La mia felicità

Gli Svizzeri muoiono felici è la storia di un incontro impossibile. Spesso gli incontri impossibili finiscono per accadere, magari proprio quando nessuno ci sperava più: la vita infatti, come diceva il poeta Vinícius de Moraes, è l’arte dell’incontro. Il romanzo, in uscita in questi giorni per l’editore Guanda, parla di solitudine e nostalgia, di fuga, di accoglienza. Le Alpi e il deserto del Sahara fanno da sfondo a una vicenda dove la morte, l’irrimediabile lontananza, ferisce l’animo dei protagonisti. Ma nello stesso tempo, la scoperta dell’altro dischiude la possibilità della speranza. Il “booktrailer” di Alessandro Tomarchio dura un minuto e non rivela niente della trama; è un piccolo cortometraggio d’autore, liberamente ispirato ai luoghi e all’atmosfera del romanzo.

Le immagini mostrano l’altopiano della Greina, nella Svizzera italiana. Ideato, girato e montato da Alessandro Tomarchio (che è anche l’autore della colonna sonora), il video è stato realizzato grazie alla disponibilità di Martina e Paolo, che hanno fatto da guida al regista nei luoghi dove si svolgono molte scene del romanzo.
Trovate qui il risvolto di copertina, con qualche citazione dal testo, e qui le date delle presentazioni. Ne approfitto per ringraziare chi mi ha aiutato nel lavoro della scrittura: Ibrahim Kane Annour e tutti gli altri Tuareg che mi hanno ispirato (alcuni vogliono mantenere l’anonimato, perché preferiscono apparire nascosti nel personaggio di Moussa ag Ibrahim); i miei amici, i miei famigliari e i miei lettori di fiducia: Anna, Eloisa, Erina, Lucia, Maria, Michele, Nicola, Paolo, Tommaso, Yari. Sono grato a tutto il gruppo di Guanda, in particolare ad Annachiara, Monica, Paola, Lucia, Viviana. Come sempre, un pensiero speciale per la mia editor Laura Bosio, che mi ha aiutato a portare a termine questo viaggio fra l’Assekrem e la Greina.
A un certo punto, nel romanzo, l’investigatore Elia Contini viene interrogato da uno psicanalista.

 – Lei, per esempio, come giudica la sua vita da uno a dieci?
Contini sperò che fosse una domanda retorica. Ma non lo era.
– Allora? Mi dica? Si dà la sufficienza?
Contini sospirò. – Faccia come vuole. Dieci?
– Dieci! Caspita, lei è un uomo felice.
– Anzi, uno.

Non sono un uomo felice. Non lo sono mai stato. Questo non vuol dire che stia soffrendo per una circostanza precisa, né che mi sia accaduto qualcosa d’irreparabile (tranne la vita stessa), né tantomeno che voglia lamentarmi. Ma fin da bambino, non ho mai avuto l’attitudine alla felicità. Non mi sono mai lietamente riconosciuto in un gruppo, nella baraonda del cortile non avevo voglia di gridare, non m’importava di vincere o perdere. Non mi piacevano le “festicciole”, i compleanni, le scampagnate. Non sto dicendo che fossi cupo e disperato; anzi, mi piaceva scherzare e – da adolescente – ero più o meno sempre innamorato. Ma quando tutti intorno a me, insieme, perdutamente, gioivano di una gioia collettiva, in me sorgeva il desiderio di stare in disparte. È un’ombra che mi accompagna ancora oggi. Al momento degli applausi, quando si levano i calici per un brindisi, quando si grida “viva gli sposi!” o “buon anno!” o “vittoria!”, mi affretto a cercare la via di fuga più vicina. Non è una posa o un moto d’orgoglio. Semplicemente, mi rendo conto di non essere portato per la felicità. O forse devo ancora capire che cosa sia.
Gli Svizzeri muoiono felici è un romanzo noir, con il suo intreccio poliziesco e i suoi colpi di scena, ma nasconde anche una domanda sulla felicità. Da un paio d’anni mi ronzava in mente la storia di un uomo che sparisce nel cuore delle montagne. Nello stesso tempo mi è capitato di conoscere alcune persone di origine tuareg; nei loro racconti ho sentito affiorare una nostalgia e un desiderio che assomigliavano a ciò che provavo io. È possibile sentirsi vicino a un luogo dove non si è mai stati? È possibile che, nell’identità multipla di cui siamo fatti, ci sia posto anche per paesaggi e culture conosciute solo tramite i racconti? Credo di sì: non bisogna mai sottovalutare la forza di un racconto. La scrittura, fra mille altre cose, è anche compiere l’esercizio di essere un altro, pur restando sé stessi. Scrivere (e leggere, naturalmente) è sempre una ricerca, è un modo di progredire. Forse, a proposito, l’uomo felice è proprio «colui che, senza cercare direttamente la felicità, trova per di più inevitabilmente la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di sé stesso, in avanti» (Pierre Teilhard de Chardin).
Credo che ci sia una correlazione profonda, anche se nascosta, fra la Svizzera e il Sahara. La ricercatrice Jeanne-Marie Baude scrisse che «ci sarebbe tutto uno studio da fare sulla letteratura del deserto nella Svizzera romanda contemporanea». L’idea si potrebbe allargare alla letteratura europea in generale, che spesso ha fatto i conti con il concetto esistenziale di “deserto”, al di là dell’aspetto puramente geografico. Restando in Svizzera, alcune liriche di Anne Perrier hanno una consonanza con l’inquietudine di tanti poemi tuareg.

Oh rompere gli indugi
Partire partire
Io non sono fra coloro che restano
La casa il giardino tanto amati
Non sono mai dietro ma davanti
Nella splendida bruma
Sconosciuta

La stessa Anne Perrier, trafitta dal blu delle lontananze, si avventura in un deserto che è forse anche la pagina bianca su cui si compone la poesia.

Questo laggiù
Questo canto questa alba
Questo volo di fronde
Questo orizzonte come un giardino
Che riposa nella luce
E gli aromi

La letteratura permette incontri impossibili, superando ogni distanza culturale e temporale. Si può dunque appartenere sia alle montagne fra cui è nata Anne Perrier (1922–2017), sia alle dune fra cui visse Kenoūa oult Amāstan, nata nel 1860. Colpita dalla bellezza di un uomo, Kenoūa ne scrisse con impeto e struggimento, evocandolo come se fosse un paesaggio.

Io, quest’anno, ho visto
una collina di muschio dai mille colori;
l’erba era d’oro e cresceva con vigore;
il miele mescolato con il burro ingrassava la terra;
il latte scorreva e bagnava la collina, racchiusa tra maglie d’argento.

Gli Svizzeri muoiono felici si muove tra paesaggi diversi, con voci diverse. Ma ogni personaggio, compreso lo stesso Contini, prova a un certo punto la tentazione di andarsene, di lasciarsi tutto alle spalle. La fuga porta alla felicità? Difficile dirlo. Probabilmente non si può essere felici senza una certa forma di leggerezza e di autoironia, senza un certo distacco dalle cose del mondo. Ma la felicità deve anche fare i conti con la vita quotidiana, con l’impietoso scorrere dei giorni.
Mi accorgo che sto ancora parlando di felicità. Come se le parole mi potessero avvicinare al sentimento… Magari è proprio così, vai a sapere. Lo stesso Giacomo Leopardi, quando scriveva, non poteva fare a meno di una certa allegrezza: «Ma quantunque chi non ha provato la sventura non sappia nulla, è certo che l’immaginazione e anche la sensibilità malinconica non ha forza senza un’aura di prosperità e senza un vigor d’animo che non può stare senza un crepuscolo, un raggio, un barlume di allegrezza» (Zibaldone, 24 giugno 1820).PS: La vita, amico, è l’arte dell’incontro è un album di Vinícius de Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio Endrigo pubblicato dalla Fonit Cetra nel 1969. Il pensiero di Pierre Teilhard de Chardin è tratto dall’opera Sur le Bonheur (Seuil 1966), tradotta in italiano da Annetta Daverio con il titolo Sulla felicità (Queriniana 1990; 2013). La frase di Jeanne-Marie Baude proviene dal saggio “La voix nomade de Anne Perrier”, in Gérard Nauroy, Pierre Halen, Anne Spica, Le Désert, un espace paradoxal, atti del convegno all’Università di Metz (13-15 settembre 2001), Peter Lang, Berna 2001. I versi di Anne Perrier si trovano nell’opera La voie nomade (1982-86), in La voie nomade et autres poèmes. Œuvres complètes 1952-2007, L’Éscampette Éditions 2008. I versi di Kenoūa oult Amāstan si trovano in Chants touaregs recueillis et traduits par Charles de Foucauld (Albin Michel 1997; in origine pubblicati da Charles de Foucauld in due tomi, con il titolo Poésies touarègues, nel 1925 e nel 1930). Sono mie le traduzioni dal francese.

PPS: La fotografia sotto il “booktrailer” raffigura il regista nell’atto di filmare. Anche la fotografia con i fiori blu rappresenta uno scorcio della Greina: le genziane primaticce (Gentiana verna) mi sembrano una buona immagine, se non della felicità, almeno della speranza.

PPPS: Ecco un altro video, sempre girato sull’altopiano della Greina, in cui le parole dell’incipit lottano contro il vento…

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Ultime bozze

Ho appena consegnato le bozze del romanzo, quando mi arriva una mail dalla casa editrice. Monica scrive che, nel controllare le ciano prima del “visto si stampi”, le è venuto un dubbio. A pagina 36 si dice che Annika aveva nove anni, ma poi a pagina 43 si accenna al suo ottavo compleanno. «Che ne pensi? Come correggiamo?» Faccio un respiro. Mi guardo attorno. La carta, dopo avere conquistato la scrivania e la poltrona, ha invaso ogni superficie libera tranne il soffitto. Mi aggiro sul pavimento, trovo le pagine 36 e 43, controllo i miei appunti, verifico l’età del personaggio, cerco altri riferimenti, paragono la mia versione originale con il pdf già impaginato. Com’è possibile che mi sia sfuggita l’età della bambina? Alla fine per fortuna, dopo un’indagine accurata, riesco a ricostruire le vicende di Annika e della sua famiglia.
Chiamo Monica, che risponde al primo squillo.
«Allora?»
«Ha otto anni.»
«Sicuro?»
«Ho controllato.»
«Bene!» Monica sorride. «Allora possiamo andare avanti.»
Non si finisce mai di scrivere un romanzo. Semplicemente, a un certo punto è il romanzo stesso che ha voglia di vedere il mondo e chiede di andarsene per conto suo. Allora ci si preoccupa. Avrà freddo? Fame? Sete? C’è qualche dettaglio da sistemare, qualche imprecisione, qualche parola da sostituire? Fino all’ultimo l’autore aiuta il romanzo a preparare lo zaino per il viaggio. Ma viene il momento in cui autore, editor, correttori di bozze, redattori, tutti si ritirano nell’ombra. Il romanzo viene affidato ai tipografi. È pronto per partire verso l’ignoto.
Gli Svizzeri muoiono felici uscirà nei primi giorni di settembre per l’editore Guanda. È una storia noir, con l’investigatore Elia Contini, ma è allo stesso tempo il diario di una ricerca esistenziale. È anche la cronaca di un incontro fra culture diverse, paesaggi distanti (la montagna, il deserto) e visioni del mondo che sembrano opposte, inconciliabili. Da tempo mi portavo dentro questa vicenda, ma ero bloccato. Sono infine riuscito a scriverla grazie all’incoraggiamento di qualche amico e ad alcune circostanze favorevoli. Si tratta di un romanzo anomalo e avevo il timore di non riuscire a esprimermi in maniera efficace. Mi è stato utile confrontarmi con altri, in fase di scrittura e di revisione; non solo per le questioni tecniche, ma soprattutto per definire meglio ciò che volevo dire.
Per scavare un pozzo a mano, nel Maghreb, bisogna essere in due: una persona che scava e un’altra che porta fuori la terra con un secchio e una corda. Questo succede anche con la scrittura. Non si tratta di un lavoro totalmente solitario, di un confronto con sé stessi nel proprio recinto, perché di continuo il gesto creativo rimanda a un altrove. Il luogo dove nascono le storie rimane misterioso, come un pozzo nella profondità della terra, e le storie stesse acquistano un senso solo se destinate a un lettore, a qualcuno che le accolga e le renda vive.
A proposito di pozzi. I Tuareg raccontano la storia di due compagni di viaggio che, dopo un lungo cammino nel deserto, arrivano a un pozzo parzialmente ostruito. Uno dei due, impaziente, abbevera il cammello, riempie la borraccia e riparte. L’altro si ferma, rimuove le pietre, riesce a calarsi nel pozzo. Dopo qualche metro trova dell’acqua più buona di quella che affiorava alla superficie. Ma c’è un ingombro di materiali che rende difficoltoso attingere a una maggiore profondità. A questo punto, l’uomo s’interroga: devo accontentarmi di questo rivolo o devo scavare ancora, rischiando e faticando, per cercare un’acqua più fresca, più abbondante, più pura?
È una domanda difficile. Per quanto riguarda la scrittura, credo che ciò che mi spinga a inventare nuove storie sia il bisogno di trovare un’acqua sempre più limpida, insieme al desiderio di condividere quest’acqua. Dopo aver scavato il pozzo, infatti, l’uomo non si limita a proseguire il cammino, ma fabbrica un muro di pietre, perché la fonte non si ostruisca di nuovo e perché il prossimo viaggiatore possa dissetarsi.
Nella mia vita mi è successo di arrivare a pozzi soffocati. Ma ho conosciuto anche libri, luoghi, persone che sono per me come pozzi di acqua viva. Proprio in segno di gratitudine continuo a scavare, a costruire storie e personaggi. Ogni tanto mi sfugge qualche dettaglio, come l’età di Annika… ma per fortuna arriva sempre una mail con un’osservazione o un dubbio dell’ultimo minuto. È proprio vero: per costruire un buon pozzo, bisogna essere (almeno) in due.

PS: Il disegno di un pozzo nel deserto risale al 28 ottobre 1885 e proviene dal taccuino di Charles de Foucauld. La fotografia è di Alain Morel: scattata nel Sahara maliano, a nord di Araouane, raffigura un pozzo profondo che permette di abbeverare le carovane di sale provenienti da Taoudenni. È tratta dal saggio dello stesso Morel intitolato Comprendre les déserts, che si trova in AAVV, Le livre des déserts. Itinéraries scientifiques, littéraires et spirituels, a cura di Bruno Doucey (edizioni Robert Laffont 2006).

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L’incanto dell’avventura

Da bambino confondevo la vita con i romanzi di avventura. Il confine tra la realtà e l’immaginazione era sfumato: leggevo Salgari, Verne, Bonelli, mi avvolgevo nelle storie come in una coperta. E mi preparavo a navigare al largo di Capo Horn, a cavalcare nelle praterie, a venire allevato dai lupi o a difendermi dagli strangolatori thugs. Qualche anno dopo, visto che nessuno tentava di strangolarmi, cominciai a rendermi conto che la vita era una faccenda diversa. La mia quotidianità non prevedeva l’abilità nel maneggiare un kriss malese, né la capacità di usare l’astrolabio per tracciare una rotta nei mari del sud. Tutte le mie nozioni su come sopravvivere a un naufragio su un’isola deserta si rivelarono pressoché inutili per affrontare una giornata di scuola. Certo, i naufragi avvengono anche nella quotidianità, ma in maniera più insidiosa, più straziante. Mi resi conto che i romanzi potevano confortarmi nelle circostanze difficili. In un certo senso, il me stesso adolescente raggiunse la consapevolezza del me stesso bambino, in maniera un po’ più tortuosa. I romanzi d’avventura non sono slegati dalla vita, non consistono in una pura evasione. Come tutte le storie, sono un modo per rappresentare il mistero e le contraddizioni degli esseri umani.
Il suo stesso essere nel mondo è per ogni essere umano il miracolo e l’enigma davanti a cui si trova posto e che costituisce l’inquietudine della sua esistenza. Queste parole del filosofo Eugen Fink illustrano bene il concetto. È ingannevole considerare la vita quotidiana come stabile, assodata, sicura. Se i romanzi di avventura servissero anche solo a mantenere desta l’inquietudine, ci renderebbero un immenso servizio. Parlo naturalmente di un’inquietudine che ci spinga a muoverci, a conoscere – pur nel tormento – e non dell’angoscia paralizzante in cui purtroppo ogni inquietudine, talvolta, rischia di sfociare.
Ecco perché, quando apro un libro come Scaramouche, percepisco che sta parlando (anche) di me. È una vicenda di cappa e di spada ambientata nella Francia del XVIII secolo. Il protagonista André Moreau intraprende un cammino rischioso per vendicare la morte del suo migliore amico. Nel corso della narrazione, come accade sempre nelle buone storie, finirà per trovare altro rispetto a ciò che s’immaginava. Scaramouche affronta temi psicologici (il valore dell’amicizia e dei legami di famiglia), sociali (nel corso della vicenda scoppia la Rivoluzione francese) e filosofici (la personalità doppia, la ricerca d’identità). Ma la sua vera forza sta nel dinamismo, nella profonda vivacità dei personaggi. L’autore Rafael Sabatini nacque in Italia nel 1875 e morì in Svizzera nel 1950. Di padre italiano e madre inglese, poliglotta e viaggiatore, fu un cittadino britannico e scrisse sempre in inglese. Nel romanzo affiorano i suoi legami con altre lingue e culture, oltre a un’ironia che si ritrova nei due film tratti dall’opera.
Il primo venne girato nel 1923, appena due anni dopo l’uscita del libro: è un film muto, con la regia di Rex Ingram e Ramon Navarro quale protagonista. Il secondo risale al 1952 e venne diretto da George Sidney, che era uno specialista di musical. Gli attori infatti si muovono con una leggiadria che non capita spesso di vedere nei film d’azione. Uno degli aspetti che mi commuove è proprio questo incanto, questa grazia nell’esserci, nonostante le difficoltà. Questo afferrare la pienezza dell’istante.
Scaramouche è insieme allegro, malinconico, drammatico, crudele, a seconda delle scene. Spesso il regista ferma il tempo narrativo, come si usa nei musical, per inserire sequenze girate con la durata reale. Nel caso dei musical si tratta di canzoni e balletti. In Scaramouche, i balletti sono sostituiti dai duelli con la spada, la cui coreografia è curata in ogni dettaglio. Nella magnifica sequenza dello scontro finale, i due rivali si affrontano all’interno di un teatro, rincorrendosi per più di sei minuti sul palco, nel corridoio, nella platea, nella galleria, mettendo in scena una sorta di “teatro nel teatro”. Goffredo Fofi, nella sua introduzione al romanzo, lo definisce il più lungo e il più bello tra i duelli alla spada nella storia del cinema.

Scaramouche è una storia di avventura, lontana nel tempo e nello spazio, ma è anche la mia vita, con il suo impasto di dolcezza e dolore, malinconia e vitalità, rabbia e tenerezza. Come non essere lì, come non sentirci noi stessi protagonisti, quando leggiamo la prima frase del romanzo? Era nato con il dono della risata e la sensazione che il mondo fosse pazzo.

PS: Le parole di Goffredo Fofi provengono dall’edizione italiana del romanzo, pubblicata nel 2009 da Donzelli (traduzione di Nello Giugliano). La frase di Eugen Fink, da me tradotta, è presa dal saggio Spiel als Weltsymbol (Stuttgart 1960). Il volume è apparso anche in italiano, tradotto da Nadia Antuono con il titolo Il gioco come simbolo del mondo (Hopefulmonster, Firenze 1992).

PPS: Anche la firma di Sabatini (la terza immagine dall’alto), era precisa e leggiadra come un colpo di fioretto.

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Notizie da Elia Contini

Con l’arrivo dell’estate mi ha scritto qualche lettore per chiedermi notizie di Elia Contini, l’individuo un po’ squinternato protagonista di alcuni miei romanzi. Contini è un uomo sulla quarantina, che prova a sbarcare il lunario facendo l’investigatore nella Svizzera italiana. Abita a Corvesco, un piccolo comune del Sopraceneri, e ha un ufficio a Paradiso, vicino a Lugano. Sebbene non lo voglia ammettere, in fondo Contini trova un non so che di romantico nell’idea di fare il detective. In realtà si occupa perlopiù di furtarelli, animali smarriti e litigi tra vicini di casa. Inoltre, quando decide di sparire, è molto bravo nel far perdere le sue tracce: se ne va a camminare in montagna o a fotografare le volpi che abitano nei boschi intorno a casa sua, oppure beve un bicchiere di rosso in compagnia di un vecchio ancora più pazzo di lui, che si è ritirato a vivere in una stamberga a duemila metri di quota.
Perciò, che volete che vi dica? Ogni tanto provo a inviargli una lettera o a telefonargli, ma Contini non sempre mi risponde. Quando ho bisogno di scrivere su di lui, in genere prima o poi si fa trovare. In questo periodo tuttavia sto lavorando ad altri progetti. Non voglio comunque perdere di vista Contini, quindi ho cercato di fare qualche indagine (vi farò sapere). Intanto, nell’attesa, ho scovato un raccontino ancora inedito che mi pare adatto alla stagione.

Mojito

Di recente, mi hanno dato una mano a stanare Contini due brave maestre di scuola elementare. Qualche mese fa Valeria Menghini e Tania Beretta, insieme ai loro allievi di quinta, mi invitarono a raccontare la mia esperienza di lettore e di scrittore. Per i bambini si trattava di una tappa all’interno di un percorso didattico molto affascinante e ben strutturato. Nei mesi successivi, in collaborazione con Barbara Bottazzi (la direttrice didattica della Scuola Yanez), gli alunni si sono impegnati a scrivere una serie di racconti, mettendo a frutto gli insegnamenti delle maestre e le scoperte fatte come lettori.
Nel mezzo dell’avventura i bambini si sono cimentati anche con la figura di Elia Contini. Ognuno di loro ha provato a immaginarlo, seguendo la propria fantasia. E io, che da parecchio non avevo sue notizie, ho ricevuto un bellissimo regalo (da me subito inviato a Corvesco): una serie di ritratti dell’investigatore, tutti diversi ma tutti a modo loro precisi nel delineare la sua personalità enigmatica.
Alla fine dell’anno le due maestre hanno fatto stampare un piccolo libro con le storie dei bambini, come ricordo di un’esperienza creativa non soltanto letteraria e linguistica. Mi ha colpito, oltre alla spontaneità e alla fantasia, l’attenzione nel miscelare la propria quotidianità con i fatti sorprendenti necessari all’intrigo poliziesco. Dietro, s’intuisce un lavoro sulla precisione e sulla cura per i dettagli. Tania e Valeria lo hanno detto bene nell’offrire il libro ai loro allievi: Non avete solo imparato a scrivere, ma anche a pensare e questo è l’apprendimento più prezioso, perché vi consentirà di conoscere meglio voi stessi e il mondo che vi circonda.

PS: Mi è capitato spesso d’incontrare bambini o ragazzi nelle scuole, nella Svizzera italiana, in Italia, nella Svizzera francese o tedesca e anche in paesi più lontani (la Germania, la Russia, la Cina, la Tunisia, la Turchia…). La curiosità e l’entusiasmo degli studenti (e degli insegnanti) sono sempre un’occasione preziosa per riflettere sul mio lavoro. Insieme ai ragazzi di Breganzona e alle loro maestre (compresa Cristiana Spinedi, i cui allievi erano presenti all’incontro), ringrazio i docenti e gli allievi di tutte le scuole (elementari, medie, liceo, università) che negli anni mi hanno invitato e accolto.

PPS: Questa settimana, nella Svizzera italiana, è finito l’anno scolastico: a tutti, un augurio di buone vacanze!  L’anno scorso, avevo ricordato qui i miei esami di maturità. In settembre, invece, avevo scritto qui una divagazione sul primo giorno di scuola. Presto o tardi dovrei decidermi a parlare anche delle vacanze…

PPPS: Sul sito andreafazioli.ch trovate informazioni a proposito dei sei romanzi con Elia Contini e delle loro traduzioni. L’opera più recente, pubblicata dall’editore Guanda nel 2016, s’intitola L’arte del fallimento (qui sotto potete vedere il “booktrailer”). Sempre del 2016 è il racconto breve Lezioni private, offerto da Guanda gratuitamente in formato digitale (lo trovate qui). Qualche settimana fa, Guanda ha ristampato L’uomo senza casa, edito per la prima volta nel 2008.

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Di palombari e montagne

Era un giorno d’estate quando Tommi, svegliandosi la mattina, decise di ammazzare qualcuno. La sera non aveva chiuso le gelosie, così prima che suonasse la sveglia un raggio di sole l’aveva già strappato dal sonno. In realtà non fu una vera e propria decisione, ma una vaga idea che si diffuse tra i residui di sogno e il primo pensiero cosciente.
Comincia così il mio romanzo L’uomo senza casapubblicato nel 2008 da Guanda e ristampato poche settimane fa in edizione tascabile (da tempo era esaurito). In questi giorni sono tornato a sfogliare questo libro, per preparare una conferenza che terrò venerdì 2 giugno alle 18 a Malvaglia, nell’Atelier Titta Ratti (proprio a Malvaglia è in parte ambientata la vicenda).
L’uomo senza casa racconta di un paese di montagna sommerso dall’acqua per la costruzione di una diga. In quel villaggio è cresciuto Elia Contini, che tanti anni dopo tenta di sbarcare il lunario inventandosi il mestiere d’investigatore privato nella Svizzera italiana. E nello stesso villaggio è nato anche Tommaso Porta. Tommi è un coetaneo di Contini, un uomo fragile, squilibrato, che negli anni ha covato sempre di più un sentimento di odio e rancore. Piano piano, intorno a quel lago di montagna e a quelle case sommerse, cresce la tensione, la rabbia, la violenza fisica e quella burocratica, altrettanto temibile.
Per l’idea del lago artificiale e delle case sotto l’acqua mi sono ispirato a un ricordo d’infanzia. Quando avevo circa dodici anni, mi capitò di salire con i miei famigliari in valle Malvaglia, dove nacque la mia bisnonna Maria Abate (poi Maria Maggini). La sua famiglia viveva la transumanza stagionale, facendo la spola fra il villaggio principale e i vari maggenghi e alpeggi o “monti”. Il più alto è in una valle laterale, la val Combra, e si chiama Pulgabi.
Salimmo dunque fin lassù e passammo lungo la diga, dove sulla destra c’è la galleria dentro la roccia che sbuca sul sentiero per la val Combra. Mio padre mi spiegò che sotto quella massa di acqua immobile erano seppellite cascine, stalle, campi, muretti e sentieri. E anche un oratorio con porticato. Davanti a quell’oratorio sostavano le donne che salivano ai vari “monti” con la gerla sulle spalle. Camminavano insieme da Malvaglia; all’oratorio, dopo una preghiera, le donne che proseguivano per la valle Malvaglia si separavano da quelle che salivano verso la val Combra. Anche la mia bisnonna ragazzina e con lei sua madre si saranno fermate decine di volte sotto quel porticato. Mio padre mi raccontava che l’oratorio è ancora in piedi, giù in fondo al lago, come un resto spettrale, acquatico, quasi il fantasma di una vita perduta.
Anni dopo, scrivendo L’uomo senza casa, modificai molte cose, cambiai la cronologia degli eventi e immaginai che sotto il lago ci fosse un intero villaggio, con la casa di famiglia di Tommi Porta e anche quella di Elia Contini. Seguendo il filo della storia, mi accorsi che quelle casupole di sasso, sepolte al buio e al freddo della dimenticanza, avevano ancora una storia da raccontare. C’erano vecchi delitti, segreti da non rivelare, nodi da sciogliere. E allora ecco che Contini diventa palombaro, per un tuffo nell’acqua azzurra e soprattutto per un tuffo dentro il tempo, anch’esso azzurro e misterioso, come le montagne che appaiono in lontananza.
La vicenda poliziesca si sviluppa fra omicidi e imbrogli legati alla speculazione edilizia. Sullo sfondo, c’è anche il riciclaggio di denaro di un giro di società off shore. La mia intenzione narrativa era quella d’intrecciare l’aspetto più spettacolare e poliziesco con la risonanza più intima e sommessa della diga, della casa in fondo al lago, del viaggio che ognuno di noi prima o poi deve intraprendere alla ricerca di un luogo da chiamare “casa”.
Elia Contini, il protagonista, è cresciuto in un paese di montagna. Dopo tanti anni torna alla diga di Malvaglia e si ferma a guardare la superficie dell’acqua, pensando a suo padre, alla sua infanzia, al passato che ancora lo avvolge e gli impedisce di andare avanti. Più in là, nel corso del romanzo, Contini e gli altri personaggi verranno sorpresi da una grande nevicata. Le vie di comunicazione sono bloccate. È la nevicata del decennio, che trasforma completamente il paesaggio. E Contini si trova in montagna, nel cuore del bosco, lontano dal sentiero.

Si spazzolò la neve dal corpo, battendo le mani per scaldarsi. Nel mezzo di una notte d’inverno, quando fa davvero buio, il bosco parla a chi lo sta a sentire. Ogni fruscio, ogni scricchiolio di corteccia e ogni tonfo sulla neve raccontano una storia. Prima di rimettersi in viaggio, Contini rimase in ascolto per qualche secondo. Da qualche parte, quella notte, le volpi andavano silenziose in cerca di cibo. I vecchi alberi gemevano sotto il peso della neve e il ghiaccio stringeva l’acqua dei ruscelli. Contini riprese a camminare. Quello era il suo territorio, era il suo bosco. E lui quella notte avrebbe chiuso i conti con il passato.

Ancora oggi, quando cammino in montagna, mi capita di sentirmi preso nella stessa morsa. Non sono coinvolto in vicende di delitti o riciclaggio di denaro, naturalmente, ma sento il medesimo strazio che invade l’animo di Contini. In qualche modo le montagne sono memoria del mio passato, delle cose scomparse. Nel gesto del camminare, nella libertà dei pensieri e nel mutare repentino delle stagioni cerco di trovare la forza per andare avanti, per vedere, per sentire, per vivere le cose vecchie come fossero nuove. Non è forse così? Se uno guarda con attenzione, le cose non sono sempre nuove?
Venerdì prossimo, all’Atelier Titta Ratti, tornerò per una volta a presentare L’uomo senza casa, anni dopo la prima uscita. Sarà come viaggiare nel passato; tuttavia cercherò di non restare ingabbiato, ma di interrogarmi sull’evoluzione della mia scrittura. Intorno saranno esposte le immagini legate al libro d’artista Commistioni, segni e voci in un territorio di Carla Ferriroli. Nel volume sono presenti le incisioni dell’artista insieme ai testi degli scrittori Remo e Sandro Beretta. Carla Ferriroli ha voluto compiere una ricognizione nel territorio d’origine, provando a esaminarlo con uno sguardo differente, tornando in quei luoghi e in quei paesaggi che quando ci si stava dentro apparivano scontati ma che nella lontananza diventano un frammento importante di memoria. È un percorso innovativo ma nello stesso tempo innestato su una consuetudine. Ciò che io potevo fare, partendo dalla mia attività artistica, era di prendere il mio taccuino e guardare e disegnare, muovendo lo sguardo, fattosi più attento, tra montagne e prati e case, nella quiete di giorni silenziosi: una curiosità girovaga, con la matita, la penna o i pastelli in mano.
Spesso, nelle opere che parlano di montagna, è centrale il tema dell’abitare: il desiderio di tornare a casa, oppure quello di riuscire a comprendere le poprie origini. Ho trovato questa domanda anche nel bel romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne (Einaudi 2016). Il protagonista sale su una vetta e, nel quaderno con le firme degli alpinisti, scopre due righe scritte da suo padre l’anno precedente, poco prima di morire: Tornato quassù dopo tanto tempo. Sarebbe bello restarci tutti insieme, senza vedere più nessuno, senza dover scendere a valle. Un messaggio del genere non può che suscitare domande. Tutti chi?, mi chiesi. E io dov’ero quel giorno? Chissà se aveva già cominciato a sentirsi il cuore debole, o che cos’altro gli era successo per scrivere quelle parole. Senza dover più scendere a valle. Era lo stesso sentimento che gli aveva fatto sognare una casa nel posto più alto, impervio e isolato, dove vivere lontano dal mondo.
Venerdì sera, a Malvaglia, cercherò di capire che cosa significhi sognare una casa nella mia scrittura. Insieme alle opere di Carla Ferriroli ci sarà la musica di Stefano Moccetti. A un certo punto, come succede sempre, le parole non basteranno più, e allora per dare un’occhiata a ciò che si nasconde sotto il lago, non resterà che affidarsi alle note della chitarra…

PS: Il video qui sopra è stato registrato al festival di Montreux il 14 luglio 1986. Al concerto parteciparono Michel Petrucciani (piano), Wayne Shorter (sax tenore) e Jim Hall (chitarra). Beautiful love è un duetto fra Petrucciani e Hall, durante il quale due artisti di generazione e di esperienze diverse si trovano mirabilmente e riescono a costruire, nell’immediatezza di un dialogo, qualcosa di nuovo.

PPS: Le parole di Carla Ferriroli, così come l’incisione riprodotta sopra, sono tratte dal libro d’arte Commistioni, al centro di un’esposizione all’Atélier Titta Ratti di Malvaglia fino al 5 giugno 2017. L’immagine della volpe è una cartolina che mi hanno inviato; non so chi sia l’autore.

PPPS: Del romanzo L’uomo senza casa avevo già parlato qui.

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