Espero

La settimana scorsa sono andato a Losanna. Visto che alla galleria del San Gottardo c’erano tre chilometri di coda, sono passato dalla Novena. Ma nel fondovalle il traffico era fermo, a causa di un incidente: per tre o quattro ore la circolazione, come ha detto la radio, è rimasta interrotta. Durante l’attesa, le persone occupavano il tempo come potevano: telefonando, dormendo, ascoltando musica, camminando su e giù lungo la strada; alcuni turisti, fuoriusciti da un autobus, si sono messi a intonare cori alpini. Qualche chilometro più avanti i pompieri spegnevano l’incendio che, nato da uno scontro frontale, stava divampando nei boschi intorno alla carreggiata.
img_6760Ci vuole poco, ho pensato, per spezzare un pomeriggio estivo. Strade di montagna intasate, lamiere contorte, fumo, sirene di ambulanza. La sensazione di essere fermi, impotenti, a poca distanza da un evento drammatico, fonte di sconcerto e sofferenza. Quando sono arrivato a Losanna (in ritardo di parecchie ore), sentivo ancora muoversi dentro di me i sentimenti nati dalla sosta forzata: impotenza, tristezza, incomprensione. Le vie intorno all’albergo, a Épalinges, erano deserte. Per riprendermi ho deciso di fare due passi. Sentivo il suono delle mie scarpe sull’asfalto, percepivo il fiato che entrava e usciva dal polmoni, il flusso del sangue continuamente pompato dal cuore. Le strade erano vuote. I bar erano chiusi. E io camminavo, camminavo, come se il gesto mi aiutasse a sentirmi vivo.
img_6762Ero a Losanna per la consegna del premio La Fenice Europa al romanzo L’arte del fallimento. Non mi soffermo sui dettagli, limitandomi a esprimere un ringraziamento ad Adriano Cioci, Rizia Guarnieri, Claudio Toscani, insieme a tutti i membri dell’Associazione Bastia Umbra. Sono grato anche alle varie altre associazioni che sostengono il premio, in Italia e all’estero; ai lettori e alle giurie sparse per il mondo; agli autori Luigi Ballerini, Carlo De Filippis e Fioly Bocca. È la mia seconda esperienza al premio La Fenice Europa: in Umbria come a Losanna, l’accoglienza è sempre splendida. Anche quest’anno mi ha colpito la vitalità, l’entusiasmo con cui gli organizzatori – senza nessun profitto – s’impegnano a promuovere la lingua e la cultura italiana in tutto il mondo.
Non vi racconto altro, perché trovate tutto sul sito del premio e perché vorrei dedicare ancora qualche riga al gesto di camminare, che da sempre è per me un antidoto alla tristezza e all’ansia. Sabato mattina splendeva il sole, a Losanna, ed era giorno di mercato. Nelle vie del centro, sotto la cattedrale, s’incrociavano famiglie, pensionati, venditori e sfaccendati (categoria nella quale rientravo pure io). Non so spiegare in che modo dentro di me sia cresciuto un moto di leggerezza, difficile da esprimere in astratto ma legato senza dubbio al ritmo discontinuo della passeggiata. In place de la Riponne, accanto a una donna che soffiava immense bolle di sapone, circondata da un nugolo di bambini, c’era una bancarella che promuoveva la diffusione dell’esperanto, offrendo dieci lezioni gratuite. Passando di fianco, ho visto un distinto signore di mezza età che raccontava a una ragazza di essere un apprenti espérantophone, spiegandole come il nome della lingua derivi dalla parola espero, che significa “speranza”.
img_6761Sabato sera una lettrice mi ha chiesto spiegazioni su un personaggio citato nel romanzo, l’esploratore inglese Ernest Shackleton (1847-1922). Mentre le rispondevo, ho pensato che proprio Shackleton, nei suoi diari, fornisce un buon esempio di che cosa siano il fallimento e la speranza. Come esploratore, fallì quasi tutte le sue imprese: non raggiunse il polo Sud, non riuscì ad attraversare l’Antartide. Nemmeno a casa ebbe una vita serena, per colpa della depressione, dell’alcol, di amori infelici e disordinati. Ma quando le cose si mettevano male, rivelava una tenacia sorprendente. Nel 1915 perse la nave, stritolata dal ghiaccio dell’Antartide. Senza scomporsi, radunò il suo equipaggio, in mezzo al vuoto della banchisa, nel freddo, nel buio perenne. Guardò i suoi compagni e disse: bene, ragazzi, ora torniamo a casa. E ci riuscì, con un’impresa pazzesca. Un paio di anni fa, leggendo il diario di Shackleton, mi colpì un episodio marginale, accaduto durante il lungo viaggio verso la salvezza. Quel dettaglio mi rimase nella mente, mentre stavo scrivendo L’arte del fallimento.

Mario raccontò a Lisa che, dopo una traversata di millecinquecento chilometri in balia di uno dei mari peggiori al mondo, Shackleton era riuscito a toccare terra nella Georgia del Sud, non lontano da Capo Horn. E allora, in una baia sperduta, avvistò alcuni resti di navi, trascinati fin lì dall’oceano: barili, alberi, pezzi di pennoni, di chiglia, e fra le altre cose anche il modellino di uno scafo di nave, di certo un giocattolo per bambini.
– Shackleton si chiede quale tragedia si nasconda dietro quell’oggetto – disse Mario. – Un giocattolo, capisci? L’unica traccia di un naufragio: un piccolo giocattolo sbattuto dal mare sulle rocce, in capo al mondo. Tutte le speranze, l’entusiasmo, chissà, forse una famiglia di emigranti… è una cosa che, a pensarci, ti viene da piangere.
Ci fu un lungo silenzio. Poi Mario mormorò:
– Ecco il fallimento. Non gli insuccessi dei grandi, nemmeno i disastri di Shackleton. Ma quel giocattolino, quella nave in miniatura dice tutto quello che mi serve.
– E cioè?
– Non so che storia ci sia dietro, nessuno lo saprà mai. Che cosa significa, perché il giocattolo si è salvato? Non riesco a capirlo, ma ho qualcosa su cui riflettere. – Una pausa. – O forse non bisogna capire, forse bisogna solo pensarci, ogni tanto, a quella piccola nave.

Quando Mario viene a sapere di questo episodio, riconosce in quel giocattolo un simbolo della sua stessa vicenda. Il fallimento di Mario è meno tragico, ma anche lui deve accettare una sconfitta. Insomma, quella piccola nave intravista da Shackleton, in mezzo ai detriti scampati alla bufera, diventa un emblema. Per Mario è qualcosa su cui riflettere, per me è come un promemoria: pur senza capire, cerco di non dimenticare chi ha fallito, chi non ce l’ha fatta, chi è rimasto per strada. Nelle mie storie, tento di dare spazio e voce a questi personaggi.
img_6764Paradossalmente, quel giocattolo sbattuto sulle rocce può essere anche un segno di speranza. Che cosa ne sappiamo noi, in fondo, di ciò che si perde e di ciò che rimane? Quando una sconfitta si fa narrazione, lascia sempre qualcosa nelle menti e nei cuori, incide una ferita nella memoria. Finché ci saranno emigranti, famiglie che affrontano Capo Horn, esploratori tenaci, viaggiatori per mare e per autostrada, navi giocattolo, creatori di bolle di sapone, inventori di lingue, scrittori e lettori, finché ci saranno uomini e donne che parlano del futuro, non sarà vano pronunciare in ogni lingua la parola espero.

PS: In italiano potete leggere: Ernest Shackleton, Sud. La spedizione dell’Endurance in Antartide 1914-1917, Mursia (avevo parlato di questo volume anche qui, su “Il Libraio”). Fra l’altro Frank Hurley, il fotografo della spedizione, riuscì miracolosamente a salvare alcune lastre. Qui sotto, ecco un’immagine storica: gli uomini rimasti in attesa nell’inferno gelido di Elephant Island salutano il loro capitano che, dopo un’impresa ai limiti dell’umano, è tornato a prenderli.

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Kids are pretty people

Oggi nella Svizzera italiana è il primo giorno di scuola. Come sempre, quando sento le parole “primo giorno”, ho la tentazione di voltarmi verso il passato: sarà perché tutti gli inizi poggiano su fondamenta più o meno visibili, sarà perché la fine dell’estate accende malinconie. Ho accompagnato mia figlia al primo giorno della seconda elementare, domani accompagnerò sua sorella al primo giorno di asilo. Vedete? Tutti questi “primi giorni” mettono addosso una certa inquietudine. L’unica è tuffarsi nei classici… Si computes annos, exigum tempus: si vices rerum, aevum putes (“Se tu conti gli anni, il tempo ti parrà breve: se rifletti sopra gli avvenimenti, crederai esser corso un secolo”). Ma quelle di Plinio sono sempre parole, sia pure in latino, mentre mi pare di essere di fronte a qualcosa che, per non essere banalizzato, richieda due operazioni: tacere e camminare.
IMG_6630Taccio e cammino, allora, resistendo alla tentazione di parlare del tempo che passa a chi mi sta accanto. Esco dalla scuola… il cortile è sempre quello, con il medesimo grande albero sulle cui radici mi arrampicavo, da bambino, immaginando un mare in tempesta al posto del terreno. Mi allontano da solo lungo via Franscini, e lo sfasamento temporale mi colpisce quando meno me lo aspetto.
L’edificio dove ho trascorso due anni come allievo di scuola media ora è sede del Tribunale penale federale. Mi domando se, nei corridoi austeri, sia rimasto qualche ricordo di schiamazzi, di verbi irregolari, di turbamenti ormonali e di compiti copiati in fretta durante la ricreazione. Mi avvicino al portone… ma esito a entrare. E se davvero negli interstizi del tribunale fosse rimasto qualcosa… o qualcuno? Se un giovane Andrea fantasma, con il suo zaino Invicta e la sua timidezza, fosse ancora là dentro, sospeso fra un tema d’italiano e un’equazione a due incognite? Che cosa potrei mai dirgli? E lui, che cosa direbbe di me? Mi sembra che apparteniamo a epoche diverse, nonostante siamo separati da poco più di vent’anni (cantava De Gregori: vent’anni sembran pochi, ma se ti volti a guardarli non li vedi più…). Decido di rimandare la visita: la caccia al tempo perduto richiede un ritmo lento, e per oggi ho fatto abbastanza. A casa ho ancora la bicicletta che parcheggiavo di fianco all’edificio, e la chiudo ancora con lo stesso lucchetto di allora. Ma il parcheggio è sparito, insieme alle tettoie, agli studenti, ai docenti con la cartella di pelle. È proprio vero che le città cambiano più in fretta del cuore di un uomo.
IMG_6629Leggo su internet che la Corte penale del Tribunale penale federale di Bellinzona statuisce in prima istanza sui reati che entrano nella competenza della giurisdizione federale (p. es. terrorismo, servizi di spionaggio, riciclaggio di denaro, criminalità organizzata). Be’, qualche piccola operazione di spionaggio, durante le verifiche di matematica, l’avevamo messa in piedi anche noi… chissà se l’eco di quelle losche macchinazioni aleggia ancora in questi spazi chiari. È curioso: come scuola, l’edificio aveva corridoi oscuri e un colore grigiastro; ora, come tribunale, si presenta candido e immacolato. Vorrà dire qualcosa? Probabilmente no.
IMG_6612Continuo a camminare. La città ha ancora una luce estiva, ma c’è un segno che invece mi proietta verso l’autunno: mancano i ragazzi, i bambini. A quest’ora le lezioni sono già cominciate, e gli allievi sono tutti dentro un’aula. Mi domando che cosa voglia dire, per loro, stare ancorati a un tavolo mentre fuori splende il sole. A prevalere sarà il rammarico per una bella giornata persa? Ma la scuola, in fin dei conti, dovrebbe aiutare a godere con maggiore pienezza anche delle belle giornate. Oppure è ingenuo pensare che il sistema scolastico debba rispondere pure a queste esigenze? Forse è più prudente limitarsi a trasmettere nozioni che aiutino a “imparare un mestiere”, “farsi una cultura”, “affrontare la complessità del mondo contemporaneo”. Ma personalmente, quando mi trovo di fronte a un gruppo di ragazzi per un laboratorio di scrittura, ciò che più mi emoziona non è tanto la possibilità di trasmettere loro qualcosa, e nemmeno il fatto che loro possano trasmetterlo a me. A stupirmi è la presenza: siamo qui, riuniti nella stessa aula, pronti a condividere qualcosa che possiamo chiamare “letteratura”, nonostante le mille differenze fra di noi (di età, origine, esperienza, carattere…).
La scuola è prima di tutto esserci. È un gesto: uscire di casa, entrare in un edificio, sedersi insieme in una stanza. E in quella stanza siamo presenti con tutti noi stessi, carichi di tutte le nostre domande. Andare a scuola implica il pensiero del futuro, il desiderio di costruire qualcosa. Se un insegnante riuscisse anche solo in questo – tenere desti i desideri – avrebbe già ottenuto un successo.
Non mi dilungo con le riflessioni: torno a camminare e vi lascio con la musica. Kids are pretty people è un brano composto da Thad Jones nel 1968. Gli amanti del jazz sanno che la famiglia Jones non manca di grandi talenti: oltre a Thad (1939-85), il batterista Elvin (1927-2004) e il pianista Hank (1918-2010). A Hank è capitato spesso di riproporre il brano di suo fratello. Questa è una versione con il sassofonista Joe Lovano, insieme a George Mraz (basso) e a Lewis Nash (batteria).

A essere pretty people non sono solo i bambini, ma soprattutto chi sa mantenere, insieme alla pacatezza della vecchiaia, l’apertura e lo slancio di un ragazzino. Direi che Hank Jones è un magnifico esempio: pensate che all’epoca di questa incisione aveva 87 anni. Mi rendo conto che il brano è lungo (e non a tutti piace questo tipo di musica). Ma ascoltate almeno, nei primi minuti e alla fine, la perfetta discrezione del pianoforte, l’intesa con il sax. Bello anche l’assolo di Jones, a 5.08. In particolare, sentite la forza della sua vitalità fra il settimo e l’ottavo minuto, osservate la sua espressione elegantemente radiosa.
Hank Jones è stato un grande maestro. L’augurio che faccio a tutti gli insegnanti, per questo nuovo anno, è di avere la sua stessa grazia, la sua ironia, la sua misura, insieme a quel briciolo di fanciullezza che – nonostante gli anni – continua a vivere e a diventare musica…

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PS: Quando mi deciderò a entrarci, nel Tribunale, vi farò sapere se davvero troverò qualche fantasma. Magari ci proverò il prossimo primo giorno di scuola…

PPS: La citazione di Plinio Il Giovane proviene dal quarto libro delle Lettere (XXIV, 6); quella di Francesco De Gregori, dalla canzone Bufalo Bill, contenuta nell’album omonimo uscito nel 1976. La frase sul Tribunale è tratta dal sito www.bger.ch. Una bella versione di Kids are pretty people, registrata nello stesso tour da cui è tratto il video, si trova nell’album Classic!, pubblicato poche settimane fa da Joe Lovano per la Blue Note e dedicato proprio alla memoria di Thad Jones (che ha continuato a suonare con Lovano fino a poco prima della sua morte, all’età di novantun anni). L’osservazione sulle città che cambiano più in fretta del cuore di un uomo è di Charles Baudelaire: Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville / Change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel). I versi sono tratti dalla lirica Le Cygne, nella sezione “Tableaux parisiens” di Les Fleurs du Mal (1857).

PPPS: Alcuni spunti per questo articolo mi sono venuti in seguito a un proficuo scambio d’idee avvenuto su “Cose di scuola”, il blog di Adolfo Tomasini. Di ricerca del tempo perduto, sempre a Bellinzona, avevo già parlato qui.

 

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Bellinzona

Bellinzona è la città più lontana che io possa mai raggiungere. Come immaginare un viaggio più rischioso, più teso verso l’ignoto? Se valicassi catene montuose, se navigassi oceani sterminati mi limiterei a macinare chilometri; a Bellinzona, invece, ogni passo è scavato nel tempo. In realtà non amo indugiare nei ricordi, ma preferisco tentare di cogliere ciò che si muove nel presente, e proprio per questo una passeggiata a Bellinzona è un viaggio avventuroso: il presente me lo devo guadagnare a ogni svolta, oltre i ricordi, oltre la ricerca del tempo più o meno perduto. Essere aperto alla città, alle sue apparizioni, alle sue voci, alle sue inquietudini, diventa un vero esercizio di attenzione.
FullSizeRenderOgni tanto passo vicino alla casa in cui ho trascorso i primi sei anni di vita. Non ci sono mai più entrato, da allora. Un paio di giorni fa, quasi senza pensarci, mi sono soffermato accanto all’ingresso; ho notato la forma del cortile, le serrande abbassate dei garage, il vialetto che passa di fianco al muro. Di colpo, ho sentito lo schiaffo della memoria. Come succede sempre, in questi casi, il ricordo era impreciso. Credo che il cervello inconsciamente abbia riconosciuto uno scorcio che non vedeva da più di trent’anni: la stessa immagine registrata tanto spesso nei primi anni, nello stesso luogo, dallo stesso punto di osservazione. Questa coincidenza deve aver creato una specie di corto circuito, come una vecchia radio polverosa che, quando viene finalmente riaccesa, emette un suono gracchiante: la voce o la musica appartengono al presente, ma in qualche modo sembrano remote, intrise di tempo perduto.
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In questi casi, mi sforzo di scrollarmi di dosso il passato. Ciò che voglio vedere è un semplice vialetto che costeggia il muro di una casa qualunque. Qualunque? Certo: qualunque. E perciò interessante. La ricerca dei dettagli, l’immaginazione, la pazienza: sono queste le condizioni perché un paesaggio sia interessante. Che importa se appartiene al mio passato oppure no? A me preme osservare ciò che appare così come è ora. La memoria può aiutarmi per un istante a orientare lo sguardo, ma poi bisogna lasciarla andare. Bisogna dimenticare.
È un lavoro complesso. Ma è anche affascinante. Forse è per questo che scrivo qualche volta di Bellinzona; a parte i romanzi, segnalo per esempio il racconto “Un gioco da ragazzi”, che parla del fallimento di una squadra di calcio: è una storia con Elia Contini, pubblicata nell’antologia Un inverno color noir (curata da Marco Vichi per l’editore Guanda nel 2014).
Copia di image1-2Un altro mio scritto su Bellinzona, in cui cerco di restituire la dimensione spazio-temporale ma in maniera più ampia, senza legarla troppo alla mia biografia, si trova nel volume Negli immediati dintorni, edito nel 2015 da Casagrande in collaborazione con l’Associazione Doppiozero. Il testo, intitolato “Viaggio fuori dallo spazio-tempo”, si può leggere anche nel sito Doppiozero.com, corredato di fotografie. Ecco dunque il primo paragrafo della mia piccola guida a Bellinzona:

Vorrei stare da solo, a Bellinzona. E come si fa? A Bellinzona sono nato, a Bellinzona vivo, e non ho più nella memoria le prime passeggiate, le sconfitte e le scoperte, le fughe, il rischio del ritorno. Tutto è nascosto sotto una piacevole coperta di abitudini. Ma per parlare di una città, dicono le guide più avvedute, devi starci da solo per un po’. Non basta esserci cre­sciuto, devi essere in grado di tornarci come nuovo. Potrei camminare con gli occhi bendati. Potrei farlo dopo un’immensa nevicata, di quelle che ridise­gnano le città, oppure potrei scegliere una via dove non sono mai passato. Perché a pensarci bene qua e là ci sono cortili o stradine che non ho mai voluto percorrere, e che potrebbero nascondere qualunque cosa. Sotto la coperta di abitudini, forse barando un poco, mi sono conservato qualche pezzo di mistero.

Trovate qui il testo integrale. Buona lettura… e buon viaggio verso l’ignoto!

PS: La casa dei miei primi anni, per chi conoscesse Bellinzona, si trova in via Guasta. L’ultima fotografia di questo articolo è misteriosa: per capirla, mi sa che dovrete proprio leggere il “Viaggio fuori dallo spazio-tempo”…

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Passeggiate colorate

Secondo un’antica leggenda navajo, un uomo deve camminare un po’ ogni giorno. La Terra infatti si mantiene in movimento grazie alla spinta comune di migliaia e migliaia di piedi che la fanno ruotare, ognuno con tocchi impercettibili, permettendo il giorno, la notte, il ciclo delle stagioni. Quando mi capita di avere dei problemi di lavoro o di sentirmi inquieto, esco e vado a camminare: i problemi restano tali e quali, ma almeno so di contribuire – nel mio piccolo – alla sopravvivenza del nostro pianeta. Quando dico camminare intendo girovagare senza una meta, provando magari a esercitarmi nella tecnica delle passeggiate colorate.
IMG_3296Io cammino, la terra gira. Il sole arriva e se ne va al momento giusto, il fiato entra ed esce dai polmoni, la città scorre intorno a me e più in alto, lentamente, passano le nuvole. Il segreto non è concentrarsi, ma lasciare che i pensieri nascano senza scacciarli, sapendo che subito se ne andranno e ne nasceranno altri e altri ancora. Dopo un po’ la mente non ci bada più e comincia a notare i dettagli: erba, facce, fontane. Nella fase successiva, cerco di accogliere soltanto le variazioni cromatiche. Visto che i colori sono molti, e tutti mescolati insieme, ne affronto uno alla volta. Succede che esca di casa a caccia del grigio, e che lo sguardo si perda sulle mura dei castelli, tra le sfumature dell’asfalto, nelle righe della pioggia o in certi volti stanchi. Altre volte capitano giornate verdi, magari lungo qualche sentiero che corre ai bordi del fiume: il salice in primo piano, le gradazioni dei prati, le accensioni improvvise di un albero o di un semaforo.
Copia di FullSizeRenderQuando sei a caccia di un colore, devi rimanere ricettivo nei confronti di ogni cosa e, nello stesso tempo, filtrare le tonalità. Se è una giornata azzurra l’occhio indugerà sulle montagne in lontananza, sulla tovaglia in un manifesto pubblicitario, sull’acqua di una piscina dietro un muro di cinta, sul riflesso di un vetro smerigliato, sul telaio di una bicicletta o sulle profondità del cielo in una mattina limpida.
IMG_0093Ogni colore ha la sua storia. Ogni passeggiata ha la sua tinta. Mi è capitato anche di assegnare una “passeggiata colorata” come esercizio in qualche laboratorio di scrittura. In effetti, può succedere che la pagina di un libro ci aiuti a muoverci nella complessità di un colore. Visto che siamo in primavera, prendiamo per esempio il verde. Eccolo che affiora in un pensiero di Anna Gnesa. I polinesiani hanno circa trecento parole per indicare non il verde, ma le diverse qualità di verde. Avessimo noi l’attenzione e la sensibilità di quegli isolani per il mondo della natura, sarebbe più facile indicare le varie gradazioni di colore di questo fiume, a volte esitanti tra il glauco e il turchese, a volte perfino d’un verde tenebroso. Perduta la trasparenza e la magia nel lago morto, in quelle acque prigioniere il colore portentoso era ormai finito. Ma lentamente la gran massa opaca fu penetrata dalla nota sfumatura. Quel verde riapparso benché umiliato, accecato, era lui. Così riconoscibile che pareva di potergli dire «tu». E torna alla mente la misteriosa parola di una mistica tedesca del XII secolo, che del verde fu inebriata: «opus verbi viriditas est». Nello stesso verde affondano le radici i versi della poetessa Antonietta Gnerre.
FullSizeRenderE se volessimo inseguire il blu? Allora dobbiamo ricorrere a Mario Luzi che contempla il mistero della sua Val D’Orcia, così terrena e così soprannaturale.
FullSizeRender copia 4Lo stesso Luzi così spiega il suo amore per l’azzurro: Poiché amo molto il colore dei monti, quell’azzurro che sa di fresco e di lavato e che vien fuori soprattutto dopo la burrasca, credo si ritrovi spesso, nella mia produzione poetica, l’azzurro, il blu, questa tonalità che appartiene non tanto, forse, alla radiosità del mattino quanto alla profondità. Lo spazio profondo ha questo colore, che poi diventa anche quello del tempo. Tempo e spazio sono inscindibili. Quando io penso al tempo lo penso di quel colore.
Gli altri colori li lascio a voi. Vi segnalo solo tre “passeggiate colorate” ottime per gli esordienti: il bianco accecante di una gita all’alba dopo una nevicata; il bianco più intimo di un’escursione lungo l’argine in un giorno di nebbia fitta; il nero di una passeggiata notturna in una via discosta di un piccolo paese, là dove non arrivano i lampioni. Se poi vi sentite in forma, o se siete innamorati, potete tentare una “passeggiata arcobaleno”, a caccia di rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto, tutti insieme, contemporaneamente. Ma qui siamo già nell’ambito degli effetti speciali…
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PS: Il testo di Anna Gnesa è tratto dal volume Lungo la strada, pubblicato da Armando Dadò nel 2001 con un’introduzione di Mario Agliati. La prima edizione risale al 1978.

PPS: La lirica di Antonietta Gnerre proviene da I ricordi dovuti, pubblicato nel 2015 da Edizioni Progetto Cultura, nella collezione di quaderni di poesia “Le gemme”. Il volume è ricco di istanti colorati e di versi che si annidano fra gli alberi.

PPPS: I versi di Mario Luzi provengono da Per il battesimo dei nostri frammenti, pubblicato da Garzanti nel 1985. Potete leggere qui la poesia completa. L’altro testo di Luzi è tratto da Spazio stelle voce. Il colore della poesia, pubblicato nel 1991 da Leonardo Editore a cura di Doriano Fasoli.

PPPPS: La leggenda navajo di cui parlo all’inizio me la sono inventata io (non credo proprio che i miti degli indigeni americani descrivessero la Terra come rotonda e ruotante). Ma i Navajo non me ne vorranno: dopotutto, hanno fama di essere un popolo di grandi camminatori.

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