Ci sono degli uffici in cui non si vorrebbe mettere piede. La mente lavora sulle sfumature, si aggrappa alle speranze, ma la burocrazia è senza pietà. Mi è capitato di conoscere sia l’Ufficio Fallimenti (che sarà nel mio prossimo romanzo) sia la Cassa Disoccupazione, che è un luogo d’incontri significativi. Per me raccontare storie non vuol dire soltanto narrare di omicidi o di fatti eccezionali, ma anche della quotidianità, delle vicissitudini meno appariscenti. Nella mia città la Cassa Disoccupazione si affaccia su un parcheggio: la gente passa, di fretta, ognuno trascinando borse della spesa, figli, preoccupazioni. E proprio lì, dietro una vetrina, si fermano invece le persone che sono fuori dalla giostra, dal giro casa-lavoro-vacanze.
Dietro la vetrina si parla di soldi. Di cifre. Del 40% perso o del 15% che si spera di trovare. Ma fatalmente uno pensa anche alle domande che suscita ogni lavoro: chi sono io? perché mi trovo a fare questo o quest’altro? qual è il mio talento, e a che cosa serve? Davanti a questi interrogativi i funzionari sono impotenti, anche perché i loro formulari chiedono cifre, non stati d’animo.
L’Ufficio Fallimenti invece si trova nello stesso edificio in cui prendo le lezioni di sassofono. L’ho scoperto mentre lavoravo al romanzo L’arte del fallimento. Devo dire che la cosa mi ha dato da pensare. Io me ne stavo lì a cercare i suoni sovracuti, oltre il fa diesis, e due stanze sopra andava in scena il dramma della bancarotta.
Forse a causa di questa coincidenza mi sono ispirato alla musica jazz per narrare la dinamica psicologica che sta dietro l’esperienza del fallimento. Nel romanzo si racconta delle peripezie di chi vede sgretolarsi ciò che ha costruito. I funzionari dell’Ufficio Fallimenti devono gestire i crolli, assicurare lo svolgimento dignitoso della sconfitta. Uno dei protagonisti suona, e nell’improvvisare cerca di esprimere quello che prova, cerca di trovare la forza per resistere, per accettare ciò che gli succede e afferrare ciò che di buono la vita ancora gli riserva.
Prima che L’arte del fallimento arrivi in libreria, mi piacerebbe anticiparvi ancora qualche brano, come ho già fatto un paio di settimane fa. Ma oggi voglio lasciare spazio alla musica (con un disco citato nel romanzo). Al sax contralto, nel 1957, Art Pepper suona una vecchia canzone di Cole Porter. Insieme a lui una sezione ritmica eccezionale: Red Garland al piano, Paul Chambers al basso, Philly Joe Jones alla batteria. Pepper è stato in prigione, non riesce a liberarsi dalla droga, ha dei problemi tecnici al sax. In più, sono anni che non suona regolarmente. Eppure la musica esce limpida e preziosa, come per miracolo.
Questo è un genere di miracolo che nasce dalla dedizione. Sentite il suono di Pepper, com’è liscio, rilassato, appena un po’ stanco. Sentite come ogni nota arriva al momento giusto, portando sollievo.
Ecco, mi piacerebbe riuscire a scrivere con questa precisione. Non sempre nella mia vita dedico alla scrittura il tempo e la concentrazione che vorrei. Eppure, per fortuna, a volte le cose si aggiustano proprio nel momento in cui falliscono. Come diceva Ernest Hemingway: La gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire, e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e, porco cane, non troppo dopo. Nella scrittura, nell’arte della vita e del fallimento, tento sempre di muovermi con il tempo giusto… o magari con appena un po’ di ritardo, come fa Art Pepper. Non sempre mi riesce. Ma anche questo fa parte dello swing.
Grazie per le anticipazioni del nuovo romanzo (sono curioso di leggerlo!) e per il brano di Art Pepper. È uno dei miei dischi preferiti!