L’uomo senza casa

IMG_9877Ho sempre cercato una casa. Già quando ero bambino, ricordo, mi capitava di sognare una dimora misteriosa, che conteneva file e file di letti, uno per ogni persona che conoscevo. Era uno strano edificio in mezzo ai campi, di colore bianco, anche se in certi sogni diventava una sorta di enorme astronave circolare, che avanzava nello spazio buio e sconosciuto, privo di stelle. L’astronave era luce, presenza di amici, certezza che il tempo non sarebbe finito mai. Quella era la casa.
IMG_9887Nella mia vita ho vissuto in diverse abitazioni, ma mi sono presto reso conto che nessuna di esse bastava a racchiudere ciò che per mancanza di parole più precise continuo a chiamare “casa”. Non desidero diventare proprietario di un edificio, e in ogni caso non sarei tanto ingenuo da pensare che un atto di proprietà possa davvero darmi una casa. Non si tratta di muri e di mobili, né di un giardino con un grill o di un locale hobby nello scantinato. Casa non è famiglia, non basta la famiglia, casa non è tanto meno patria, e neppure sicurezza o lavoro o connessione wi-fi o figli da crescere. È qualcosa che potrei descrivere come un luogo ideale a cui appartenere; un territorio vasto, dove ci si può perdere, ma nel quale riconoscere i punti di riferimento dell’amicizia, della condivisione, della tenerezza.
IMG_9891Nel 2007, scrivendo il romanzo L’uomo senza casa (Guanda 2008), riflettevo proprio su questi argomenti, e tentavo di catturare una definizione che continua a sfuggirmi. Che cos’è che è? La scrittrice Clarice Lispector si pone proprio questa domanda. Se ricevo un regalo dato con affetto da una persona che non mi piace, come si chiama quello che provo? Una persona che non ci piace più, e a cui non piacciamo più, come si chiama questo dispiacere e questo rancore? Essere indaffarati, e improvvisamente fermarsi perché colti da un ozio beato, miracoloso, sorridente e idiota, come si chiama ciò che si è sentito? L’unico modo per chiamare una cosa è chiedere: come si chiama? Finora sono riuscita solo a dare un nome tramite la stessa domanda. Qual è il nome? ed è questo il nome. Anche nel mio caso, dietro la vicenda romanzesca, c’era una domanda – che cosa significa “casa”? – che riuscivo a esprimere unicamente sotto forma di domanda.
FazioliCASA-03.inddL’uomo senza casa racconta di un villaggio di montagna sommerso dall’acqua per la costruzione di una diga. Proprio in quel villaggio è cresciuto Elia Contini, che ora tenta di sbarcare il lunario come investigatore privato nel micro territorio della Svizzera italiana. Ormai non pensa più alla casa della sua infanzia, sepolta sotto litri e litri di acqua, finché un omicidio turba la vita più o meno tranquilla del paese di Malvaglia; e in qualche modo questo delitto è legato alla grande diga, al lago artificiale che dorme pacifico in mezzo ai boschi.

1La diga era sempre lì, sempre uguale. Una lastra grigia che chiudeva il cielo e che pareva la prua di una gigantesca nave incastrata fra le montagne. A vederla da sotto faceva quasi paura. Contini lasciò la macchina in basso e salì a piedi. Dopo un po’ si tolse il cappotto e lo piegò sul braccio: era una bella salita.
Il cielo era limpido. Non si udiva nessun rumore. Ogni tanto si alzava un soffio di vento e la macchia rossa di una bandiera svizzera, accanto a una delle case sotto la diga, segnava la presenza dell’uomo. A un certo punto, passando di fianco alla parete di cemento grigio, Contini udì un ronzio fievole, come il respiro di una bestia dormiente. La diga avrebbe potuto essere un grosso animale, una balena addormentata nel solco della valle.
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Ma è soltanto una diga, pensò Contini. Si fermò. Dalla strada in basso giunsero le note del clacson di un autopostale. Do diesis, mi, la: il richiamo inconfondibile della Posta svizzera. Contini sbuffò e riprese a salire.

L’uomo senza casa era da qualche tempo esaurito, disponibile soltanto in versione digitale. Ora Guanda lo ha appena ripubblicato in edizione tascabile, con una nuova copertina. L’originale presentava un bellissimo disegno dell’artista Guido Scarabottolo; in questo nuovo formato c’è un’illustrazione, altrettanto evocativa, ideata da Mariagloria Posani.
IMG_9883Ho ricevuto ieri qualche copia del romanzo e mi sono divertito a sfogliarlo: tanti anni dopo, mi sembrano le parole di un altro. Qua e là, tuttavia, riconosco l’urgenza della mia domanda. Dietro la suspense e i colpi di scena, dietro gli omicidi e i lunghi inseguimenti sotto la neve, tutti i personaggi stanno cercando – ognuno a modo suo – un luogo da poter chiamare “casa”. Ho riscoperto qualcosa di me stesso anche nella figura dell’assassino, con la sua inquieta solitudine che talvolta sembra irreparabile, e forse pure nel giovane avvocato Chico Malfanti, inesperto del mondo ma desideroso di conoscere, di avvicinarsi al segreto della quotidianità. La vicenda porta i protagonisti su e giù per il Canton Ticino, con una deviazione alle Isole Vergini Britanniche (c’è di mezzo un imbroglio legato alla speculazione edilizia, al riciclaggio di denaro e alle società off shore). Ho riletto la sequenza ambientata a Bellinzona, durante il carnevale Rabadan, e mi sono divertito a seguire il giovane avvocato e lo scorbutico investigatore nelle scintillanti notti luganesi.

69055615@1200*1200-mEra una serata qualunque dell’inverno luganese, con dj Kevin che tuona sopra il parterre del Casanova, promettendo «il sound più assolutamente fuori di tutta Lugano city», mentre giovani lupacchiotti figli di avvocati o banchieri prenotano i tavoli ed escogitano qualcosa per far ridere le ragazze. Fiumi di martini e tequila inondano il locale, la conversazione lotta contro i decibel, finché perfino qualche ragionevole figlio d’impiegato o nipote di pediatra si lascia andare e s’informa: «Ma quanto costa una bottiglia di spumante?»

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Forse, mi viene in mente ora, forse una casa ce l’ho. Non sempre sono pronto a riconoscerla, a volte la perdo o la rifiuto, a volte mi aggiro nelle strade buie dei miei pensieri e mi pare di essere strappato via dal mondo, dalla sua normalità. Se anni fa scrissi questo romanzo, se oggi continuo a scrivere, è soprattutto per portare avanti la mia ricerca, per precisare il mio cammino. A volte ho l’impressione di scrivere semplicemente per intensa curiosità. Il fatto è che, scrivendo, mi abbandono alle più insperate sorprese. È mentre scrivo che spesso prendo coscienza di cose che, essendone prima incosciente, non sapevo di sapere.

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PS: Quest’ultima citazione, così come quella sulla domanda Che cos’è che è?, proviene da La scoperta del mondo (1967-1973), una raccolta di articoli dell’autrice brasiliana Clarice Lispector, pubblicata in italiano da La Tartaruga nel 2001. Le altre citazioni sono tratte da L’uomo senza casa. Trovate qui la scheda del romanzo (oppure sul sito della casa editrice o sul sito Il Libraio).

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Montefusco

Era un giorno d’estate. Me ne stavo davanti al computer, nella penombra della mia stanza, e cercavo di mettermi nei panni di Teresa Manganiello, una contadina vissuta nel XIX secolo in Irpinia (nell’attuale provincia di Avellino). C’era da colmare una distanza geografica e psicologica: io uomo, lei donna; io scrittore, lei analfabeta; io con i miei guai ordinari, lei proclamata beata dalla Chiesa cattolica nel 2010. In più, non sapevo niente dell’Irpinia. Che fare? L’unica era non pensarci e mettermi a scrivere, giocando proprio sulla distanza, sulla lontananza che paradossalmente può creare legami invisibili e profondi. Come dice Attilio Bertolucci in una sua lirica, talvolta l’assenza può diventare una più acuta presenza.
img_7194Ho raccontato qui (e anche qui) come per avventura mi sia trovato a scrivere La beata analfabeta, il romanzo uscito da poco per le edizioni San Paolo. Anche dopo la pubblicazione, tuttavia, per me i luoghi di Teresa erano rimasti un territorio appartenente all’immaginazione. Finché, pochi giorni fa, sono andato a presentare il libro nel cuore dell’Irpinia, a Montefusco.
Mi emoziona sempre scoprire un luogo sconosciuto, vicino o lontano; e l’emozione è più intensa quando ho letto una storia che si svolge proprio lì. Ma è ancora più strano arrivare per la prima volta in un posto dove – senza esserci mai stato – ho ambientato un intero romanzo.
img_8413Naturalmente mi ero documentato: ho visto video e fotografie, ho letto libri e incarti, mi sono avvalso dell’aiuto di chi conosce quella zona. Volevo essere preciso nei dettagli. Ho cercato di suscitare nella mia testa gli odori, i sapori, anche la durezza della terra. In un certo senso, ho disegnato il paesaggio di una “mia” Irpinia, che non corrisponde per forza a quella reale. Tuttavia, appena arrivato, avevo la sensazione che ogni cosa coincidesse, che tutto fosse fin troppo ovvio: le colline, i vigneti, le gallerie, le insegne ai bordi della via. Dov’erano i miei personaggi? Dov’era Teresa? Non che mi aspettassi d’incontrarli per strada, ma avrei voluto sentirne almeno l’atmosfera. Proprio come mi succede quando, in un bistrot di Parigi, pur senza vederlo, percepisco la presenza massiccia del commissario Maigret, il fumo del suo tabacco Caporal. Invece l’Irpinia era soltanto l’Irpinia, senza punti di fuga.
img_8431Ma come capita nei viaggi, la realtà aspetta soltanto che siamo distratti per coglierci di sorpresa. Mentre salivo verso Montefusco, osservando il paese che appariva da lontano come una nave rovesciata, ho intuito che il paesaggio mi stava aprendo le braccia. E lassù, finalmente, guardando i tetti che digradavano verso la campagna sterminata, ho trovato il mio punto di fuga: il paesaggio era come l’avevo descritto e, nello stesso tempo, era misterioso.
img_8430L’ascesa verso Montefusco non era un percorso solo fisico, ma una ricognizione lungo le asperità del mio immaginario. Il cielo nuvoloso, le colline grigie che sfumavano in lontananza, la mole azzurra degli Appennini: un tempo e uno spazio inconoscibili si mescolavano alle coordinate geografiche, nell’ultima luce del giorno. Ogni frammento di realtà, finalmente, era “atmosfera”: la luce, i lampioni, il taglio austero degli edifici. I miei personaggi si erano mossi fra quelle sensazioni. Compreso il narratore, il giovane Matteo Maggi, un insegnante disoccupato che si trova a dover scrivere un saggio su Teresa Manganiello.

Le vie di Montefusco salivano a strappi, con tagli improvvisi, curve, piccole aperture segrete, angoli nascosti fra la parete di un palazzo e una piccola automobile parcheggiata chissà come di traverso. Palazzo Ruggiero, san Giovanni del Vaglio, via Pirro de Luca, la Torre civica persa nella nebbia… le strade che avevo imparato a conoscere prendevano un aspetto diverso, come se fossimo fuori dal tempo o, in ogni caso, fuori dalla quotidianità. Il corso, il palazzo baronale, ogni cosa aveva un aspetto inquietante. Un arco gotico sopra un vicolo diventava di colpo un passaggio verso una dimensione sconosciuta. E allora ogni parola, nel momento in cui risuonava, era pericolosa.

img_8404Elena Di Renzo, una delle protagoniste, a un certo punto cita un pensiero di Friedrich Hölderlin: Tutto è intimo. Questo vale per l’avventura dell’animo di Teresa, che senza muoversi dalla sua fattoria seppe raggiungere profondità spirituali straordinarie. Ma vale anche per Matteo, per la stessa Elena. Ognuno, a suo modo, impara che cosa significhi l’accoglienza: le cose ci accadono davvero solo quando le lasciamo entrare nella nostra sfera più intima.
Anche per me, a Montefusco e a Pietradefusi, tutto era insieme intimo e segreto. La serata di presentazione del romanzo mi ha colto di sorpresa, proprio come aveva fatto la visione di Montefusco. Ho ascoltato le analisi dei critici, ho parlato con lettrici e lettori, e mi sono posto nuove domande sul mio libro, sui miei personaggi. Poi la sera, tornato in albergo, mentre dalla mia finestra contemplavo un Babbo Natale luminoso che puntava verso l’alto (più o meno in direzione di Montefusco), ho pensato che in fondo uno scrittore non capisce mai davvero i suoi personaggi. Ed è proprio questo il bello della scrittura.

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PS: I versi di Bertolucci provengono dalla lirica Assenza, tratta dal suo primo volume, intitolato Sirio (pubblicato dal poeta diciottenne nel 1934, ora nelle Opere edite da Mondadori). Ecco il testo completo: Assenza, / più acuta presenza. / Vago pensier di te / vaghi ricordi / turbano l’ora calma / e il dolce sole. / Dolente il petto / ti porta, / come una pietra / leggera.

PPS: Voglio esprimere un grande ringraziamento alla scrittrice Antonietta Gnerre, che mi ha aiutato nella scrittura e che conosce Teresa Manganiello fin da bambina (ecco qui un suo intenso articolo dove parla sia dell’Irpinia, nelle circostanze drammatiche del terremoto, sia di Teresa). Ringrazio anche, per le belle parole sul romanzo, Rita Pacilio e Cosimo Caputo. Son grato pure a padre Antonio Salvatore, a suor Concetta Emanuela Zaccaria, a Teresa Lombardo, a Saverio Bellofatto, a Pietro Luciano, a Fiorenzo Troisi e a Melania Panico, per la loro accoglienza e per la loro gentilezza. Un pensiero a Fausto Baldassarre e a Pino Tordiglione, le cui opere mi sono state di aiuto. Non posso citare qui tutti i presenti a Montefusco, ma a tutti esprimo la mia gratitudine; in particolare, ringrazio i membri dell’Associazione Premio Prata e la giuria del premio Anfiteatro D’Argento.

PPPS: Dopo Milano e Montefusco, si parlerà del romanzo La beata analfabeta pure in Svizzera, nel corso di una serata con Luca Doninelli. L’incontro, durante il quale Doninelli parlerà anche del suo romanzo Le cose semplici (Bompiani), si terrà lunedì 12 dicembre alle 20.30, nell’Aula magna delle Scuole elementari di Massagno.

PPPPS: La prima fotografia, che rappresenta Montefusco, è di Antonietta Gnerre. È fuori stagione… ma il paese si vede bene. Le altre, invece, sono state scattate durante il viaggio.

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Elogio degli invisibili

Che cosa accade a un romanzo, dopo che l’hai scritto? Se viene pubblicato, se qualcuno lo legge, vuol dire che la tua presenza non è più necessaria. Ma dove vanno a finire quei personaggi, quel mondo che era così intimamente tuo? E tu, che hai trovato questa storia e hai provato a narrarla, tu – autore – hai ancora il diritto di aggirarti nel “tuo” mondo?

Di recente mi è capitato di prendere in mano una copia del mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda). Ho sfogliato qualche pagina: mi parevano le parole di un altro. Allora Mario, il suo tormento, il suono del sax fra i mobili di Dolcecasa, i tatuaggi di Lisa, Contini che si aggira nei boschi… tutto questo non è più roba mia? Di sicuro, è ancora radicata dentro di me la domanda su che cosa sia il fallimento, su come si manifesti nella nostra vita.
img_7161Mi è tornata in mente una lirica di Walt Whitman, che avevo letto anni fa. Il titolo è A quelli che hanno fallito. Ecco la traduzione (qui l’originale): A quelli che avevano alte aspirazioni, e hanno fallito, / ai militi ignoti caduti in prima fila, combattendo, / ai macchinisti tranquilli e fedeli – ai viaggiatori troppo 
ardenti – ai piloti nelle loro navi, / ai numerosi sublimi canti o dipinti mai riconosciuti –
 vorrei erigere un monumento tutto coperto
 d’alloro, / alto, più alto di ogni altro – / a quanti furono falciati
 prima del tempo, / posseduti da uno strano spirito di fuoco,
 spenti da una morte precoce.
Queste parole, in maniera curiosa, mi hanno restituito L’arte del fallimento. Da sempre la mia attenzione è attratta dai militi ignoti, da quelli che sono posseduti (e bruciati) da uno strano spirito di fuoco. Non sono per forza vicende epiche: tracce di storie perdute s’insinuano pure tra i frammenti della quotidianità. Nel romanzo, Mario non riesce a trattenere uno sfogo.

«Una volta sono passato davanti alla casa di un mio compagno delle medie. Cioè, la casa dei suoi genitori: lui si è bruciato il cervello con le droghe a vent’anni, ora ne dimostra cinquanta e gira per la città parlando da solo. Un altro compagno invece ha due bambini, organizza le feste di compleanno dei figli e applaude ai loro saggi musicali. Perché? Che cosa è successo a quei due, che erano nella stessa classe?»
Mario riprese fiato. Il silenzio intorno era irreale. Pareva che Lisa non respirasse nemmeno.
«Chi li vede mai tutti gli sbandati, quelli rimasti indietro, quelli che si sono schiantati, gli sfigati, quelli che a quindici o a venticinque anni hanno avuto il loro momento di gloria e adesso fanno finta che sia tutto normale? Guarda, il mondo è pieno di falliti che non si riprendono.»

I fallimenti sono ovunque: nella cronaca, nei luoghi di lavoro, nello sport. In un breve capitolo di Addio al calcio (Einaudi 2010), Valerio Magrelli riassume la vicenda di Claudio Valigi: nato nel 1962, centrocampista brillante, all’inizio degli anni Ottanta era conteso da varie squadre di Serie A. Acquistato dalla Roma, partecipò alla vittoria dello scudetto 1982-83. L’allenatore Niels Liedholm lo soprannominò “erede di Falcão”, per una somiglianza nello stile con il campione brasiliano. Da quel momento, non seppe mantenere le aspettative: passò al Perugia, al Padova, giocò a Messina, Benevento, Mantova, finché abbandonò l’attività agonistica. Claudio Valigi – commenta Magrelli – è il nostro milite ignoto. Rappresenta le decine di migliaia di ragazzi caduti sul percorso della gloria senza arrivare a ottenerla.
img_7156Non sempre, tuttavia, l’invisibilità è sinonimo di fallimento. Certo, il percorso professionale di Valigi sembra una sconfitta. Ma che cosa ne sappiamo noi del suo destino, della sua coscienza, del suo modo di stare al mondo? Ci sono smarrimenti inevitabili, che non sono il prologo di una vittoria né un insegnamento di saggezza; ma che, semplicemente, ci rendono noi stessi. E non è poco.
Se c’è una speranza, secondo me, essa proviene dagli “invisibili”. Sono quelle figure che si muovono nel profondo della vita reale, lontani dagli specchi mediatici e dal tam-tam impazzito dei social network. Magari ci sono tanto prossimi che li diamo per scontati: un collega, un insegnante, un vicino di casa. I loro segni distintivi sono la discrezione, la pazienza, la serenità. Non sono per forza nostri amici intimi, ma si rivelano nei momenti drammatici. Per una persona inquieta, come me, la presenza di queste figure è un appiglio: un pro-memoria, perché il caos non prevalga.
image1Tempo fa ho cenato in una casa dove, sopra il camino, c’erano alcuni pezzi di pietra che parevano frammenti di un dipinto. Mi hanno spiegato che nei paraggi era crollata una cappella votiva, una fra le tante che punteggiano i sentieri di montagna, senza particolare valore artistico. Prima che sgomberassero le macerie, qualcuno era riuscito a salvare qualche residuo. Di chi sono quegli occhi, quella bocca scampati al crollo dell’affresco? Nessuno può dirlo: il “santo invisibile” se ne sta fermo sulla mensola, chiuso nel suo silenzio. Anzi, in un certo senso – contro ogni previsione – si è mosso. Da un paese di montagna è atterrato qui, sul mio blog, dove continua a fare ciò che faceva da sempre: guardarci.
Ho incrociato di recente il percorso di un’altra figura religiosa, stavolta provvista di nome e cognome: si tratta di Teresa Manganiello (1849-76), vissuta a Montefusco, in Irpinia, e proclamata beata nel 2010. Non sapevo niente di lei, finché un anno fa mi proposero di scrivere la sua storia per le edizioni San Paolo. Il libro avrebbe fatto parte di una nuova collana, “Vite esagerate”, il cui intento era di raccontare persone legate alla fede, ma di farlo in maniera laica, non agiografica, con un’attenzione agli aspetti umani delle vicende.
img_7169All’inizio ero scettico, non avendo esperienza di questo tipo di narrazione. Mi spiegarono che era questa l’idea: un approccio personale a una figura già raccontata (pure in un film della RAI) e già studiata dagli specialisti. Con un pizzico di follia, accettai. Era una bella sfida, anche perché il percorso di Teresa è intrigante: morì ad appena ventisette anni, dopo una vita senza scossoni, sempre in un piccolo paese di campagna. Com’è possibile che sia sfuggita all’oblio, che qualcuno si ricordi di lei? Eppure c’è perfino un ordine religioso nato dal suo esempio: le suore francescane immacolatine, presenti in tutto il mondo. Sebbene non abbia compiuto azioni clamorose, aveva un carisma che seppe affascinare prima i suoi compaesani e poi molti altri, fra cui anche dotti e sapienti. La cultura non proviene solo dall’alfabeto: Teresa non sapeva né leggere né scrivere, ma aveva sviluppato una conoscenza approfondita delle piante e delle erbe medicinali, che usava per curare i poveri, i prigionieri, gli invisibili derelitti che non mancavano nella sua epoca, così come nella nostra.
img_7194Ho potuto avvalermi dellaiuto di Antonietta Gnerre, poetessa e giornalista che vive in Irpinia e che ha scritto la postfazione del romanzo. Grazie ai suoi preziosi consigli, ho viaggiato idealmente fra le vie di Montefusco, cercando di risalire il tempo e di identificarmi – io, scrittore del XXI secolo – con una contadina analfabeta di duecento anni fa. Il romanzo si trova in libreria; sulla quarta di copertina c’è questa frase: Teresa Manganiello è un’anomalia. Non è figlia del suo tempo, non è il prodotto di un’educazione e di una cultura. È un imprevisto, un mistero che si è manifestato un giorno qualunque.

PS: La lirica di Whitman risale al 1888-89 e proviene da Sands at Seventy (“Granelli di sabbia dei settant’anni”), nel volume Foglie d’erba, con la traduzione di Alessandro Quattrone (Demetra 1997). Il romanzo La beata analfabeta verrà presentato a Milano lunedì 10 ottobre, alle 18, nella Libreria San Paolo di via Pattari 6. Sarà presente anche il curatore della collana, Davide Rondoni (trovate qui il suo breve commento).

PPS: La fotografia di Whitman proviene da internet; quella di Montefusco è di Antonietta Gnerre (è scattata da un luogo dove probabilmente Teresa passava spesso, nelle sue escursioni alla ricerca di erbe curative).

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La mauvaise réputation

Perché la Svizzera è una nazione?
Ogni tanto Natalia se lo domandava. Gli svizzeri non parlano la stessa lingua, non hanno la stessa religione e nemmeno la stessa cultura, non mangiano le stesse cose, non si vestono allo stesso modo. Perché hanno deciso di stare insieme?
Ci sono ragioni storiche, Natalia lo sapeva. Ma se incontrava uno svizzero tedesco, faticava a comprendere ciò che le diceva. È mai possibile che due compatrioti non possano comunicare? Del resto, la stessa Natalia era un esempio perfetto del mistero elvetico: era fiera del suo paese e non lo avrebbe cambiato con nessun altro, anche se aveva rinunciato a capire lo schwitzerdütsch. In fondo, gli svizzeri hanno almeno il privilegio di poter andare all’estero restando in patria.
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Nel romanzo La sparizione, pubblicato da Guanda nel 2010, raccontavo di un delitto avvenuto durante la festa nazionale svizzera del primo di agosto. La protagonista Natalia, una ragazza di diciassette anni, si trova in un paese fra le montagne del Canton Ticino. È triste, perché da poco ha perso suo padre, ma come ogni anno appende alla finestra la bandiera rossa con la croce bianca: era un gesto che faceva insieme a suo padre, ora è un modo per ricordarlo.
Penso che la patria sia soprattutto questo: un legame con chi è venuto prima di noi. Da qualche parte su questa terra dobbiamo pur vivere, e non si può vivere senza condividere parole, usanze, ricordi. Ecco, questa condivisione fra vicini di casa con gli anni diventa una bandiera, una costituzione, un insieme di leggi. Ma tutto questo ha valore solo se riesce a incarnarsi nel filo dei giorni, nella banalità dei gesti quotidiani più che nella retorica. Non sono mai stato particolarmente patriottico, né mi sono mai appassionato alla politica; ai discorsi durante le cerimonie ufficiali preferisco il silenzio che segue quando tutto è finito e qualcuno smonta il palco. Il fatto che io sia un cittadino svizzero in fondo è casuale: potrei essere nato altrove o potrei condurre vita nomade. Ma è successo invece che sia nato qui, e allora ogni tanto mi capita di riflettere sul mio paese.
IMG_5623Spesso (non sempre) ambiento le mie storie in Svizzera. Questo non solo perché mi costa meno tempo in viaggi e ricerche, ma soprattutto perché ritengo che sia un luogo affascinante e meritevole di narrazione. La Confederazione elvetica è uno stato unico al mondo: al centro dell’Europa, crocevia di genti e culture, miracolo di convivenza fra popoli diversi. Sono fiero di essere svizzero? Sì, ma sono anche incuriosito. Com’è possibile questa anomalia geografica e politica? Che cos’è oggi la Svizzera, che cosa rappresenta per chi come me, di lingua e cultura italiana, tenta di vivere facendo lo scrittore?
IMG_5627Della Svizzera naturalmente non mi sfuggono i limiti, i difetti (talora molto preoccupanti). Tuttavia, quando scrivo, il mio scopo non è scoperchiare le vergogne sotterranee del paese, bensì rappresentarlo così com’è, con il suo reticolo di luci e ombre. Anche quando ho parlato del primo d’agosto, ho voluto mostrare la doppia faccia della medaglia: la festa, con i petardi e il falò, ma pure la solitudine di chi è tagliato fuori, la malinconia di chi non riesce a partecipare. Sempre nel romanzo La sparizione, proprio mentre sfavillano i fuochi d’artificio, Elia Contini litiga con Francesca, la sua ragazza. Lei lo rimprovera di non avere progetti seri per il futuro, lui preferisce scansare il conflitto. Allora Francesca se ne va. E Contini?
Rimase a lungo in silenzio. Dopo un po’, si accese una sigaretta. Finì di bere il vino. Ogni tanto qualcuno faceva scoppiare un petardo. Il gatto grigio arrivò di corsa dal sentiero e si rifugiò in un angolo. Che c’è, gatto, non ti piace il primo d’agosto? Il gatto muoveva la coda. Non so, Contini, più che altro apprezzo la pace. E tu?
Io cosa? Io che cosa sto cercando, pensò Contini, che cosa voglio?
Domanda troppo complessa, per il momento. E poi i gatti non amano le domande. Contini si chinò a dare un buffetto alla bestiola, poi si alzò e rientrò in casa. Qualche minuto dopo, ne uscì con abiti scuri e una macchina fotografica. S’inoltrò nel bosco.
Percorse qualche metro fra gli arbusti e i noccioli, poi sbucò sul sentiero e se ne allontanò di nuovo per inerpicarsi su un pendio. Traversò una macchia di faggi e scese verso il Tresalti. Sapeva che di là dal torrente c’erano grandi cespugli di more e lamponi. Spesso accadeva che una delle volpi si spingesse fin lì per mangiare frutta. Forse per le more era un po’ presto, ma i lamponi erano già belli grossi.
Contini si nascose sul bordo del Tresalti. Trovò una posizione comoda, accese la macchina fotografica. Alla luce della luna, il bosco era un fondale nero, sul quale si muovevano ghirigori di rami e foglie mosse dal vento. Contini abituò gli occhi all’oscurità e si preparò ad aspettare.
Il primo d’agosto è la festa nazionale, e tutte le nazioni in fondo si assomigliano: c’è chi guarda i fuochi d’artificio, chi canta, chi ricorda i propri cari scomparsi, chi ascolta i discorsi, chi li pronuncia, chi accende i falò e chi se ne va nel bosco a cercare le volpi. È giusto così. In fondo, una comunità umana ha bisogno anche dei solitari, dei refrattari, degli scorbutici. Quelli che hanno una mauvaise réputation e che il giorno della festa nazionale se ne stanno a letto a dormire, come racconta un cantautore molto amato da Contini.

In conclusione, buon primo d’agosto a tutti: a chi dorme, a chi festeggia (e a chi cerca le volpi, naturalmente…).

PS: Mi è già capitato qui sul blog di riflettere sul tema dell’integrazione (una parola assai pronunciata nei discorsi ufficiali). Potete inoltre scaricare qui, in formato digitale a 0.99 euro, il racconto Swisstango, nel quale fra le altre cose evoco alcuni luoghi comuni elvetici visti da uno straniero (poi c’è di mezzo anche una rapina nel cuore della Svizzera… ma proprio nel cuore che più cuore non si può!).

PPS: La mauvaise réputation risale al 1952. So che forse non è il brano più appropriato per la festa nazionale… Ma consideriamolo un omaggio a Contini. E comunque, dopo Brassens, potete sempre ascoltarvi anche l’inno svizzero.

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Butcher’s Crossing

Le parole non ci appartengono. Più avanzo nel mio lavoro, più mi accorgo dell’inconsistenza di tutte quelle espressioni come “nelle parole di quell’autore” o “con le mie parole ho voluto dire”. Che importa di ciò che hai voluto dire? Quello che conta è ciò che le parole – le parole – esprimono. Può essere ciò che hai voluto dire oppure no; nel migliore dei casi, è ciò che hai voluto dire con qualche cosa in più, quell’imponderabile, quel supplemento di significato che misteriosamente si annida in ogni sillaba che pronunciamo.
IMG_3706In questi giorni mi capita di parlare con i lettori del romanzo L’arte del fallimento, o di leggere qualche recensione sui giornali e su internet. Sono utili questi scambi, questi confronti? Credo di sì, proprio perché quel libro non mi appartiene. Nella mia mente sto seguendo il ritmo di una nuova storia: di quella non parlo con nessuno (nemmeno qui, dove siamo tra di noi…); ma di una storia già scritta si può discutere, e spesso mi capita d’imparare qualcosa.
Ieri, per esempio, mi hanno inviato un articolo apparso nel blog “unreliablehero” (lo trovate qui). È una bella recensione, che coglie alcuni aspetti per me essenziali del romanzo. A un certo punto l’autrice, che si firma come “Benny”, riporta una frase del romanzo: Perché è la cosa più difficile, sai? Dire: ho perso. Quello che passa, lasciarlo andare… Senza cancellare il presente, senza crogiolarsi nei sogni di rivalsa… perdere e basta, perdere e rimanere. Avere il coraggio di rimanere. In un primo momento non ricordavo di averla scritta, poi mi è tornato in mente che sono parole del vecchio Giona. Il coraggio di rimanere. Mi sono detto: ecco un tema che avrei potuto sfruttare meglio. Dopo un fallimento, dopo l’esperienza della morte, della sconfitta, della disillusione, che senso ha il gesto di rimanere? Non è nemmeno un gesto, a pensarci bene: è solo stare lì, senza fuggire. Ma sarà vero? Ogni tanto, invece, per fortuna, mi pare che il fallimento sia l’occasione per andarsene, per tagliare i ponti e per ricominciare. E tuttavia: è davvero possibile ricominciare da capo? Non si ricostruisce sempre sopra una rimanenza, sopra le macerie?
IMG_5746Seduto in balcone, sotto un maestoso passaggio di nuvole, ho riflettuto su questi argomenti. Mi sono venuti in mente altri autori e altre storie. Qualche settimana fa ho scritto per il sito “Il Libraio” un articolo in cui presentavo qualche consiglio di lettura. Il pezzo s’intitolava Sette lezioni di fallimento (lo trovate qui). Gli scrittori andavano da Thomas Mann a P. G. Wodehouse. Ecco le sette “lezioni”:
1) Come fallire in maniera grandiosa
2) Come accettare il fallimento
3) Come rialzarsi dopo i fallimenti
4) Come fare del fallimento un’arte
5) Come fallire un’indagine
6) Come trasformare il fallimento in eroismo
7) Come ridere del fallimento.
Riflettendoci ora, mi ricordo un libro che avrei potuto aggiungere alla lista: Butcher’s Crossing, di John Williams (uscito per la prima volta nel 1960, pubblicato in italiano da Fazi nel 2013). È la storia di un ragazzo che nel 1873 parte da Boston e raggiunge le terre selvagge del West. Nel corso del romanzo compie un’immersione nella natura, in un confronto serrato con i suoi limiti e le sue paure. Partecipa a un’epica, immensa caccia al bisonte ed è costretto a misurarsi con la dimensione del fallimento.
FullSizeRenderNon vi dico altro, per non guastarvi la lettura. Aggiungo soltanto che a un certo punto il ragazzo se ne va, ricomincia, cavalca verso posti nuovi. Però non torna a casa, a Boston, dove potrebbe avere una vita di ricchezza e successi. Ha il coraggio di rimanere in una terra dove non ha certezze e non è nessuno, ma dove – forse proprio per questo – ha qualche possibilità d’incontrare sé stesso.
Una sottile striscia di sole infiammava l’orizzonte a est. Si rigirò e guardò la pianura davanti a lui, dove la sua ombra si proiettava lunga e liscia, con i bordi frastagliati dall’erba appena nata. Le redini nelle sue mani erano dure e lucide. Sotto di sé sentiva bene la sella, liscia come la pietra, e i fianchi del cavallo che si gonfiavano appena, mentre inspirava ed espirava. Fece un bel respiro inalando l’aria fragrante che saliva dall’erba fresca, mischiandosi al sudore umido del cavallo. Strinse le redini in una mano, sfiorò coi tacchi i fianchi dell’animale e cavalcò verso l’aperta campagna. Tranne che per una direzione di massima, non sapeva dove stava andando. Sapeva solo che gli sarebbe venuto in mente in seguito, nel corso della giornata. Proseguì senza fretta, sentendo sotto di sé il sole che si alzava lentamente e scaldava l’aria.

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