prima lo ritrae all’ospedale della Croce Rossa, in via Manzoni 10 a Milano (luglio 1918), la seconda nel Michigan durante la giovinezza. Le immagini sono tratte da Hemingway. Le parole, le immagini (Mondadori 1994). Nella quarta di copertina, c’è questa frase dello stesso Hemingway: Voglio continuare a scrivere il meglio e il più sinceramente che posso finché morirò. E spero di non morire mai.

PPS: Oltre che nel mese di luglio, mi sono seduto nella piazzetta anche in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, agosto, settembre, ottobre.

 

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Cacciavite a stella

IMG_0286Sono tornato alla mia piazzetta senza nome. Si trova a Bellinzona, fra via Raggi e via Borromini (dietro la fermata del bus Semine). Il mio impegno: passare ogni mese un pomeriggio in questo piccolo slargo circolare, in compagnia di un libro e di un taccuino. Me ne sto seduto su una panchina, ascolto, guardo, mi arrendo alle cose che succedono. La mia attitudine non è quella di un antropologo e tanto meno quella di un giornalista che voglia fare un reportage. Il mio desiderio è semplicemente appartenere a questa piazzetta, a questa umanità, anche solo per mezz’ora. Sono qui, sferzato dal vento, e di fronte a me c’è il solito circolo di signori anziani che commentano l’equilibrio del mondo. Specialmente in un giorno come questo, l’equilibrio è precario: Bisogna fare passi piccoli, dice uno dei pensionati a un secondo che sta per tornare a casa. Un terzo aggiunge: Cammina piano, se ti prende il vento ti butta sulla strada! Ma il vecchietto è sicuro di sé: alza il pollice, sorride, si calca il berretto sulla testa e si avvia controvento.
IMG_0289Nell’aria pulita i colori sono più squillanti: il rosso e il giallo delle aiuole; il verde e il bruno delle montagne; piccoli ciuffi di fiori bianchi davanti al rosso, al verde, all’arancione del semaforo; il giallo luminoso dell’autopostale; la giacca rossa di uno dei pensionati; il fucsia di un ciclista che traversa la piazza come un’apparizione. In questa armonia variopinta, solo il vento canta fuori dal coro: arrivano raffiche forti, che portano freddo sotto i vestiti, scompigliano i capelli, muovono i rami degli alberi più alti e disegnano ombre scure, inquiete, come fantasmi usciti per sbaglio sotto il sole.
IMG_0285Sto leggendo Il passaggio, di Michael Connelly. La Los Angeles del detective Harry Bosch è assai diversa dalla mia piazzetta, ma dopo qualche pagina sembra farsi più vicina, forse per via del vento che fa immaginare spazi più vasti, forse per il popolo di fantasmi che affolla il pomeriggio. Il detective Bosch, mandato prematuramente in pensione, impiega il tempo riparando una vecchia Harley-Davidson che da anni ammuffiva nel suo garage. Mentre lavora, con un cacciavite a stella in mano, ascolta musica jazz dallo stereo: Naima, eseguita dal John Handy Quintet, l’ode a John Coltrane scritta da Handy nel 1967. Non ho mai sentito il pezzo di Handy, ma conosco Naima, di Coltrane, e la dolcezza di quel canto, il suono limpido di quel sax mi evocano altri fantasmi ancora.

I vecchietti discutono di una partita di calcio. Il vento soffia via le frasi: riesco a cogliere solo qualche parola. Passa un’automobile, rallenta, si abbassa il finestrino. Appare il volto di un altro habitué della piazzetta, uno con la faccia rotonda e un paio di baffi folti color argento. Grida: A lavorare! Poi spalanca un sorriso sotto i baffi e se ne riparte tutto contento. Le ombre continuano ad agitarsi. Dall’altra parte della strada, in un giardino, rotolano sedie bianche; accanto c’è la pubblicità di un Luna Park. Mi alzo e mi avvicino alla fontana. Finalmente hanno avviato l’acqua: qualche passero si ferma a bere un sorso, un piccione si fa un rapido bagno nel canale di scolo. Arriva una raffica più forte delle altre. Sento il toc di una pigna che cade, mi volto e la vedo lì, al centro di una chiazza di sole. Intorno le ombre danzano sempre più frenetiche.
IMG_0288Faccio una telefonata, poi torno sulla panchina e riprendo a rimontare il carburatore della Harley-Davidson insieme a Bosch. Mi piace l’abilità con cui maneggia il cacciavite a stella: in fondo è quello che fa anche Connelly, è quello che facciamo tutti, quando raccontiamo una storia. Si tratta di allentare viti, di sostituirne altre, di prestare attenzione a ogni gesto: Se non avesse posato correttamente una guarnizione, non avesse pulito a sufficienza lo spruzzatore o avesse sbagliato una qualsiasi delle infinite operazioni da compiere durante il rimontaggio, tutto il suo sforzo non sarebbe servito a niente.
IMG_0287Certo, il cacciavite a stella aiuta; ma quando si destano i fantasmi ci vuole altro. Harry Bosch ne è perfettamente consapevole: il vero pericolo non è avvitare qualcosa di sbagliato, ma ignorare le ombre che abbiamo dentro, perdere quella sensibilità che ci rende in grado di fare bene il nostro mestiere. Bosch sa che il suo lavoro non è occuparsi di motori. Infatti, qualche pagina dopo, eccolo nella camera di uno squallido motel a ore, dove alcune settimane prima è stato commesso un omicidio. A che serve vedere quella stanza, quando ormai tutto è stato ripulito? Qualcuno glielo chiede: Quello che volevo sapere è cosa ci fai lì. Bosch risponde: Il mio lavoro. Controllo. Osservo. Penso. Sono a caccia di fantasmi.
IMG_0293Dalla piazzetta passano anche i bevitori solitari. Si siedono, aprono una birra, si fumano una sigaretta. Sul vialetto invece sfrecciano ragazzine con lo skate e ciondolano adolescenti alti, cresciuti tutti in un colpo. Mio padre deve sborsarmi duecento franchi, dice uno di loro, masticando patatine. Una ragazzina dai capelli ricci gli chiede: Posso una? Cosa, domanda il ragazzo. Una patatina, posso? Il ragazzo aggrotta le sopracciglia: Si chiamano “Pringles”. La ragazza afferra quattro o cinque patatine, poi, con voce saputa: È lo stesso, “Pringles” in inglese vuol dire patatine.
IMG_0295Più tardi, la stessa ragazza si siede con un’amica sulla panchina accanto alla mia. I capelli ricci si gonfiano nel vento, come se anche loro fossero pieni di fantasmi. L’amica chiede alla ragazza riccia se abbia una migliore amica. Devi averne una, insiste. Ma la riccia si fa pregare. Allora l’amica comincia una litania: Potresti scegliere la Sharon? No. La Xenia? No. La Iris? No. La Jenny? No. Io? No. L’Amanda? No. Ma allora chi scegli? Oh, basta, tanto una migliore amica ce l’ho già, è la Sheila. L’altra tace. La Sheila? La riccia annuisce e l’amica alza le spalle, come per dire: be’, se sei contenta tu. IMG_0294I fantasmi delle mancate migliori amiche si uniscono agli altri movimenti segreti che percorrono la piazzetta. Rifletto sull’eleganza con cui la ragazzina, nella sua lista di proposte, abbia infilato anche lei stessa, ma senza mettersi in risalto, con discrezione, camuffata tra una Jenny e un’Amanda.
A pochi passi, tra i rami di un grande albero, scorgo una casetta di legno. Il vento impazza, ma la struttura sembra solida. Continuo a fissare la capanna. In un giorno come questo sembra impossibile, ma ho la sensazione che lassù possa esserci qualcuno. Arriva una mamma che spinge in fretta una carrozzina. Il bambino è di malumore: dopo un tentativo di merenda fallito, la mamma riparte. Guardo di nuovo la casetta, sull’albero davanti me. Chi potrebbe mai stare lassù, mi domando. Chi può essere?

PS: John Coltrane incise per la prima volta Naima (dal nome di sua moglie) il 2 dicembre del 1959, a New York (il brano si trova in Giant Steps, Atlantic 1960). Lo stesso Coltrane propose parecchie versioni di questo pezzo, che ha una melodia serena e intrisa di spiritualità. La versione citata da Connelly (Naima, in memory of John Coltrane) è un omaggio del saxofonista John Handy, registrato al Village Gate di New York il 28 giugno 1967, poco prima della morte di Coltrane (avvenuta il 31 luglio del 1967, a quarantun anni). L’album si chiama New View (Columbia 1967). Secondo Harry Bosch il sax ha un suono magico e si tratta di una delle migliori esecuzioni dal vivo mai registrate.

PPS: Il romanzo di Connelly in originale s’intitola The Crossing, ed è stato pubblicato nel 2015. La traduzione italiana di Mariagiulia Castagnone è uscita quest’anno per l’editore Piemme.

PPPS: Ecco gli altri articoli sulla piazzetta: gennaio, febbraio e marzo.

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Il senso del pallone

Nel 1962 il giornalista britannico Anthony Smith ebbe l’idea di sorvolare l’Africa su una mongolfiera. Nella prima tratta, fra Zanzibar e il continente, Smith sentì qualcosa che non aveva mai sentito prima: la voce del mare. Nuotando, navigando o stando sulla riva, è impossibile udirla senza interferenze; per ascoltarla davvero, bisogna stare appesi a un pallone, più leggeri dell’aria, pochi metri sopra la distesa delle acque. L’impressione, annota Smith, non è quella di essere spinti dal vento, ma di essere parte del vento. A volte, nella vita e nella scrittura, è utile partecipare al vento: stare sospesi sopra le cose, silenziosi, attenti ai suoni segreti del mondo.
IMG_4652Ho cominciato a leggere Due manciate di sabbia per caso, incuriosito dal titolo. Pubblicato nel 1963 dalla De Agostini, appartiene alla stessa collana che mi ha regalato la parola “kiringa” (ecco qui l’articolo sul blog). Lo spunto per il viaggio reale venne da un viaggio fantastico: nel 1962 si festeggiavano i cento anni del romanzo Cinque settimane in pallone di Jules Verne. Naturalmente, nella realtà tutto era più complicato: per cominciare, Smith non aveva né un pallone, né il brevetto per pilotarlo. Ma era un uomo cocciuto. E si era innamorato del sogno di sorvolare la savana per sorprendere, nel silenzio, la vita vera degli animali africani. Dopo infiniti labirinti burocratici, viaggi di formazione, ricerche di fondi, lezioni pratiche e teoriche, bollettini meteorologici capricciosi e mille altri ostacoli, finalmente Smith partì, insieme a qualche compagno.
Nel frattempo, oltre al brevetto di volo ottenuto in fretta e furia, tentava di acquisire quello che nel libro chiama il senso del pallone. In effetti, era importante comprendere che l’oggetto nel suo insieme pesava almeno tre quarti di tonnellata e che tutto quel peso si muoveva nella densità dell’aria. Poche manciate di sabbia erano più che sufficienti ad alterare l’equilibrio delle cose, ma occorreva un certo tempo perché si producesse il loro effetto.
Non è facile, pilotare una mongolfiera. Più che condurre, bisogna affidarsi alle decisioni del vento. Quanto all’atterraggio, non è propriamente dolce (anche perché non si sa mai dove si andrà a finire): non ho ancora avuto un atterraggio in pallone, scrive Smith, del quale abbia saputo poi quel che era successo.
FullSizeRender copia 5Questo articolo ha un titolo che, mentre è in corso il Campionato europeo di calcio, può trarre in inganno: qualcuno forse prima di leggere avrà pensato all’abilità di prenderli a pedate, i palloni, affinché si sollevino con la giusta traiettoria. Ma in fondo non siamo troppo lontani dalle manovre di Smith perché la mongolfiera vada nella direzione più opportuna, senza picchiare contro una montagna o finire dentro un lago di soda caustica (uno dei rischi narrati nel libro). I viaggi in mongolfiera sono un’alchimia fra calcolo e improvvisazione, e come tali rappresentano un’attività creativa, ricca di scoperte.
Il percorso africano di Smith e compagni conobbe momenti pericolosi e disavventure. Il fatto stesso di sollevarsi da terra causa un vago timore: capivo perché ci stavamo muovendo, eppure i miei sensi non riuscivano ad avvalorare questo convincimento. Il sapere che si viaggerà con il vento, farlo effettivamente e non sentire neanche un sussurro è poco rassicurante. Mi rendo conto che noi e il vento eravamo come una cosa sola, ma il fatto era difficilmente concepibile. Era anche difficile capire il potere dell’idrogeno. Mi rendevo conto del modo in cui le sue caratteristiche potessero essere usate per sollevare un pallone e sapevo che era assolutamente incolore e senza odore; ma ero in un certo qual modo impreparato a guardare dentro l’involucro contenente il gas, sopra di noi, per vedere quello che c’era dentro, dopo che la bocca era stata aperta, e non vedere niente. Quello che c’era dentro sembrava aria. Era invisibile. Non c’era.
IMG_4634Non si vedeva niente, ma il pallone volava. Jambo, come lo battezzarono appena giunti sul continente africano, avanzava partecipando al vento. Era silenzioso mentre da sotto venivano i rumori del mondo. Quando si è sulla terra, tutti i rumori tendono a venire da un solo livello e perciò si confondono nelle nostre orecchie. Su in aria, arrivando attraverso una serie di livelli diversi, i suoni sono più distinti, certamente più udibili e generalmente identificabili con la loro fonte. Ogni guaito di cane, ogni grido, ogni ronzio di motore spiccano con precisione. Normalmente, all’aria aperta, le nostre orecchie sono un po’ assordite dal vento che le sfiora. Anche nelle notti più calme c’è sempre una brezza; ma un pallone cammina tanto d’accordo col vento che un intero mondo di suoni si schiude all’aeronauta.
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Mi ha stupito, a parte lo stile brillante di Smith, questo prodigioso sollevarsi dai pesi della terra, che consente una migliore percezione del mondo. Si afferrano suoni a cui prima non si badava, si vedono le cose dall’alto ma nello stesso tempo si è parte integrante del paesaggio. Tutto, spiega Smith, appare diverso. Anche il mare colpisce, perché è una novità, una cosa rumorosa e infuriata. Così come stupisce il movimento: volare con il vento fa sì che non si sente il vento. Non è come veleggiare. Non è come planare. È un’esperienza del tutto diversa. Si è presi dal vento a una velocità che gli aggrada, senza che per questo venga scompigliato un solo capello. Insomma: si è immersi nella realtà e nello stesso tempo la si osserva da fuori. Come scrittore, ciò mi fa riflettere. Ho sempre pensato che questo esserci-senza-esserci, questa partecipazione contemplativa sia indispensabile per riuscire a scrivere con efficacia. Partecipare al vento, viaggiare immobili nel silenzio, adeguarsi ai cambiamenti climatici significa imparare a guardare, ad ascoltare ciò che abbiamo intorno; ed è fondamentale perché l’esperienza – anche minuta, anche impalpabile – possa diventare narrazione. Mi riconosco nel simbolo della mongolfiera: nella sua lentezza, nella sua inquietudine, nel suo uscire dalle rotte stabilite per reagire agli imprevisti. Tutto questo mi aiuta a cogliere l’importanza dei dettagli. Come cantava Gianmaria Testa: lasciano tracce impercettibili le traiettorie delle mongolfiere.

Anthony Smith e i suoi compagni volarono da Zanzibar fino alle pianure del continente. Esplorarono il cratere di Ngorongoro, lasciarono che Jambo vagasse sopra la natura favolosa del Serengeti National Park. Il viaggio si concluse bene, fra mille peripezie, lasciando a Smith un gran desiderio di altre avventure. Di lì a qualche anno infatti fu il primo cittadino britannico a sorvolare le Alpi.
FullSizeRender copia 2  FullSizeRender copia 4E noi? Noi che in mongolfiera non ci andiamo, noi che seguiamo le traiettorie da terra? Anche noi possiamo partecipare allo stupore, alla leggerezza, e possiamo allenarci ad ascoltare il mondo come se non l’avessimo mai udito prima. Anche noi, con gli occhi controvento al cielo, abbiamo cercato e perso le tracce del loro volo dentro le nuvole del pomeriggio, nei pomeriggi delle città… ma chissà dove è incominciato tutto… chissà…

PS: Le ultime righe provengono dalla canzone “Le traiettorie delle mongolfiere”, registrata da Testa nel 1995 e pubblicata nell’album Montgolfières. Le altre citazioni sono tratte dall’edizione italiana del volume di Anthony Smith, il cui titolo originale è Throw out two hands. Fra l’altro, Smith non si limitò ai viaggi in pallone: nato nel 1926 e morto nel 2014, fu giornalista, scrittore, navigatore, amante delle imprese. Nel 2011, per esempio, all’età di 85 anni, compì una traversata atlantica su una zattera costruita con i tubi per il gas. Insieme a lui c’erano tre compagni di viaggio, anche loro in età da pensione. Smith infatti aveva fatto pubblicare questo annuncio: Avete voglia di attraversare l’Atlantico? Famoso viaggiatore cerca tre membri d’equipaggio. Devono essere anziani pensionati. Solo veri avventurieri. 
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