A testa in giù

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

«Ci sei domani?» mi domanda qualcuno. «No – gli rispondo – sarò in viaggio.» Non entro nei dettagli: per “viaggio” intendo il mio appuntamento a Paradeplatz con Yari Bernasconi. Seduto in treno, fra Arth-Goldau e Zugo, mi chiedo se sia giusto definire la spedizione in questo modo. Faccio sempre la stessa strada, passando dagli stessi posti. Si può ancora chiamare “viaggio”?
La sera, mentre sono ospite di amici a Zurigo, scoppia un temporale. Il bagliore dei lampi fa irruzione dalle finestre, i tuoni sembrano scuotere le fondamenta. In quell’atmosfera da finimondo, mi arriva un messaggio da Yari: per motivi di forza maggiore, forse domattina non riuscirà ad accompagnarmi a Paradeplatz.
Il mattino dopo Yari mi conferma che non ci sarà. Io prendo il tram a Goldbrunnenplatz e mi dirigo verso il centro. Quando scendo, a Paradeplatz, mi rendo conto di essere solo. Non è una sorpresa – sapevo che Yari non sarebbe venuto – ma fino a questo momento era una cognizione astratta. Ora, invece, l’assenza di Yari diventa qualcosa di tangibile: uno spazio su una panchina, un silenzio, un’irresolutezza che sembra affaticare anche i miei pensieri. Capisco allora che, per creare un viaggio, basta già soltanto questo spaesamento. Mi siedo al solito posto e annoto sul taccuino: piccoli vuoti, piccole coincidenze.
È una definizione di “viaggio”. Non è esaustiva, ma in questo momento è quella che più mi aiuta a comprendere. Viaggiare è quella condizione (fisica o mentale) per cui siamo particolarmente ricettivi ai piccoli vuoti e alle piccole coincidenze.
Ecco per esempio che una donna mi si avvicina e mi chiede: «Are you from Zürich?» Faccio per dire di no, ma lei deve averlo già capito dal mio sguardo: senza aspettare la risposta, mi volta le spalle e si allontana. Un’altra donna mi mette in mano un volantino su una prossima votazione. Lo accetto. Poi seguo la donna nella sua opera di propaganda e scopro che le successive dodici persone da lei interpellate si rifiutano di ascoltarla, o anche solo di prendere il volantino.
Piccoli vuoti.
Attraverso la piazza e mi apposto accanto a un fioraio. Rimango fermo all’ingresso, confuso tra le ortensie, aspettando che passino persone vestite dello stesso colore dei fiori. Poi noto un uomo che, appena sceso dal tram, si mette a parlare da solo, gesticolando e rivolgendosi a un interlocutore immaginario. Proprio in questo momento, mi arriva un messaggio da Yari, con la poesia che avremmo dovuto leggere insieme. Sono alcuni versi di Gianni Rodari, tratti dal Libro dei perché. Mi avvicino all’angolo fra l’edificio dell’UBS e quello di Crédit Suisse. Vedo un elefante che si tiene in equilibrio sulla proboscide. Lo guardo. Mi chiedo: perché?
Piccole coincidenze.
Si chiama Gran elefandret. È una scultura di bronzo, grande 755x370x300 centimetri e ideata da Miquel Barceló nel 2008. Decido di chiamare Yari via FaceTime, per mostrargli il pachiderma, quando vengo distratto da un trambusto alle mie spalle. La signora con i volantini sta discutendo animatamente con l’uomo che parla da solo.
[AF]

*

Esserci o non esserci. Cosa diventa un luogo quando non ci siamo? Ma soprattutto: esiste ancora? L’ideale è avere un emissario clandestino come Andrea, che mi inscatola nel suo cellulare e grazie a FaceTime mi offre una visita virtuale di Paradeplatz. Un giro sulle montagne russe di Paradeplatz (ah no, è Andrea che oscilla mentre cammina, scatta e rallenta, ha visto qualcosa e cerca di rendermi partecipe; credo non si sia accorto che così facendo sono volato dal tetto di un palazzo fino all’asfalto rigato dai binari dei tram, e poi ancora hop a mezz’aria insieme a un passero di passaggio, prima di frenare davanti a un elefante che non capisco se sia capovolto, o lo sono io, o lo siamo tutti).
Dunque i luoghi, stando a quello che ci mostra la tecnologia, continuano a esistere anche quando non ci siamo. Eppure ho la netta impressione che Paradeplatz, in mia assenza, osservandola da dietro chip e microchip, sia qualcosa di diverso. Per cominciare è più fredda e distante. Così come mi è sembrata qualche settimana fa, transitandoci per caso, per altri motivi, diretto da tutt’altra parte, senza taccuino e senza tempo per fermarmi. Quasi disturbato dall’idea di essere lì in quelle condizioni. Infatti, a ben guardare, si è trattato più di un’assenza che di una presenza.
E poi, con la distanza, tornano ad affiorare i pregiudizi. Gli stessi di gennaio, che nel frattempo erano stati assorbiti dalla curiosità. Ora, dalla finestrella dell’ottovolante di FaceTime, vedo soprattutto le banche e le cravatte. L’imperturbabile serietà e l’affettata (e affrettata) cortesia. Paradeplatz rimane un luogo di potere e di soldi. Con Andrea ne esploriamo gli strati, evidenziando l’umanità in viaggio, i tram e il movimento. Ma non possiamo dimenticare la presenza fissa, statica, del potere. «Non ci sono poteri buoni», cantava De André.
Difficile essere completamente d’accordo, ma ancora più difficile dargli torto. Certo è che troppo spesso rimaniamo in disparte, più o meno coscientemente, e le derive del potere trovano scorciatoie e nuovi metodi, si manifestano in modo poco spettacolare, astruso, spingendoci all’autoesclusione. Franco Fortini lo ha detto molti anni fa in alcuni celebri e illuminanti versi: «Gli oppressi / sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa».
Osservare, scavare, studiare. Tentare di dire, nonostante tutto: l’insegnamento di Fortini è anche questo. In fondo, è l’essenza della libertà, ha ragione Gianni Rodari:

Chi ha torto tira dritto
se chi ha ragione resta zitto.
Chi non sa dire la sua ragione,
il primo che passa è suo padrone.

[YB]

*

Il potere è qualcosa che occupa uno spazio, nella mente o nel mondo, e che non lascia più aperture, punti di fuga. È immutabile peso, grigio, antico, refrattario a ogni nascita. Se fosse poggiato sulle zampe, l’elefante di Barceló potrebbe rappresentare la forma del potere. Invece è sottosopra, imprevedibilmente e incredibilmente leggero, tanto che pare uscito da una filastrocca di Rodari. In fondo, ogni rivoluzione non è altro che questo: credere che possa esistere un altro equilibrio. E non è escluso che per scrivere, per tentare di dire, nonostante tutto, occorra mettersi a testa in giù.
[AF]

*

Per guardare il nostro mondo
Allacciamo la cintura,
Rovesciamo il globo tondo
A dispetto delle mura!
D’improvviso volpi, tigri,
Elefanti e canarini
Per gli uomini più pigri
Lascian questi bigliettini:
A chi ancora non lo sa,
Tutta qua sta la realtà:
Zeta, TAL e PEDARAP.

[YB]

PS: La quartina di Gianni Rodari è nel Libro dei perché (Editori Riuniti, 1984).

PPS. Fabrizio De André canta «Non ci sono poteri buoni» in Nella mia ora di libertà (nell’album Storia di un impiegato, 1973).

PPPS. I versi di Franco Fortini vengono da Traducendo Brecht, in Una volta per sempre (Mondadori, 1963). La poesia tra l’altro inizia così: «Un grande temporale / per tutto il pomeriggio si è attorcigliato / sui tetti prima di rompere in lampi, acqua»… Che fosse anche Fortini diretto a Paradeplatz?

PPPPS: Ecco le altre puntate della serie Paradeplatz2018: gennaio, febbraio, marzo, aprile.

 

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Saluti da Vega

Qualche fa giorno fa ho comprato dei libri di seconda mano. Da uno di questi è saltata fuori una cartolina, di cui non conoscevo né i mittenti né il destinatario. La spedizione, con il timbro postale di Roma, risale a qualche anno fa. L’immagine è divisa in tanti riquadri: in ognuno di loro si vede un gatto appollaiato nei pressi di un monumento romano, con una scritta che dice: I gatti di Roma. Sul retro, queste parole: Come vedi abbiamo portato i nostri mici a Roma! Bellissima come sempre questa città… un saluto da noi! Seguono cinque firme, di cui soltanto tre sono leggibili. È una cartolina qualunque, come ce ne sono tante. Ma rigirandomela fra le mani ho pensato: esistono cartoline qualunque? Esistono storie qualunque? Ogni frammento di quotidianità, se visto in forma drammatica, non è appassionante come un thriller?
image2Tutto dipende da che cosa si intenda per “forma drammatica”. Occorre senza dubbio che qualcuno diventi narratore del frammento di realtà, e che i destinatari – grazie a una sospensione volontaria dell’incredulità – aderiscano ai contenuti narrativi. A suo modo, quindi, ogni cartolina è una piccola storia scagliata nel sistema postale. Anni fa, nel corso di un laboratorio, avevo provato a costruire insieme ai partecipanti un racconto tramite cartoline. L’arco narrativo copriva parecchi decenni. Tutto era velato da una patina di frasi banali – vacanze, morti, nascite, matrimoni – ma dietro si vedeva ribollire la vita, tremenda e meravigliosa, così come la conosciamo tutti.
Mi sembra che i corrispettivi odierni delle cartoline, cioè i social network, siano meno evocativi. La frase scritta a mano, il timbro postale… c’è qualcosa di avventuroso in una cartolina. Il flusso continuo di foto su Instagram, con o senza filtri, rischia invece di sembrare un grido lanciato nello spazio: guardatemi, esisto, sono qui, bevo vino bianco e guardo tramonti!
image1-2 copia 2Queste riflessioni mi hanno spinto a rileggere un romanzo di Piero Chiara: una storia di tradimenti coniugali che s’incrocia con un fatto di sangue. A un certo punto viene fuori il particolare, incredibile e inspiegabile, di una cartolina spedita alla moglie dal Passo della Cisa. Il dottor Cavagna insistette tanto che finì col venirne in possesso. Se la girò tra le mani, la guardò davanti e di dietro e lesse a mezza voce: «Saluti notturni dal Passo della Cisa», scuotendo lentamente la testa. Quella cartolina, incongrua e misteriosa, esprime la tonalità del romanzo.
Molti autori amano giocare con l’idea di una cartolina: in particolare, mi viene in mente una delle Novelle scritte a macchina di Gianni Rodari.
C’era una volta una cartolina senza indirizzo. C’era scritto soltanto: «Saluti e baci». E sotto la firma: «Pinuccia». Nessuno poteva dire se questa Pinuccia fosse signora o signorina, una vecchia bisbetica o una ragazzetta in blue jeans. O magari una spia.
Tanta gente avrebbe voluto prendersi magari almeno uno di quei «saluti» e di quei «baci», almeno il più piccolo. Ma, come fidarsi?
Ecco un altro principio di intrigo, un conflitto già quasi narrativo. Anche perché le cartoline continuano a vivere, e girano per il mondo, pure quando i saluti e i baci di partenza si sono esauriti… finché saltano fuori inaspettate da una vecchia scatola da scarpe o dalle pagine di un libro.
C’è chi dice che le cartoline siano passate di moda. Ma è un allarmismo confutabile: esse non conoscono confini. Basti leggere Giorgio Caproni.
IMG_5964Perfino nei nostri anni virtuali, il segno dell’inchiostro ha una forza inimitabile. Lo ammetteva già Blaise Cendrars, rispondendo a una donna che gli aveva chiesto: se mi scrivi / non battere tutto a macchina / aggiungi una riga a mano. Dopo aver difeso la bellezza della sua macchina da scrivere Remington, Cendrars cede (o quasi): …per farti piacere aggiungo con la penna / due tre parole / e una grossa macchia d’inchiostro / perché tu non possa leggerle.
S’invia una cartolina per dire qualcosa a qualcuno, ma anche per consegnare un’immagine alla memoria. Questo si vede bene nella Cartolina notturna di Yari Bernasconi: un tragico episodio di cronaca nera, nella Svizzera tedesca, diventa un’istantanea composta di parole, fra strade asfaltate e angoli di luce, in una città di finestre e giardini, dove ogni vicolo ha il suo nome. Ecco qui il testo completo.
Copia di image1-2Di recente la Posta elvetica si è inventata un’App. Una volta ogni ventiquattro ore potete inviare gratuitamente in tutta la Svizzera una cartolina; a stretto giro di posta la vostra immagine viene stampata e consegnata, in forma concreta, con il vostro testo sul retro (certo, non scritto a mano…). Per provare ho scelto su internet l’immagine di una volpe e l’ho spedita alle mie figlie. Il giorno dopo, come se niente fosse, chiedo loro se abbiano visto la posta. È arrivato qualcosa oltre al giornale? Sì, mi rispondono senza scomporsi, ci ha scritto una volpe.
Ci credono davvero? Oppure stanno al gioco? In fondo, la domanda è superflua: la cartolina è un aiuto a fondere fantasia e realtà, viaggio autentico e proiezione narrativa. Per un breve istante, dietro un’immagine magari pacchiana o superficiale, sentiamo l’inconfondibile puntura di una storia in agguato. Ecco per esempio un’altra lirica di Caproni: il titolo funge da cartolina mentre il testo accende il mistero.
image1-2Dov’è la verità? Nella bellezza del mattino o nell’ombra dei pensieri? Come sempre è una miscela, un incontro fra queste due manifestazioni dell’essere. Per concludere voglio augurare, a chi non fosse ancora partito, buone vacanze!

 

PS: Avrei voluto aggiungere: e mandatemi una cartolina. Poi ho pensato che fosse banale. Poi mi sono detto: ma chi se ne importa, lo metto lo stesso nel Post Scritptum. Ecco fatto.

PPS: Il libro di Chiara è stato pubblicato da Mondadori nel 1987. La raccolta di Rodari Novelle scritte a macchina è uscita per Einaudi nel 1973. La poesia di Cendrars è rivolta a Raymone Duchâteau, che l’autore incontrò nel settembre 1917. Nel 1924 sperava che lei lo accompagnasse in Brasile; ci andò invece da solo e scrisse questi versi, pubblicati lo stesso anno in Feuilles de route (ora in Du monde entier au coeur du monde. Poésies complètes, Gallimard 2006). La lirica di Bernasconi è in Nuovi giorni di polvere (Casagrande 2015). Le poesie di Caproni provengono da Res amissa, edito da Garzanti nel 1991, a cura di Giorgio Agamben, un anno dopo la morte dell’autore.

 

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Capodanno

Le cose finiscono. E ci sentiamo soli. Le persone, l’amore, l’anno vecchio, tutto si allontana da noi. Ma dopo un po’, con la precisione di una rima in una filastrocca, le cose tornano. Non sempre, però certe volte lo fanno. Magari in maniera misteriosa, magari non ce ne accorgiamo. Per restare attenti al ritorno di ciò che amiamo, e per festeggiare Capodanno, ecco un mazzo di rime firmate da Gianni Rodari e colorate da un disegno di Bruno Munari.
image1(Qui la versione in PDF)

Insieme alle rime, ecco un po’ di musica. Una canzone scritta da Frank Loesser nel 1947 e incisa da una quantità di musicisti (specialmente nei loro album natalizi). Il titolo: What are you doing new year’s eve. Questa è la versione di King Curtis, un robusto sassofonista nato in Texas nel 1934 e morto accoltellato a New York nel 1971. L’incisione risale al 1968. Il sax è come un pianto, però a un certo punto, fra una nota lamentosa e l’altra, c’è anche un brivido di allegria. Buon 2016!

PS: Ho preso “Capodanno” da Filastrocche in cielo e in terra (Einaudi), con i testi di Rodari e i disegni di Munari. Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1960.

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