Terrain vague

Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma che cosa significa “scrittura creativa”? E tutti questi corsi, queste scuole, a che cosa servono? Spesso la domanda mi coglie impreparato e finisco per dare una risposta più teorica di quanto vorrei. Certo, ogni forma di scrittura in fondo è “creativa”, perciò il termine può sembrare quasi assurdo. Per giunta la pretesa d’insegnare un’attività artistica ha dei limiti evidenti: la tecnica può spingersi fino a un certo punto, ma poi la scrittura – come la musica, la pittura, il cinema – richiede un cammino di ricerca personale, allo scopo di favorire la maturazione negli anni di una propria voce, di un proprio stile.
In realtà non si tratta per me di un problema teorico, ma di un mestiere concreto. Da anni tengo laboratori nei licei o in altri contesti didattici, fra cui la Scuola Flannery O’Connor di Milano e la Scuola Yanez, che opera fra Italia e Svizzera. Con quale spirito, dunque, affronto il lavoro sui testi? Ci pensavo oggi mentre, fermo al semaforo, lasciavo che lo sguardo si perdesse in un terrain vague di fianco alla strada. È una fetta di prato incolto, con qualche vecchio albero da frutto e il ricordo di un sentiero nell’erba alta. Mi sono accorto di due cose. Primo, lasciare che gli occhi divaghino in quello spazio è per me un’abitudine, anche se finora l’avevo sempre fatto senza consapevolezza. Secondo, ho notato che il prato sta per andarsene. Sul terreno infatti sono comparse quelle che in Svizzera si chiamano modine: sono pali di legno o di metallo che, prima dell’avvio di un cantiere, disegnano nell’aria la forma che occuperà il futuro edificio.
Il terreno dunque è ancora incolto, ma ci vuole poco a immaginare il grande caseggiato che lo sostituirà. Comprendo che ciò significherà appartamenti, negozi, opportunità economiche. Ma è più forte di me: amo i terrains vagues e mi rattristo ogni volta che ne scompare uno. In italiano si chiamano spazi residuali, in inglese vacant land. Sono definiti dall’assenza, dalla mancanza di una funzione utile. Un terrain vague è un vuoto, un pezzo di natura dimenticato dentro la città, una svista geografica. La particolarità di questi frammenti è quella di avere un loro tempo, un loro ritmo segreto che non sempre si accorda a quello del contorno urbano. Ecco perché i terrains vagues mi fanno pensare alla “scrittura creativa”. Per me un laboratorio non ha solo lo scopo di aiutare uno scrittore a trovare la sua voce, né quello di fornire mezzi tecnici a chi voglia affinare gli strumenti del mestiere. I laboratori servono anche a controbilanciare un aspetto fondamentale della scrittura: la solitudine. È giusto che un autore conosca la solitudine, ma senza esagerare (altrimenti si rischia l’isolamento). È giusto che chi lavora con le parole approfondisca il valore del silenzio, ma sempre senza esagerare (altrimenti si rischia l’aridità). Nel laboratorio si approfondisce l’amore per la letteratura, come lettori prima che come autori. Il fatto di condividere un’esperienza non rende meno acuminato e solitario il lavoro di chi scrive, ma permette d’interrogarsi e di cogliere altri punti di vista.
La scrittura è come un terrain vague nel tessuto della quotidianità, uno spazio imprevisto, non riducibile a uno scopo immediato. Quando tengo un laboratorio, mi capita di avere intorno persone dai quindici agli ottant’anni (e anche oltre…), che fanno i mestieri più disparati e che vogliono scrivere per i motivi più differenti. Qualcuno vuole costruire racconti o romanzi, qualcun altro vuole raccontare di sé o tenere traccia dei suoi viaggi, altri ancora vogliono diventare lettori più attenti provando il gesto della scrittura. È come dedicarsi a uno strumento musicale: non tutti imparano a suonare il pianoforte per poi incidere un disco; spesso c’è soprattutto il desiderio di conoscere un nuovo tipo di linguaggio. Alla fine l’avvocato o il meccanico che frequenta un laboratorio non diventerà magari uno scrittore, ma è possibile (e auspicabile) che la passione per la letteratura lo aiuti a diventare un avvocato o un meccanico migliore.
Del resto anch’io prendo una lezione di saxofono una volta alla settimana, ma non ho certo intenzione di suonare in pubblico. Semplicemente, a volte uno sente l’esigenza di trovare un terrain vague. Allora occorre parcheggiare la macchina, allontanarsi dal traffico e oltrepassare il cancello chiuso.
Così ho fatto oggi. Ho scavalcato il recinto, ho superato una macchia di bambù e mi sono inoltrato nel vuoto. Le modine, da vicino, parevano dei totem. In mezzo al prato – benché si sentissero ancora le automobili – il vento e il fischio di un uccello mi hanno procurato una sensazione di silenzio, di lontananza dal mondo. È proprio a questo altrove, ho pensato, che approda chi si cimenta nella scrittura.


Ho raggiunto un albero da frutto, mi sono arrampicato sui rami più bassi e da lì ho contemplato il terrain vague. Mi sentivo come se guardassi verso il passato. Fra poco non ci saranno più né gli alberi né il vuoto; già ora, in mezzo ai rami, s’infila come un monito l’asta di metallo, a delimitare l’angolo di un muro o il vano di un garage. Passeranno gli anni e forse, in fila al semaforo, arriverò perfino a scordarmi che al posto del caseggiato c’era uno spazio incolto.
Ci sono tuttavia dei terrains vagues che, nella loro provvisorietà, hanno la capacità di restare. La lettura e la scrittura a ben vedere non servono a niente. La vita sembra fatta di cose ben più necessarie e giustificabili: cibo, contratti, amori, palestre, case, affari, figli, aperitivi, amicizie, vacanze… Insomma, perché scavalcare il cancello? Perché camminare nella terra di nessuno? La risposta non può essere teorica. Bisogna proprio andarci e sentire, sotto i nostri passi, il frusciare di quell’erbaccia inutile e preziosa.


PS: Qualche informazione per chi fosse interessato. Le lezioni della Scuola Flannery a Milano sono già in corso; ci si potrà iscrivere nuovamente all’inizio del 2018. La Scuola Yanez invece apre nuovi laboratori per l’autunno-inverno (trovate qui tutti i dettagli).

PPS: Ne approfitto per ringraziare le scuole e le associazioni che negli anni mi hanno chiamato per tenere lezioni o laboratori. Oltre a quelle che ho già menzionato, voglio citare anche Lalineascritta (Napoli). Il laboratorio fondato da Antonella Cilento festeggia i venticinque anni di attività: un traguardo importante e un segno di speranza per chi crede nella letteratura.

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E toseed tumasăd-t

Tra i Tuareg del Niger ogni ragazzo, al momento della pubertà, deve dimostrare il suo valore affrontando il rischio della solitudine nel deserto. Il giovane si allontana da solo, in groppa al suo cammello, per seguire le tracce di un altro cammello che è stato appositamente liberato tre giorni prima. Il suo compito è seguirne le tracce, ritrovarlo e riportarlo all’accampamento. La seconda parte della prova è ancora più difficile. Prima di potere indossare il turbante che vela il viso, segno di maturità, il ragazzo dovrà passare sette giorni da solo chiuso in una tenda. Per conto mio, credo che non riuscirei a ritrovare un cammello nel deserto; ma ho dei dubbi anche sulla mia capacità di affrontare l’isolamento della tenda.
I Tuareg conoscono tutti i pericoli della solitudine. Per la prima volta, da quando ogni mese torno alla mia anonima piazzetta, anch’io percepisco la minaccia dell’abbandono, la violenza della vita che brucia ogni cosa, come una tempesta di sabbia, e che si lascia indietro i suoi relitti. Non è un giorno afoso, ma il sole picchia. La fontana, al centro della piazza, è un’offerta di refrigerio. Si avvicinano vecchi che inumidiscono un fazzoletto e se lo portano alle labbra, ragazze che riempiono bottiglie di plastica, un cagnolino che ficca il muso nel canaletto di scolo. Mi siedo nella parte in ombra dell’unica panchina libera. Scatto due fotografie con il telefono, prendo un appunto sul taccuino e poi sfoglio il libro che mi sono portato dietro: Barbara Fiore, Tuareg (Quodlibet 2011).
Anche la piazzetta è un deserto. Forse non nell’accezione comune, ma di sicuro in senso etimologico: il latino deserere significa “abbandonare” (composto da de + serere, ‘legare’). L’umanità che approda qui in un pomeriggio d’agosto è per certi versi derelitta: pensionati con i calzoni lunghi e un cappello a proteggere la pelle bianca; un uomo in canottiera, seduto su una panchina esposta al sole; un ubriacone che tiene le birre al fresco nella fontana; una ragazzina magrissima che si siede, guarda a lungo il telefono e poi se ne va. Anch’io, con il mio libro e il mio taccuino, sento che i nodi si stanno sciogliendo e che dentro di me qualcosa rimane allo scoperto, sotto un sole che non perdona.
Un autobus rallenta davanti alla fermata, dove non aspetta nessuno. Nell’aria spiccano i colori delle aiuole e il verde profondo degli alberi. A qualche centinaio di metri c’è un Mc Donald’s, da cui giungono zaffate di odori: olio fritto, carne, insieme a qualcosa di dolciastro e imprecisato, a metà fra il ketchup e la ciambella glassata. Il perimetro rotondo della piazzetta aumenta l’impressione di essere fuori dal tempo. Ogni gesto pare una replica. Un bambino incespica verso la fontana, passa un uomo in bicicletta, i vecchietti si alzano e si siedono a turno sulla loro panchina, come se eseguissero movimenti stabiliti in precedenza: le prove generali di uno spettacolo destinato a non andare mai in scena.
Giorno dopo giorno l’estate si trascina in questo frammento di deserto, in cui ognuno fa quello che può per sopravvivere. Le lunghe ore luminose portano verso una serata calda, infinita, e domani tutto ricomincerà. Qualche vecchietto non sarà al suo posto, ma ne arriveranno altri, insieme ad altri ubriaconi, altri cani ansimanti, altre signore in abito lungo color fucsia. Qualcuno si accorgerà della differenza? Chi tiene nota di chi viene e di chi va? Dove si deposita questa vita minuscola, fatta di attese, di chiacchiere, di sguardi persi nel vuoto?
I pensionati stanno parlando di donne. Uno di loro esprime l’opinione che siano figlie del diavolo. Racconta una vicenda intricata di un suo conoscente, più volte divorziato e ora sposato con una brasiliana di trent’anni più giovane. Le donne sono più furbe degli uomini, esclama, ma io sono più furbo di loro: da cinquant’anni me le giro e rigiro! Alla sua destra, un uomo più anziano e più pallido si limita a guardarlo con la coda dell’occhio, sotto il suo cappello, e mormora a fior di labbra: Come no. Anche i pettegolezzi, tra il fruscio del traffico e quello della fontana, sembrano appartenere a un mondo remoto, fuori dal confine circolare.
Lîtni ägg Äouenzeg, un cantore tuareg nato nel 1856, compose nel 1886 un poema per un’amica che abitava nella valle d’Âoulien. Dalla lontananza di questa valle, mentre cavalca un cammello bianco, immagina di sentire il tormento dell’amore che cala su di lui e che lo consuma, bruciante come il vento d’estate. Nella piazzetta invece il vento porta odore di patatine fritte; e perciò, forse, questo deserto è ancora più insidioso. Ma come ogni deserto, potrebbe rivelare anche una promessa. Se uno sa resistere alle banalità sulle donne, alla crudeltà del tempo, all’angoscia della solitudine, forse alla fine otterrà – se non di essere più felice – almeno di conoscere meglio sé stesso.
Nel mio taccuino ho copiato un proverbio tuareg, scritto con i caratteri tifinagh (un antico alfabeto geometrico, usato da migliaia di anni dalle popolazioni nomadi). Provo lentamente a tracciarlo anche sul legno della panchina. Si pronuncia in questo modo: E toseed tumasăd-t. Significa: Diventa il luogo in cui sei arrivato. Ecco, per sopravvivere al deserto, forse bisogna essere parte del deserto, assecondarne i ritmi, la lentezza. Nel mio piccolo, provo a diventare parte di questa piazzetta fuori dal mondo. E provo a resistere.

PS: Le informazioni sulle prove dei giovani tuareg provengono dal libro di Barbara Fiori che ho citato sopra. Il canto di Lîtni ägg Äouenzeg è tratto da Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Il proverbio è tratto da Mohamad Ag Erless, Provèrbes et dictons touaregs (Géorama 2014). In realtà i caratteri tifinagh non prevedevano l’uso di vocali, ma oggi si tende a introdurle perché l’alfabeto possa venire impiegato con più scioltezza. Su questo argomento, consiglio di leggere Dominique Casajus, L’alphabet touareg. Historie d’un vieil alphabet africain (CNRS 2015).

PPS: La piazzetta si trova a Bellinzona, nel Canton Ticino (Svizzera), tra via Raggi e via Borromini, dietro la fermata dell’’autobus “Semine”. Per leggere le altre puntate della serie, cliccate qui: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio.

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Oettinger

L’uomo con la camicia variopinta se ne sta da solo. Intorno a lui, nella piazzetta senza nome a sud di Bellinzona, si formano crocchi, si scambiano pareri sull’imminente temporale. L’uomo con la camicia variopinta ogni tanto si avvicina a un gruppo, ma senza interloquire con nessuno. Ha un paio di occhiali scuri e i capelli lisciati indietro con il gel. In mano stringe una lattina da mezzo litro di birra Oettinger. Quando arrivo alla piazzetta, all’incrocio tra via Raggi e via Borromini, noto che c’è fermento. Pare che pochi minuti prima un ubriaco abbia dato in escandescenze alla fermata dell’autobus. Il conducente l’ha tenuto a bada come poteva, poi l’ubriaco si è disteso sulla strada. Mentre i vecchietti sulla panchina commentano l’accaduto, passa un’ambulanza con le sirene spiegate. Dove lo porteranno?, domanda uno. Lo fanno dormire, assicura quello seduto al centro della panchina, lo fanno dormire finché starà bene. Un terzo è scettico: Con questo caldo? Ma quello seduto al centro assicura che dove lo porteranno ci sarà l’aria condizionata.
Nel frattempo l’uomo con la camicia variopinta si accosta alla fontana e si lava le mani, fissando nel vuoto. I pensionati continuano a chiacchierare. Uno di loro indossa una maglietta rossa con la scritta Giovane da cent’anni. Quello al centro della panchina, che sembra il più anziano, fa una battuta. Un vecchietto magro, a torso nudo, scoppia a ridere e picchia il piede per terra. Parole sante, ripete, parole sante.
Mi siedo sulla mia solita panchina e apro un libro che mi hanno regalato qualche tempo fa: Tom Chatfield, Come sopravvivere nell’era digitale (Guanda 2013). Non so se considerare il dono un’implicita esortazione a imparare come funzionano le nuove tecnologie (o almeno a sbarcare su WhatsApp o Instagram). La natura della tecnologia digitale – spiega l’autore nell’introduzione – è proteiforme quanto la nostra e può assumere molti ruoli nella nostra vita: un aiuto, un amico, un seduttore, un conforto, una prigione. In ultima analisi, però, tutti i suoi mutevoli schemi sono anche specchi in cui abbiamo l’opportunità di vedere noi stessi e gli altri come mai prima d’ora. Mi stupisce che manchi un paragone che mi pare evidente: la realtà digitale può essere anche una piazza, dove parlare con amici e sconosciuti o dove rimanere in disparte con in mano una Oettinger. Mi sembra un po’ esagerato il come mai prima d’ora; in fondo anche la mia piazzetta, nel suo piccolo, consente di vedere noi stessi e gli altri. Ma è chiaro che l’immensità del fenomeno può far girare la testa: Ormai ci sono più pagine sul web, annota Chatfield, che stelle nella nostra galassia. Capisco che l’autore lo definisca un gorgo vertiginoso, e a volte profondamente inquietante. Ma lo stesso si potrebbe dire di me o di qualunque altra persona che in questo pomeriggio di luglio si trova qui, intorno a questa fontana a forma di barile. Se la tecnologia è inquietante, lo è nella misura in cui gli esseri umani sono e resteranno sempre creature enigmatiche.
Sarà per il caldo, sarà per il nervosismo dovuto all’episodio dell’ubriaco, ma fra due vecchietti scoppia una lite. I toni si fanno roventi. Uno minaccia di andare a casa e di tornare con un coltello, l’altro gli risponde che in cantina conserva il fucile militare con dodici colpi. Il primo se ne va, furibondo. L’altro resta per qualche minuto, ma è di malumore. Alla fine salta sul suo motorino e si allontana, pronunciando a mezza voce un saluto collettivo al quale non risponde nessuno. Dall’altra parte ci sono tre persone che s’ignorano a vicenda: il primo sta in piedi, con la borsa a tracolla; il secondo siede con le gambe accavallate; il terzo, all’angolo della panchina, fin dal mio arrivo sta scrutando lo schermo del cellulare, senza mai alzare gli occhi. Fra di loro passa come uno spettro l’uomo con la camicia variopinta. Raggiunge una panchina vuota, si siede, allunga un braccio sullo schienale e si accende una sigaretta.
Oltre la metà degli abitanti della Terra sono contattabili dal resto del mondo, in maniera quasi permanente, attraverso qualche forma di connessione digitale “live”. Penso per contrasto alle forme di comunicazione più antiche e indecifrabili. Le scritte sulla panchina di legno (incise da chi, rivolte a chi, lette da chi?); il cicaleccio dei pensionati, memoria storica ma labile di un quartiere periferico; l’andirivieni delle formiche sulla corteccia degli alberi. Annoto sul taccuino le parole dei vecchietti e i segni sulla panchina. Poi provo a scattare una fotografia della corteccia ma, sebbene ci sia un gran viavai, nell’immagine mi sembra di non scorgere nemmeno una singola formica.
Una donna cammina lentamente, carica di borse della spesa. Nel cielo si addensano nuvoloni scuri e uno dei pensionati si rallegra di non essere venuto in bicicletta. Quello seduto al centro è scettico: Anche ieri doveva venire il temporale e poi non è venuto. Le nuvole creano una cappa, non si respira. Per l’uva, dice quello seduto a sinistra, questo caldo qui ci vorrebbe a settembre, mica adesso. Intanto, l’uomo con la camicia variopinta ha finito la sua birra e si è spostato accanto a me. A lungo osserva le automobili che passano lungo la via, mentre io torno a leggere. Eppure, è chiaro più che mai che nella nostra vita abbiamo bisogno anche di un po’ di tempo per pensare senza distrazioni, interruzioni o reazioni immediate, sia pure da parte delle persone di cui ci importa di più. Sono già le sei. È sempre più caldo. Guardo la fontana e poi in alto, verso le nuvole. Penso che in fin dei conti potrei andare anch’io a comprarmi una lattina di Oettinger, prima del temporale.

PS: Ogni mese torno nell’anonima piazzetta. Mi siedo, osservo, ascolto. Poi cerco di annotare tutto quello che succede. Ecco le puntate precedenti: gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno.

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I lampi della magnolia

IMG_0096Ogni tanto bisognerebbe prendersi il tempo di sedersi al ciglio di una statua. L’esperienza comporta qualche rischio, ma è senz’altro proficua. Quando mi fermo su una panchina o sopra un muretto ai bordi di una piazza, tutto è più semplice. Ai piedi di una statua, invece, sono costretto a fare i conti con una duplice realtà: le persone che si muovono e parlano intorno a me; la figura di bronzo che sta muta appena sopra di me. All’inizio pare una cosa inoffensiva ma poi, con il passare dei minuti, comincio a sentirmi preso in mezzo. La gente chiacchiera, mi restano appiccicati pezzi di conversazione: Le giornate diventano più lunghe; Ma se è stato lui a dirmi di farlo!; E c’è anche la cucina abitabile? Nel frattempo la statua tace, come sanno fare solo le statue, e quel silenzio mi rimane addosso, mi entra sotto la pelle.
IMG_0112Di recente ero di passaggio a Berna e ho scambiato due parole in silenzio con la statua di Adrian von Bubenberg in Hirschengrabenplatz. Mi sono seduto accanto a due ragazze che mangiavano insalata e granturco da piccoli contenitori di plastica. Davanti a me transitavano uomini e donne in bicicletta (con giubbotto catarifrangente), bambini al ritorno da scuola, tram dal colore rosso squillante. Adrian stendeva la sua mano su di me. In un primo tempo, intento nel trambusto della piazza, non mi sono accorto di niente. Poi mi è parso di capire che la statua mi stesse tacitamente dicendo qualcosa. Ho alzato lo sguardo.
ha detto Adrian.
Dopo un secondo di esitazione, gli ho risposto.

Allora lui ha sentito il bisogno di aggiungere:

Come non essere d’accordo? Abbiamo parlato ancora un po’.


IMG_0115In quel momento non avevo idea di chi fosse Adrian von Bubenberg. Sapevo soltanto che era nato nel 1424 e che era morto nel 1479. Sul fianco del monumento c’era una scritta: So lange in uns einer Ader lebt gibt keiner Nacht. Non so se l’ho capita: qualcosa sul sangue che scorre e tiene lontana la notte. Ma non c’è bisogno di conoscere una statua per parlarci insieme.
IMG_0111Questi attimi strappati al fluire di una giornata sono preziosi perché consentono di lanciare un’ancora. Il tempo come sempre porterà via la maggior parte dei gesti e dei pensieri, ma ciò che s’intuisce sedendo sotto una statua, chissà come, finisce per restare nel cuore un po’ più a lungo. Ero a Berna per incontrare Yari Bernasconi, con il quale avrei tenuto una conferenza all’Università di Friburgo, invitati dal professor Uberto Motta. Ci siamo seduti in un bar, a poca distanza dalla statua, e abbiamo lavorato alla costruzione di un percorso che, fra poesia e prosa, ci aiutasse a spiegare (prima di tutto a noi stessi) il nostro lavoro di scrittori.
IMG_1603Più tardi, davanti agli studenti e agli insegnanti, abbiamo letto alcune poesie di Yari e alcune pagine dei miei romanzi, cercando di scovare qualche rintocco, qualche segno che avessimo lavorato sullo stesso terreno. Mi è sembrato che gli studenti cogliessero il tentativo di condividere aspetti e problemi concreti dei nostri laboratori personali. In particolare, il discorso è scivolato sulla scrittura come processo di conoscenza, come cammino verso una migliore comprensione di noi stessi e del mondo. Una ragazza ha alzato la mano e ci ha chiesto: Ma quando scrivete vi sentite a casa? Una domanda profonda, difficile. In parte ne ho già parlato qui sul blog, ma a Friburgo abbiamo avuto occasione di approfondire il discorso. Di certo scrivere, così come anche leggere, significa essere a casa, ma forse bisogna stare attenti a non sentirsi troppo a proprio agio: talvolta le case possono diventare trappole.
In compenso, può capitare di sentirsi a casa in luoghi inaspettati, in circostanze imprevedibili. Come scrittori, è difficile talvolta vestire di parole questi momenti; tuttavia riconoscere quei luoghi e quelle circostanze è già un atto poetico, nel senso esistenziale del termine. Sono epifanie minime, come quelle che ci regalano le statue. Durante la conferenza, abbiamo letto una lirica di Franco Fortini intitolata I lampi della magnolia.

Vorrei che i nostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d’acqua che si scalda.

La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l’olio della vernice, il ragno trotta.

Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.

Non è necessario trovare subito la voce (Diremo più tardi quello che deve essere detto), sebbene il tendere all’espressione sia in sé già un’espressione. In questo caso il lampo della magnolia è abitato dalla poesia, e diventa un momento da salvare, con la sua perfezione congiunta all’imperfetto.
IMG_0117Un paio di giorni dopo la conferenza, mentre di nuovo parlavo a un gruppo di studenti in un’aula scolastica (stavolta nella Svizzera italiana), dalla finestra mi ha di nuovo raggiunto il lampo di una magnolia. Allora mi è tornato in mente Adrian von Bubenberg. Sono andato sul sito dell’Archivio storico svizzero e ho scoperto che alla fine del XIX secolo ci fu un’aspra controversia in occasione della costruzione del monumento a Berna. Si discuteva se la statua dovesse raffigurarlo quale prode cavaliere o piuttosto quale uomo di Stato a piedi (versione infine realizzata, inaugurata nel 1897). Alla fine dunque venne scartata l’idea di una statua a cavallo, forse per una riflessione simile a quella che esprime Elias Canetti in un suo aforisma: Il più bel monumento equestre sarebbe un cavallo che avesse sbalzato l’uomo di sella. Adrian invece è ben saldo sulle sue gambe: sarà un uomo di stato, ma quella mazza chiodata in primo piano, sospesa com’era proprio sopra la mia testa, non mi sembrava un utensile adatto alle aule di un Parlamento (per quanto non si possa mai dire).
IMG_0114Nel sito dell’Archivio storico scopro anche che Adrian von Bubenberg nel 1455 si recò con una propria truppa a Digione per partecipare alla crociata contro i Turchi, guidata dal duca Filippo il Buono di Borgogna ma poi annullata. Se conosco appena un po’ l’indole nazionale elvetica, posso immaginare la stizza con cui Adrian avrà accolto l’improvviso annullamento della crociata (senza preavviso e senza clausola di rescissione). In generale il nostro Adrian ebbe una carriera politica turbolenta: a un certo punto cadde in disgrazia, ma poi fu chiamato alla difesa di Morat. Sotto la sua guida, la città resistette per dodici giorni all’assedio dei Borgognoni, che vennero infine sconfitti il 22 giugno 1476 nella battaglia di Morat. Questo successo riavviò la carriera politica di Adrian, che probabilmente si ringalluzzì. Infatti leggo che nel dicembre del 1478 guidò attraverso il San Gottardo la campagna bernese contro Bellinzona. Ecco, questa è una provocazione. Ma come, io mi siedo pacifico sotto il ciglio della sua statua, e Adrian guida una campagna contro la mia città? Mi riprometto di tornare a Berna, presto o tardi, per rimproverare quella faccia di bronzo. Tanto, una cosa sicura delle statue è che in genere le ritrovi dove le hai lasciate.
IMG_0097Un altro monumento con il quale ho conversato per qualche minuto si trova a Mosca, in un quartiere periferico. Ricordo che qualche anno fa venni invitato in occasione di un festival a presentare una traduzione in russo di un mio romanzo. Sulla via del ritorno, mi fermai a mangiare in un Burger King. E chi scopro là fuori, condannato dalla storia a fissare senza scampo proprio l’insegna del fast food? Vladimir Lenin. È proprio vero che, in questo mondo, non c’è pace nemmeno per le statue.

PS: La fotografia che vedete qui sopra è stata scattata dalla vetrina del Burger King moscovita. Quella del tavolo di lavoro ripreso dall’alto è di Yari Bernasconi. La lirica di Franco Fortini proviene da Paesaggio con serpente (Einaudi 1984). L’aforisma di Canetti è tratto da una raccolta di appunti presi dal 1942 al 1972, intitolata Die Provinz des Menschen (La provincia dell’uomo, Adelphi 1978). La voce dell’Archivio storico su Bubenberg risale al 1979 ed è firmata da K. F. Wälchli.

PPS: Proprio questa sera Yari Bernasconi e io riproporremo nella Svizzera italiana la conferenza che abbiamo tenuto a Friburgo: l’appuntamento è alle 20.30 nella Sala multiuso comunale di Magliaso. Adrian von Bubenberg non ci sarà; in compenso, non mancheranno le magnolie.

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Mio eroe

640px-Lekanis_Agamemnon_MNA_TarantoNei giorni scorsi ho parlato con un ragazzo di quindici anni che, con risultati per ora insoddisfacenti, sta tentando di superare il primo anno di liceo. Per passare la classe, mi diceva, dovrei essere un eroe. Mi ha colpito l’uso di questa parola. Eroe. Probabilmente è una delle più antiche dell’umanità: quale epoca, quale popolo non ha cantato le gesta dei suoi eroi? Qualcuno, come il drammaturgo Bertold Brecht, considera sventurati i popoli che hanno bisogno di eroi. Ma esiste un popolo che ne possa fare a meno? Certo, la parola nel corso dei secoli ha cambiato forma e colore: siamo passati dal valoroso Agamennone e dall’astuto Ulisse alle diverse follie di Orlando e Don Chisciotte, da Parsifal e Lancillotto fino all’uomo senza qualità di Robert Musil, da Tex Willer a Charlie Brown, da Robin Hood a tanti inetti della letteratura del Novecento, per arrivare agli attori, ai calciatori, ai politici, ai cuochi della tivù. 1018_oag_humphrey-bogart-CROP-1000x666E non sto a citare i supereroi, gli antieroi, i post-eroi che sempre più affollano il nostro immaginario. Che lavoro potrebbe fare oggi un eroe, un vero eroe senza macchia e senza paura? Aprirebbe un ufficio da detective, come Philip Marlowe, oppure si accontenterebbe di aprire un profilo su Facebook, per cambiare il mondo a colpi di post?
Nei romanzi fantasy gli eroi compiono ancora il loro dovere, come ai vecchi tempi. Ma prendiamo per esempio Aragorn, uno dei personaggi più amati del Signore degli anelli di Tolkien. Se vivesse nel nostro mondo, che mestiere potrebbe fare? Ne ho parlato con una lettrice esperta di Tolkien, che senza esitazione mi ha risposto: farebbe lo spazzino.
IMG_9255Secondo lo psicologo e studioso di mitologia Joseph Campbell, i nostri non sono più tempi per l’eroe celebrato dalla collettività; oggi l’eroe si rivela non nei momenti gloriosi delle grandi vittorie della sua tribù, ma nei silenzi della sua disperazione. Un modello di eroe moderno si trova in un racconto scritto da Graham Greene nel 1940, intitolato The news in english. Il protagonista è David Bishop, un professore britannico che, durante la seconda Guerra mondiale, tiene anonimamente alla radio tedesca trasmissioni filonaziste rivolte agli inglesi; in patria viene soprannominato “dottor Funkhole” (che sarebbe come dire “dottor vigliacco”). GreeneScrive Greene: La tragedia di questi tipi di uomini è che non sono mai soli al mondo. A Crowborough, davanti al focolare, la madre e la moglie di Bishop lo ascoltano reiterare le menzogne. La madre condanna il figlio e insiste per denunciarlo alle autorità. La moglie cerca di difenderlo, dice che di sicuro lo avranno costretto con la forza. La vecchia e la giovane signora Bishop discutono con veemenza. Ma non capisci cosa significa – esclama Mary Bishop – potrebbero processarlo per tradimento, se vinceremo. E subito la suocera puntualizza: quando vinceremo. Alla fine lo denunciano, e naturalmente i media si scatenano: Il massimo che un giornale avrebbe ammesso era che se c’erano state delle minacce Bishop se l’era cavata in modo poco eroico. Commenta Greene: Esaltiamo gli eroi come se fossero rari, ma siamo sempre pronti a biasimare il nostro prossimo per la mancanza di eroismo. La vecchia signora Bishop continua ad ascoltare il figlio ogni sera, e ogni sera infierisce sulla sua vigliaccheria. La giovane signora Bishop ha paura a uscire di casa.

A volte pensava quasi con odio: “Perché David mi ha fatto questo? Perché?”
Poi improvvisamente ebbe la sua risposta.
Per una volta la voce imboccò una direzione nuova. Disse:
«In qualche luogo in Inghilterra mia moglie forse mi sta ascoltando. Io sono un estraneo per tutti voi, ma lei sa che non ho l’abitudine di mentire».
Un appello personale era troppo. Mary Bishop aveva affrontato la suocera e i giornalisti, ma non poteva affrontare suo marito. Si mise a piangere, seduta vicina alla radio come una bambina accanto alla sua casa di bambola dentro alla quale è stato rotto qualcosa che nessuno può riparare.

IMG_9258A un certo punto, David pronuncia le parole «Sta di fatto che…»; poi comincia a elencare cifre e dati che mostrano quanto sia florida la Germania. Mary ha un sussulto; afferra una matita e annota qualche parola su un taccuino. Il giorno dopo riesce a ottenere un colloquio con un funzionario al Ministero della Guerra. Per farla breve, Mary si è accorta che il marito sta usando il loro codice segreto: «Quando era lontano da me e al telefono mi diceva “Sta di fatto che” intendeva sempre “Sono tutte bugie, ma trascrivi le iniziali delle parole che seguono”… Oh, colonnello, se sapesse da quanti spiacevoli fine settimana l’ho salvato… perché, vede, poteva sempre telefonarmi, anche davanti al suo ospite».
Gli esperti del Ministero si accorgono che la giovane signora Bishop ha ragione: suo marito fornisce informazioni preziose per gli Alleati. Le raccomandano di tacere, di mantenere il segreto: agli occhi del mondo, David Bishop deve rimanere il “dottor Funkhole”. Ogni sera, quando lo sente alla radio, Mary ha il terrore che suo marito non vada più in onda. Quel codice era un codice da bambini. Come avrebbero potuto non individuarlo? Ma fu proprio così. Uomini dalla mente complicata possono venire ingannati dalla semplicità. Il funzionario del Ministero esorta Mary a tenere duro: È un uomo coraggioso, signora Bishop.
DownCottageFinché, dopo quattro settimane, il governo si decide a fare un tentativo per salvare David: in fondo il codice funziona in entrambe le direzioni; gli inglesi hanno un notiziario trasmesso in Germania, e David potrebbe ascoltarlo. L’operazione sembra funzionare, tanto che viene organizzato un piano di recupero: David deve soltanto recarsi a una stazione sul Reno, non lontano da Wesel. Quella sera la vecchia signora Bishop chiede: «Non ascolti tuo marito?» E Mary: «Non trasmetterà». Molto presto avrebbe potuto affrontare trionfalmente la madre di lui e dire: «Ecco, lo avevo sempre saputo, mio marito è un eroe». Ma inesorabilmente, anche quella sera il “dottor Funkhole” è in onda. La vecchia signora Bishop sibila un «te l’avevo detto». Mary è disperata.
Vi trascrivo il finale del racconto.

Parlava tanto velocemente che lei quasi non riusciva a tenergli dietro con la matita. Le parole si raggruppavano sul suo taccuino: «Cinque sottomarini al rifornimento oggi mezzodì 53.23 per 10.5. Notizia fonte attendibile Wesel così tornato. Discorso non autorizzato. Fine.»
«Adesso mi ascoltate? Molto orzo germoglia là in estate» esitò. «Ancora dobbiamo dire in onestà che…» La voce si affievolì, cessò del tutto. Le vide sul suo taccuino: A mia moglie, addio c…
Fine, addio, fine. Le parole rintoccavano come campane a morto. Si mise a piangere, seduta come aveva fatto in precedenza, attaccata all’apparecchio radio. La vecchia signora Bishop disse con una sorta di piacere: «Non sarebbe mai dovuto nascere. Io non l’ho mai voluto. Vigliacco» e a questo punto Mary Bishop non poté sopportare oltre.
«Oh», gridò alla suocera all’altro capo della stanzetta di Crowborough, surriscaldata e troppo ingombra di mobili «almeno fosse un vigliacco, almeno lo fosse. Ma è un eroe, che sia maledetto, un eroe, un eroe, un eroe…» continuò a gridare disperata, sentendo la stanza che le vorticava intorno, e immaginando confusamente dietro a tutto il dolore e all’orrore che anche lei, come altre donne, un giorno sarebbe stata orgogliosa.

È un eroismo segreto, sulle onde della radio, siglato da un ultimo, commovente addio. Nel racconto di Greene l’eroe non è più il guerriero che combatte a viso aperto, ma è un uomo solo in un mondo di nemici, ed è considerato un vigliacco dalla sua stessa madre.
Gli eroi saltano fuori quando non te l’aspetti. Come abbiamo visto pure di recente, nel caso di una catastrofe naturale – un terremoto, una valanga – alcuni esseri umani sanno superare i confini delle leggi naturali e rischiano la loro vita per salvare degli sconosciuti. In questi casi, l’eroismo si rivela nella sua natura più profonda, che è un amore disinteressato per il prossimo: l’eroe si mette nella pelle degli altri, e sa dimenticare il proprio “io”, o meglio, sa tenderlo pienamente verso il “tu” che si trova di fronte.
8050_A3Ma nella nostra quotidianità? Senza catastrofi, senza guerre, senza circostanze eccezionali, come può Aragorn mostrare la sua natura eroica nella sua routine di spazzino? Forse ha ragione il ragazzo di prima liceo: l’eroismo è volere intensamente qualcosa e avere il coraggio di crederci, nonostante tutto. Secondo il filosofo Bruce Bégout l’uomo ordinario partecipa tutti i giorni a una certa forma di eroismo. Non si tratta semplicemente di assolvere ai propri doveri, ma di non lasciarsi uniformare dai multipli sistemi sociali che vogliono modellare il comportamento. La sfida non è compiere grandi gesti, ma avere il coraggio dell’imprevisto, della gratuità: preservare una sorta di flou nell’esistenza ordinaria, qualcosa di non impiegato e di non impiegabile, una frangia di esperienza indisponibile che non potrà mai essere messa al servizio della normalizzazione sociale. Sarà un piccolo gesto, niente in confronto a chi salva una vita o a chi sa rischiare la propria, come David Bishop. Ma nella vita di tutti i giorni, è bello avere il coraggio di sfuggire alla regola dell’utilità. Un gesto gratuito, una cortesia fuori luogo, un’attesa, un ascolto, una parola inaspettata… a volte basta poco per seminare briciole di eroismo.

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PS: Il racconto di Graham Greene (1904-91) venne pubblicato in The Last Word and other stories (Reinhardt Books, Londra 1990): la raccolta contiene racconti scritti dal 1923 al 1989. Tradotto da Masolino D’Amico, Notiziario in inglese si trova in L’ultima parola e altri racconti (Mondadori 2005) o in Tutti i racconti (Mondadori 2011). Le parole di Joseph Campbell provengono da The Hero with a Thousand Faces (2008); in italiano L’eroe dai mille volti (Lindau 2012). La citazione di Bruce Bégout è tratta da La découverte du quotidien (Allia, Parigi 2010), dove lo studioso analizza i rapporti, talvolta difficili, tra la filosofia e la quotidianità. Come dice lo stesso Bégout, per quanto si possa giudicare, non c’è assolutamente nulla in comune fra il libro Gamma della Metafisica di Aristotele e il fatto di comprare del pane dal proprio panettiere.

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PPS: La prima immagine, che ritrae Agamennone seduto su una roccia mentre sorregge uno scettro, risale al 410-400 a. C. e si trova al Museo archeologico di Taranto. La seconda raffigura Humphrey Bogart nei panni di Philip Marlowe, la terza Viggo Mortensen nel ruolo di Aragorn. La quarta è un ritratto di Graham Greene. Poi c’è la foto di una vecchia radio, quella di un cottage a Crowborough (scattata nel 1937), gli attrezzi del nuovo Aragorn, la copertina di un Tex, qualche pagnotta e una vignetta dei Peanuts di Charles Schulz.

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