As-Summan

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Novembre
Hanafuda: Salice / Poeta / Rondine
Luogo: as-Summan (لصمّان), Arabia Saudita
Coordinate: 23°40’19.6″N; 49°25’45.3″E
(Latitudine 23.67210; longitudine 49.42926)
La scrittura, così come la lettura, è un modo di allungare la strada. Se nella mia vita devo andare da un punto A a un punto B, come dicono i matematici, se devo affrontare qualsiasi esperienza, potrei scegliere la via più rapida, quella più efficiente. Il gesto di prendere un foglio e scrivere – o di aprire un libro e leggere – è una perdita di tempo, una sorta di espediente per vivere vite che non sono la mia. Eppure, quanta ricchezza in questa divagazione fra il punto A e l’inesorabile punto B.
Capita a volte di sorprendere una lentezza, una sospensione nascosta nelle cose ordinarie. Qualche giorno fa stavo tornando a casa lungo una strada che dal centro della mia città porta verso la collina. Faceva freddo, perciò la mia intenzione era quella di affrettarmi per arrivare il più presto possibile. Eppure, a un certo punto, mi sono fermato, e in pochi secondi mi sono accorto che stavo leggendo il mondo in maniera diversa. Mi sembrava di essere al centro di un mosaico, le cui tessere si disponevano con precisione. Poco più avanti passava un treno, orizzontalmente; di fianco a me scorrevano le automobili, verticalmente. Sulla sinistra, dietro la vetrata di una palestra, ragazzi con abiti colorati ripetevano lo stesso gesto; sulla destra, ingrossato dalla pioggia, scendeva un torrente. Ogni tessera aveva un suono o un silenzio: lo sferragliare del treno, il pigolare degli uccelli, il rombo delle automobili, il gorgoglìo del ruscello, le azioni mute dei ginnasti dietro la vetrata.


Prima la realtà sembrava una cosa sola, come se fosse un monolite. Dopo la mia sosta, invece, le singole tessere del mosaico spiccavano nel loro splendore. Ho cercato di riprodurre questa sensazione anche nel mio viaggio ad as-Summan, in Arabia Saudita. È stato più difficile, perché all’inizio percepivo soltanto il vuoto. Poi, passato qualche minuto, il vuoto è diventato qualcosa di ancora più lancinante: un’assenza, una privazione.
Stavo camminando sull’altopiano di as-Summan, che si estende per quattrocento chilometri a est di ad-Dahna. Procedendo verso nord, in direzione del Golfo Persico, dopo un centinaio di chilometri avrei incontrato una regione meno improba, intorno all’oasi di al-Aḥsāʾ, la più grande di tutto il paese, abitata fin dalla preistoria. Ma non era mia intenzione percorrere tutti quei chilometri: ero al volante di una vecchia Toyota e avevo bisogno di fare benzina. Il mio piano era quello di procedere fuori strada per circa quattro chilometri; poi avrei trovato una strada che in un’ora mi avrebbe portato fino alla città di Haradh, famosa per le installazioni petrolifere e del gas. Ma non è di tutto ciò che voglio parlare, né dell’atmosfera di Haradh, con le sue case piccole e bianche, raggruppate insieme, e intorno un immenso cantiere, un mostruoso pianeta di tubi, acciaio e cemento.
Quello che mi piacerebbe descrivere è proprio quel momento in cui mi sono fermato, ho girato lo sguardo intorno e non ho trovato niente. Nessun appiglio per gli occhi, nessuna tessera del mosaico. Mi è venuto un pensiero bizzarro: questa situazione è tanto diversa da quella che ho trovato lungo la strada che portava a casa mia? Che cosa si nasconde dietro l’asfalto, il ruscello, il vetro, i binari della ferrovia?
Il nulla è sempre a un passo da noi. Abbiamo costruito, nei secoli, nei millenni, abbiamo abitato la terra, l’abbiamo trasformata. Abbiamo il desiderio di lasciare un segno, ma fino a quando? Tuttavia, proprio nel profondo del deserto ho sentito che questo desiderio non è vano. Anche se il vento cancellerà ogni cosa, anche se il tempo macinerà le nostre opere, averle compiute non è privo di senso. Il bisogno della bellezza è inestirpabile nell’essere umano, così come la necessità di far fiorire i deserti, che siano geografici o esistenziali.
Guardo le carte di novembre. Il Salice è un invito ad accogliere quanto succede, a sapersi piegare, adattare, mentre il Poeta (o L’Uomo della Pioggia) è un invito a insistere, a non demordere nel seguire la propria esigenza espressiva. L’uomo si chiamava Ono no Michikaze (894-966), conosciuto anche con il nome di Ono no Tōfū. Fu lui il primo a dare i tratti distintivi alla calligrafia giapponese, distinguendola da quella cinese. Si racconta che un giorno, deluso e amareggiato per la mancanza di risultati nel suo lavoro, si soffermò a osservare una rana che tentava di saltare sopra il ramo di un salice: dopo sei balzi falliti, la rana riuscì infine nel suo obiettivo; e in quel momento Ono no Tōfū trovò la forza interiore per proseguire nella sua ricerca. Oggi il calligrafo è raffigurato su una carta da gioco, nello stesso mese in cui appare anche il Fulmine: l’imprevisto, l’azzardo, l’ignoto che, mentre porta scompiglio, può condurre verso una rivelazione.

HAIKU

L’eco di un fischio
indugia sopra i tetti –
L’ultima rondine.

PS: Ho inserito un frammento audio registrato proprio nel momento in cui vedevo comporsi le tessere del mosaico.

PPS: Questo è l’undicesimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugnoluglioagostosettembre e ottobre.

Condividi il post

L’incanto dell’avventura

Da bambino confondevo la vita con i romanzi di avventura. Il confine tra la realtà e l’immaginazione era sfumato: leggevo Salgari, Verne, Bonelli, mi avvolgevo nelle storie come in una coperta. E mi preparavo a navigare al largo di Capo Horn, a cavalcare nelle praterie, a venire allevato dai lupi o a difendermi dagli strangolatori thugs. Qualche anno dopo, visto che nessuno tentava di strangolarmi, cominciai a rendermi conto che la vita era una faccenda diversa. La mia quotidianità non prevedeva l’abilità nel maneggiare un kriss malese, né la capacità di usare l’astrolabio per tracciare una rotta nei mari del sud. Tutte le mie nozioni su come sopravvivere a un naufragio su un’isola deserta si rivelarono pressoché inutili per affrontare una giornata di scuola. Certo, i naufragi avvengono anche nella quotidianità, ma in maniera più insidiosa, più straziante. Mi resi conto che i romanzi potevano confortarmi nelle circostanze difficili. In un certo senso, il me stesso adolescente raggiunse la consapevolezza del me stesso bambino, in maniera un po’ più tortuosa. I romanzi d’avventura non sono slegati dalla vita, non consistono in una pura evasione. Come tutte le storie, sono un modo per rappresentare il mistero e le contraddizioni degli esseri umani.
Il suo stesso essere nel mondo è per ogni essere umano il miracolo e l’enigma davanti a cui si trova posto e che costituisce l’inquietudine della sua esistenza. Queste parole del filosofo Eugen Fink illustrano bene il concetto. È ingannevole considerare la vita quotidiana come stabile, assodata, sicura. Se i romanzi di avventura servissero anche solo a mantenere desta l’inquietudine, ci renderebbero un immenso servizio. Parlo naturalmente di un’inquietudine che ci spinga a muoverci, a conoscere – pur nel tormento – e non dell’angoscia paralizzante in cui purtroppo ogni inquietudine, talvolta, rischia di sfociare.
Ecco perché, quando apro un libro come Scaramouche, percepisco che sta parlando (anche) di me. È una vicenda di cappa e di spada ambientata nella Francia del XVIII secolo. Il protagonista André Moreau intraprende un cammino rischioso per vendicare la morte del suo migliore amico. Nel corso della narrazione, come accade sempre nelle buone storie, finirà per trovare altro rispetto a ciò che s’immaginava. Scaramouche affronta temi psicologici (il valore dell’amicizia e dei legami di famiglia), sociali (nel corso della vicenda scoppia la Rivoluzione francese) e filosofici (la personalità doppia, la ricerca d’identità). Ma la sua vera forza sta nel dinamismo, nella profonda vivacità dei personaggi. L’autore Rafael Sabatini nacque in Italia nel 1875 e morì in Svizzera nel 1950. Di padre italiano e madre inglese, poliglotta e viaggiatore, fu un cittadino britannico e scrisse sempre in inglese. Nel romanzo affiorano i suoi legami con altre lingue e culture, oltre a un’ironia che si ritrova nei due film tratti dall’opera.
Il primo venne girato nel 1923, appena due anni dopo l’uscita del libro: è un film muto, con la regia di Rex Ingram e Ramon Navarro quale protagonista. Il secondo risale al 1952 e venne diretto da George Sidney, che era uno specialista di musical. Gli attori infatti si muovono con una leggiadria che non capita spesso di vedere nei film d’azione. Uno degli aspetti che mi commuove è proprio questo incanto, questa grazia nell’esserci, nonostante le difficoltà. Questo afferrare la pienezza dell’istante.
Scaramouche è insieme allegro, malinconico, drammatico, crudele, a seconda delle scene. Spesso il regista ferma il tempo narrativo, come si usa nei musical, per inserire sequenze girate con la durata reale. Nel caso dei musical si tratta di canzoni e balletti. In Scaramouche, i balletti sono sostituiti dai duelli con la spada, la cui coreografia è curata in ogni dettaglio. Nella magnifica sequenza dello scontro finale, i due rivali si affrontano all’interno di un teatro, rincorrendosi per più di sei minuti sul palco, nel corridoio, nella platea, nella galleria, mettendo in scena una sorta di “teatro nel teatro”. Goffredo Fofi, nella sua introduzione al romanzo, lo definisce il più lungo e il più bello tra i duelli alla spada nella storia del cinema.

Scaramouche è una storia di avventura, lontana nel tempo e nello spazio, ma è anche la mia vita, con il suo impasto di dolcezza e dolore, malinconia e vitalità, rabbia e tenerezza. Come non essere lì, come non sentirci noi stessi protagonisti, quando leggiamo la prima frase del romanzo? Era nato con il dono della risata e la sensazione che il mondo fosse pazzo.

PS: Le parole di Goffredo Fofi provengono dall’edizione italiana del romanzo, pubblicata nel 2009 da Donzelli (traduzione di Nello Giugliano). La frase di Eugen Fink, da me tradotta, è presa dal saggio Spiel als Weltsymbol (Stuttgart 1960). Il volume è apparso anche in italiano, tradotto da Nadia Antuono con il titolo Il gioco come simbolo del mondo (Hopefulmonster, Firenze 1992).

PPS: Anche la firma di Sabatini (la terza immagine dall’alto), era precisa e leggiadra come un colpo di fioretto.

Condividi il post

Fuori dagli stalli demarcati

Oggi è il 30 novembre, festa di sant’Andrea. Secondo la tradizione è l’inizio dell’inverno. È anche il giorno in cui si chiudono i conti: ognuno restituisce ciò che ha preso e riprende ciò che ha dato. L’anno sta finendo, si comincia a pensare al futuro, ma intanto le giornate sono sempre più fredde e assediate dall’oscurità. Nel pomeriggio raggiungo la mia solita piazzetta, nel quartiere delle Semine a Bellinzona. Mi siedo su una panchina e mi metto a pensare al futuro. La piazzetta è vuota, la fontana muta, i cespugli sfioriti. Passano due ragazzi con un barboncino al guinzaglio. Il barboncino ha un cappotto nero. L’ultimo sole sta pennellando la cima delle montagne. Be’, insomma, che cos’è il futuro? Quando comincia, esattamente?
Ricordo che nel mese di luglio me ne stavo seduto su questa stessa panchina. C’erano pensionati in canottiera, adolescenti abbronzati, un ubriacone che teneva la birra in fresco nella fontana. Dal Mc Donald’s veniva un odore di fritto, mentre le auto in coda al semaforo, scintillanti sotto il sole, mettevano caldo solo a guardarle. E io già pensavo al futuro, e il futuro era questa piazzetta nel mese di novembre. Per essere precisi: la neve sulle montagne, l’aria pungente, l’arancione dei cachi sui rami spogli. Ed eccomi qui. Ora che mi trovo nel futuro, come immaginare la piazzetta di luglio? È diventata passato oppure diventerà altro futuro? È una di quelle situazioni in cui i pensieri si mordono la coda. Cose che succedono d’autunno, nelle piazze vuote. Il mondo è sospeso fra un prima e un dopo che si confondono, tanto che il dopo potrebbe venire prima e io, muovendomi verso la mia morte, potrei tornare in qualche modo alla mia infanzia, come un salmone che sale verso lontani ruscelli dimenticati.
Alzo il bavero della giacca e leggo I racconti di Nick Adams di Ernest Hemingway. Aveva paura di guardare Marjorie. Poi la guardò. Seduta gli voltava la schiena. Guardò la schiena di Marjorie: «Proprio non è divertente» disse. «Nemmeno un po’.» Lei non disse niente. Egli continuò. «Mi pare come se tutto dentro di me fosse andato al diavolo. Non so, Marge. Non so proprio cosa dire.» Continuò a fissare la schiena di lei. Chiese Marjorie: «Non è divertente l’amore?» «No» disse Nick.
Il ritmo inesorabile della prosa di Hemingway sostituisce le chiacchiere dei pensionati, che oggi sono rimasti al caldo. È uno strano libro, in cui si percepisce una tenerezza verso le cose semplici, un desiderio di essere fedele alla vita. Nello stesso tempo, c’è da combattere contro il buio che, all’inizio, si presenta in maniera ingannevole, travestito da nostalgia per il passato o da incertezza per il futuro. Il protagonista combatte come sempre fanno gli eroi di Hemingway: se ne sta ancorato al qui e ora, cercando di fare nel miglior modo possibile ciò che deve fare. Make your job, che si tratti di pescare nei ruscelli del Michigan o di sopravvivere alla guerra o ancora di scrivere come Cézanne dipingeva.
Vicino alla piazzetta c’è un camper parcheggiato senza targhe, in attesa che torni la bella stagione. Sul retro ci sono due adesivi con le scritte Sun Living e Vivere viaggiando. Visto che non c’è nessuno, lascio Hemingway e ne approfitto per fare un filmato, girando intorno alla fontana. Due ragazzine mi osservano sconcertate. Quando mi avvicino, si voltano e scappano di corsa. Io scatto una foto a un albero di cachi. Da lontano sento una delle ragazzine che dice all’amica: Ma non può, Ali, è casa nostra! Andiamo a dirlo alla mia mamma! Prima di che qualcuno mi denunci, torno a sedermi e cambio paesaggio. Mark Twain, Huck Finn, Tom Sawyer e La Salle si affollarono disordinatamente nella testa di Nick che guardava la scura e liscia distesa d’acqua lentamente in moto. Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice.

Non dovrei essere qui. Un uomo avvolto in un giaccone, solo con un libro nella piazza deserta, sorpreso nell’atto di fotografare cachi e di navigare sul Mississippi. Non dovrei essere qui. Perché butto via il tempo? Dovrei lavorare o andare a correre o pensare ai regali di Natale, o fare qualunque cosa ragionevole che mi permetta poi di lamentarmi per lo stress. Oh, vorrei essere stressato. Se fossi stressato, tutto sarebbe più semplice. Di certo non cadrei nella trappola della piazzetta e non confonderei il passato e il futuro.
Intanto ho visto il Mississippi, pensò felice. La felicità nei racconti di Hemingway è così pura da essere straziante, anche perché dura solo il tempo di pulire le trote. O di finire la pagina.
Cézanne cominciò con tutti i trucchi. Poi demolì tutto e costruì la cosa vera. Fu tremendo da fare. Fu lui il più grande. Il più grande d’ogni tempo e per sempre. Non era un culto il suo. Era che Nick voleva scrivere della campagna per riuscire a essere quello che Cézanne era stato in pittura. Bisognava farlo dall’interno di sé stessi. Non c’erano trucchi. Nessuno aveva scritto mai così della campagna. Nick provava quasi un sentimento religioso a questo riguardo, faceva terribilmente sul serio. Si poteva riuscire a saperlo tirar fuori di prepotenza. Riuscire a vivere giusto con gli occhi.
Il vento solleva un mucchio di foglie secche. Capisco che, anche volendo scrivere di una semplice piazzetta, bisogna proprio farlo dall’interno di sé stessi. Bisogna scrivere le parole in fila, per bene: il vento solleva un mucchio di foglie secche. Bisogna essere qui e demolire tutto per costruire la cosa vera. C’è modo e modo di scrivere del vento. C’è modo e modo di guardare una piazza vuota, o di esserne guardati. Apro il taccuino: vento, annoto, e foglie secche. Poi, tra parentesi: gialle, rosse. Ci sono dettagli che vanno coordinati fra di loro: una piuma di uccello sul vialetto, il rosso stinto di una bandiera svizzera sopravvissuta all’estate, la mezzaluna che affiora nel cielo. È giusto dire che la mezzaluna affiora? Potrei scrivere appare, ma sarebbe impreciso (non è un’apparizione, è un lento emergere dall’invisibile). Spunta non avrebbe senso. Fa capolino sarebbe tragico. No, lasciamola affiorare.
Tornando a casa, passo da una via dove le macchine devono andare a trenta all’ora, zigzagando tra vasi di cemento. I pedoni invece possono viaggiare alla velocità che preferiscono. Io cammino adagio, con le mani in tasca. Il sole si riflette su un cartello, creando un effetto di arcobaleno. Una scritta ammonisce gli automobilisti, ricordando loro che è proibito parcheggiare fuori dagli stalli demarcati.
Penso che in quelle quattro parole, così lividamente efficaci, si celi tutto quello che volevo dire oggi. Il passato, il futuro, il presente sono diversi quando cambi prospettiva, quando osservi stando fuori dagli stalli demarcati. È anche l’unico modo per scrivere davvero senza trucchi. Prima devi trovare uno stallo demarcato (qualunque cosa sia), devi girarci intorno, entrarci dentro, farci amicizia. Poi devi uscirne. E soltanto allora, forse, potrai dire davvero che il vento solleva un mucchio di foglie secche. Un mucchio di foglie gialle e rosse.

PS: The Nick Adam’s Stories, che uscì postumo nel 1972, è una serie cronologica di racconti scritti negli anni Venti e Trenta. Il libro posato sulla panchina è l’edizione Mondadori del 1972 (traduzione di Giuseppe Trevisani). Ernest Hemingway (1899-1961) appare qui sopra in due fotografie: la prima lo ritrae all’ospedale della Croce Rossa, in via Manzoni 10 a Milano (luglio 1918), la seconda nel Michigan durante la giovinezza. Le immagini sono tratte da Hemingway. Le parole, le immagini (Mondadori 1994). Nella quarta di copertina, c’è questa frase dello stesso Hemingway: Voglio continuare a scrivere il meglio e il più sinceramente che posso finché morirò. E spero di non morire mai.

PPS: Oltre che nel mese di luglio, mi sono seduto nella piazzetta anche in gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, agosto, settembre, ottobre.

 

Condividi il post