Le audiocassette di Contini

Ieri sera ho presentato L’arte del fallimento all’Università di Zurigo. Nell’aula D31, oltre a insegnanti, studenti, lettori e curiosi, c’era un personaggio fatto di aria e memoria. Era ben presente, seduto sul bordo di un tavolo, ma anche intangibile, congelato in un altrove più lontano delle galassie, più remoto dello spazio profondo. Quel ragazzo, studente in quella stessa Università nei primi anni dopo il 2000, non poteva essere lì. Eppure c’era. Annuiva impassibile, come se mi ascoltasse, ma si vedeva benissimo che stava pensando ad altro. Aveva nella testa un investigatore privato di nome Elia Contini (gli piaceva il suono di quelle tre “i”) e stava scrivendo una storia su di lui. Una storia? Un romanzo, addirittura.
BarcheZhTornare dove tutto è cominciato è sempre un’operazione rischiosa. Amo la città di Zurigo, il suo fiume, i suoi ponti, il suo cielo vasto e mutevole. Conosco le vie, i posti dove mangiare e quelli dove starsene da soli – come ogni città, anche Zurigo ha i suoi angoli di campagna, che resistono fra i tram e i negozi di telefonia mobile. Ho amici con cui tirare tardi e scolare pinte di birra (magari una di troppo, ieri sera). Ho strade dove mi piace tornare e altre che credevo di avere dimenticato. Ma soprattutto, il luogo dove ho trascorso i miei anni di studente mi offre l’opportunità di un rendiconto. Lo sguardo degli altri mi permette di capire meglio il lavoro che sto facendo; ma anche lo sguardo indietro verso il passato – purché non mi soffermi troppo a lungo – mi aiuta a dare sostanza alle narrazioni.
StudentiZhLa professoressa Tatiana Crivelli e il professor Nunzio La Fauci (che ieri mi ha insegnato un detto siciliano sul fallimento) hanno incrociato la mia strada all’inizio, quando stavo rimuginando la mia prima storia, e di nuovo ieri sera, quando fingendo di parlare dell’ultima storia stavo già provando a rimuginare la prossima. Ecco, questo è il punto: la prossima storia. Parlando e passeggiando con qualche amico, prima e dopo l’incontro, mi sono reso conto che le divagazioni e i pensieri in apparenza assurdi hanno il valore di ancorarci al presente, anche nei luoghi che per vicenda personale sono intrisi di passato. Più che riflettere sulle vicende che mi hanno portato a creare i miei personaggi, m’interessa coglierne di nuovi. Perché ieri pomeriggio un uomo, in una viuzza del Niederdorf, stava bagnando con l’annaffiatoio il davanzale di una finestra? Non c’erano vasi, non c’erano fiori, ma lui era intento nell’innaffiare, meticoloso, come se coltivasse qualcosa d’invisibile.
TramontoZhTutto sta in queste immagini, in questi incontri fortuiti.
Nei giorni scorsi mi ha scritto una lettrice a proposito di un mio articolo uscito qualche tempo fa sul sito “Il Libraio”. È un testo che presenta dieci investigatori presi da altrettanti romanzi polizieschi, rappresentando ognuno di loro con un oggetto caratteristico (trovate qui l’articolo). E il suo Elia Contini, mi ha chiesto la lettrice, con quale oggetto si potrebbe rappresentare? Non è una domanda facile. Ho pensato a qualcosa che abbia a che fare con le volpi o con le zattere di legno che Contini si diverte a costruire, ma poi mi sono detto: perché non le audiocassette?
image1Il mio investigatore è refrattario alla tecnologia. Ama le piccole azioni concrete, quelle che implicano toccare cose e spostare oggetti. Non gli piace scorrere il dito sugli schermi, non sopporta le macchine che creano link e connessioni, che incrociano dati e immagini in un mondo dove non si può camminare, ma tuttalpiù navigare virtualmente. Di sicuro è un atteggiamento infantile: perché ostinarsi ad ascoltare la musica sulle audiocassette, quando esistono impianti ben più sofisticati? La mia risposta è: non lo so. Non posso spiegare perché Contini sia fatto in questo modo, così come non so perché un uomo a Zurigo annaffiasse una finestra. Io non ascolto più le audiocassette, Contini invece sì. Il fatto che sia un personaggio creato da me, dopotutto, non significa che io conosca ogni suo segreto. E magari è giusto così: si scrive per approfondire il mistero, non per svelarlo. Tornerò a raccontare una storia con Elia Contini? Non so nemmeno questo. Forse sì, forse invece non mi capiterà più. In fondo l’importante non è scrivere di lui, ma sapere che lui è là fuori – da qualche parte nei boschi intorno a Corvesco – e che, fra un’audiocassetta e l’altra, continua a camminare.

Contini stesso non era un fallito? Alla sua età non aveva un vero mestiere, una vera storia professionale, ma si arrabattava accettando casi che un’agenzia seria avrebbe subito respinto al mittente. Chi era lui per avere pietà di Mario? Ripensò ai nomi sulla lapide e ai desideri che quelle persone avevano rincorso per tutta la vita, e qualche volta realizzato. Tutto era svanito come un miraggio, mentre chissà perché Contini aveva l’impressione che le sconfitte avessero più consistenza. Che cosa resta di te, alla fine? Ciò che hai posseduto o magari invece ciò che non hai mai avuto, ciò che hai sperato… o magari disperato?
Ecco il genere di domande a cui di solito rispondeva senza parole, andando a camminare nei boschi.
Sulla via del ritorno, propose a Francesca di ascoltare un po’ di musica. Ora che guidava lei, per Contini non era facile propinarle Brel, Brassens e Aznavour. Lei però non si spingeva fino a fargli ascoltare i Coldplay e così cercavano un compromesso.
«Si chiamano Timber Timbre. Cantano in inglese, ma forse ti piacciono lo stesso…»
«Timber Timbre. Che razza di nome è?»
La musica però non era male. Atmosfere profonde come un dirupo e un cantante dalla voce bassa, cavernosa. Un brano in particolare, Grand Canyon, liberò spazio nella mente di Contini mentre guardava il paesaggio scorrere dai finestrini. Era cresciuto in un territorio piccolo, fitto di montagne e campanili. E chissà che alla fine di lui non potesse restare invece la nostalgia per le pianure sconfinate, per un orizzonte aperto e selvaggio, sempre nuovo…

PS: Il testo con Elia Contini proviene dal romanzo L’arte del fallimento (capitolo 40, “Grand Canyon”, pagine 171-72). Il brano Grand Canyon è tratto dall’album Hot Dreams, pubblicato dai Timber Timbre nel 2014.

PPS: Grazie a Elena Biaggio per le fotografie di Zurigo. E grazie a Yari Bernasconi: non solo per aver condiviso con me la conferenza, ma soprattutto per aver notato l’uomo che annaffia le finestre!

PPPS: Il detto del professor La Fauci suggerisce di guardare al fallimento come a una forma di salvamento. Non è un vero e proprio proverbio, ma un’osservazione, un’arguzia che lo stesso La Fauci ha avuto modo di ascoltare in Sicilia, durante la giovinezza. Avulso dal contesto, suggellato dalla rima, il detto a mio parere assume quasi il valore di un autentico proverbio. Mi sembra infatti portatore di una verità non banale: a volte, nella vita, le cose si aggiustano proprio nel momento in cui falliscono (ne avevo già parlato qui).

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Stella by Starlight

L’uscita di un romanzo mi coglie sempre di sorpresa, mi riempie di strane incertezze e paure. Questo si acutizza al momento delle presentazioni: il 17 marzo a Lugano, poi a Mendrisio, a Milano e altrove. Sono combattuto: da una parte il piacere di festeggiare con un brindisi insieme agli amici, dall’altra la sensazione di non essere all’altezza. È un sentimento irrazionale, ma persistente: ciò che ho portato per mesi nella mente e nel cuore adesso è lì, davanti a tutti, tangibile, e a me tocca spiegare in che modo sia venuto alla luce. Com’è possibile?

L’arte del fallimento (Guanda) è in libreria da qualche settimana. In questi giorni stavo leggendo l’autobiografia dell’autrice britannica PD James (1920-2014), scritta a settantanove anni. A un certo punto, la vecchia signora accenna a un cambiamento di costumi: se da giovane le bastava pubblicare un libro, ora le organizzano lunghi tour di reading. Sono un po’ stancanti, alla sua età, ma almeno ha la possibilità di stringere la mano di persona ai suoi lettori. L’ironia di PD James mi ha fatto riflettere: che valore ha la presentazione di un libro? Non è imbarazzante, porsi davanti alla propria storia?
IMG_2058Lo so, anch’io sto facendo un tour di presentazioni. Qual è il probema, allora? Nel mio caso, non si tratta di imbarazzo. Sono un giornalista, ho anni di esperienza nella conduzione radiofonica e televisiva: benché abbia un’indole timida, ho imparato a parlare in pubblico. La verità è che non si tratta di mestiere: nei miei romanzi, anche se a prima vista non sembra, metto a nudo la parte più intima di me. So gestire professionalmente un’intervista alla radio o alla tivù, ma quando devo indagare la mia scrittura mi chiedo se – con le mie parole – non rischi di togliere l’incanto, di aggiungere concetti e commenti alla storia, che dovrebbe bastare a sé stessa.
Seguendo il filo di queste riflessioni, mi è venuto in mente un pensiero dello scrittore nigeriano Ben Okri: È il lettore che scrive il libro, perché la vera destinazione dei libri è la vita, e i viventi. Sono convinto che uno scrittore debba essere discreto, e che sia necessario difendere il proprio silenzio, la solitudine necessaria alla creazione. Ma credo pure che sia utile vedere qualche volta i propri lettori davanti a sé, sentire i loro commenti, il loro punto di vista. Parliamone, dunque, scherziamoci sopra, critichiamo. Togliamo i libri dalla teca di cristallo. Assecondiamo il ritmo della vita. Basta non dimenticare che, prima e dopo, c’è il tempo silenzioso della creazione (sia come autore, sia come lettore, perché la lettura è una forma di creazione).
Visto che L’arte del fallimento parla di jazz, lasciatemi fare un esempio musicale. È una bellissima versione di Stella by Starlight, registrata dal vivo dal quintetto di Miles Davis con George Coleman (sax tenore), Herbie Hancok (piano), Ron Carter (contrabbasso), Tony Williams (batteria) alla Philarmonic Hall di New York il 12 febbraio 1964.

Fin dall’inizio, c’è un’atmosfera speciale: l’improvvisazione ripete gesti trovati in tanti concerti (come il glissando che Hancock e Davis suonano insieme a 0:42). Poi Davis comincia a variare il tema con note lunghe, sempre dialogando con il piano; fra 1:46 e 1:52 il tutto culmina in un lungo acuto della tromba, che finisce con due note brevi subito ripetute al volo da Hancock (che tempismo!). Davis si ferma, qualcuno dal pubblico risponde all’acuto con un urlo altrettanto lungo. Davis allora reagisce con una scala che lo riporta in alto. La musica si fa più incandescente, il gruppo va più veloce (tecnicamente, in double time feel). IMG_2343
Mi piace questa testimonianza di un grido dal pubblico che muove i musicisti, li sollecita, e rimane nell’incisione. L’assolo di Davis continua fino a 4.35, quando parte George Coleman (bello anche il re acuto, ripetuto con insistenza da Davis a 4:14, quasi a scuotere il gruppo). Insomma, durante il concerto dialogano i musicisti, reagisce il pubblico, accadono cose. Come dice un verso della poetessa Rita Pacilio, intorno alla tromba si parla, si frana.
La lettura di un romanzo è diversa è un’attività più intima e silenziosa. E la scrittura non è di certo un’arte performativa, come la musica. Ma per chi scrive, come me, non è male ogni tanto vedere qualche faccia, sentire qualche voce. Quello strano, irrazionale timore resta vivo, ma è vivo anche il piacere di brindare insieme all’arte del fallimento.

PS: Qualche indicazione bibliografica: PD James, Il tempo dell’onestà, Mondadori 2001; Ben Okri, La tigre nella bocca del diamante, Minimum Fax 2000.

PPS: L’analisi tecnica del brano jazz proviene dal volume di Stefano Zenni I segreti del jazz. Una guida all’ascolto (Stampa Alternativa 2007). È un manuale prezioso e documentatissimo, che permette di cogliere meglio le sfumature della bellezza.

PPPS: Di bellezza si tratta anche nell’opera di Rita Pacilio Il suono per obbedienza (Marco Saya 2015). Per descrivere l’assolo di Davis in realtà sarebbero bastati i versi in cui Rita Pacilio osserva come noi siamo il passaggio tra due sfere, / sperimentazione / e obbedienza. Siamo doppi, / simultanei. È proprio vero che l’arte ci aiuta a convivere in due mondi. Potete leggere qui la poesia ispirata a Miles Davis, da cui ho rubato un verso. Trovate qui, invece, la lirica che ho appena citato sopra.

PPPPS: Quasi me ne stavo dimenticando… Se volete brindare anche voi al fallimento, trovate i dettagli sulle presentazioni qui nel mio sito, oppure anche (con tanto di carta geografica) .

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“La belva stava in agguato nell’ombra”

L’altro giorno un amico mi prendeva in giro: qualche anno fa hai scritto Come rapinare una banca svizzera, adesso L’arte del fallimento; vuol dire che qualcosa non ha funzionato? Be’, su questo non mi pronuncio: troppo compromettente…
Il romanzo parla di sconfitte e rinascite, di un uomo che lascia tutto per suonare il sax, di lavoratori frontalieri, dumping salariale, omicidi e anche, per fortuna, di come l’amore si manifesti nelle vie più impensabili.
Potete guardare tranquillamente il “booktrailer”: non svela nulla della trama e non mostra i personaggi. Tutto, com’è giusto che sia, è lasciato all’immaginazione. Il video di Alessandro Tomarchio è una divagazione artistica, un modo per immergersi nella musica e nei luoghi del romanzo.

Le riprese mostrano qualche scorcio di paesaggio: il piano di Magadino, Bellinzona, Lugano, le montagne e il lago. Si vede anche lo spazio espositivo di un’azienda di arredamenti interni (Tomarchio ha girato queste scene nello showroom della ditta “Abitare”, a Giubiasco). A suonare è Alan Rusconi, che esegue al sax tenore un’improvvisazione su In a sentimental mood (una canzone importante nel romanzo). Nel video la musica s’intreccia con le parole; di seguito vi riporto la traccia audio con l’assolo di Rusconi.


Di In a sentimental mood ho già parlato nel blog, citando anche qualche riga da L’arte del fallimento: trovate qui l’articolo, insieme alla musica di Ellington e Coltrane. Un altro assaggio del romanzo, un po’ più lungo, lo trovate qui. L’idea di questa storia è rimasta a lungo in un angolo della mia mente, finché l’anno scorso mi sono deciso a scriverla. È stato un periodo di riflessioni e fantasticherie, mentre piano piano i personaggi prendevano vita. Avevo parecchie domande in testa… Che valore ha la sconfitta? Non sarà che il vero fallimento è non fallire mai? Di questi e altri pensieri ho parlato qui, dove trovate anche un estratto dalla “colonna sonora” del libro. Infine, qui c’è il risvolto di copertina, dove si accenna alle linee generali della storia. (Ora basta con i link: leggete pure sereni fino alla fine, senza paura di un altro “qui”…).
IMG_1876Concludo, secondo tradizione, con i ringraziamenti. Ai miei famigliari, prima di tutto. Poi ai miei lettori di fiducia: Anna, Davide, Giacomo, Giuseppe, Lucia, Nicola, Tommaso, Yari. Un pensiero per Giovanni “Cobra”, che mi ha fornito le prime indicazioni, e per Giona e Mattia, ai quali ho rubato qualche spunto. Sono grato ad Alan, il mio maestro di musica; a Monica, Cinzia, Vera, Paola, Diana, Viviana e tutto il gruppo di Guanda; a Laura, in particolare, che ha letto e ascoltato L’arte del fallimento, cogliendone le risonanze nascoste.
Dedico questo romanzo alla memoria di Fabrizio Fazioli, con cui avevo parlato anni fa della prima idea.

PS: Se aveste voglia di scambiare due parole, possiamo incontrarci a Lugano giovedì 17 marzo alle 18, nella libreria Il Segnalibro (via Pioda 5), o a Milano mercoledì 23 marzo alle 18.30, nella libreria Centofiori (piazzale Dateo 5). Le altre date sono sul mio sito oppure (ops, ne mancava ancora uno… domando scusa!).

PPS: Casomai qualcuno se lo fosse chiesto… il titolo di questo articolo è la prima frase del romanzo.

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Working poor

Quando finisco un romanzo, mi piacerebbe riuscire a dimenticarlo. Copia di image1-2Se ci penso, mi preoccupo: sarò riuscito a dire ciò che volevo? Ci sarà qualcuno che apprezzerà il mio tentativo? Forse avrei dovuto scrivere diversamente, ma ormai è tardi.
Stavolta poi è ancora peggio, perché il titolo è L’arte del fallimento. E se il romanzo stesso si rivelasse un fallimento? Sarebbe elegante, dal punto di vista stilistico, ma… be’, diciamo che la mia coerenza non si spinge fino a questi estremi.
Ecco dunque che anche il blog può rivelarsi utile. Un paio di mesi fa ho già anticipato un brano del romanzo (lo trovate qui), e ora vorrei proporne un altro. Per me è un modo di restare nell’atmosfera, riflettendo sul mio lavoro.

Non è facile essere poveri in un paese ricco. C’è chi dice: almeno non si muore di fame. E c’è chi ricorre all’inglese: working poor. Come se l’essere working, pensava Contini sulle scale dell’Ufficio Fallimenti, potesse lavare l’onta del poor. Le facce che incrociava salendo forse non avevano fame, ma erano divorate dalla vergogna. È come uno di quei vermi che ti rodono l’intestino, finché qualcuno ti fa capire che, sì, puoi diventare povero, ma hai tutto l’interesse a fingere di non esserlo. Si fermò per far passare una coppia di giovani vestiti bene. Stavano litigando, ma smisero subito appena notarono la presenza di un estraneo.
Sei povero? Guarda gli altri, quelli che sono working e basta, fa’ come loro. È sottilissimo il diaframma che separa il precetto esecutivo dalle vacanze a Djerba, la Mercedes in leasing dal pignoramento dell’impianto stereo. Contini si fermò ad ascoltare sull’ultima rampa: prima di uscire sulla strada, credendosi al sicuro, i due giovani ricominciarono a litigare.
Non è permesso balzare da uno status sociale all’altro. Soltanto nelle fiabe il principe ruzzola fra i mendicanti e la sguattera s’infila a corte. Nei paesi civili queste operazioni richiedono documenti, pratiche, verifiche a domicilio. Come sacerdoti aztechi, i funzionari dell’Ufficio Fallimenti accompagnano le vittime al sacrificio: archiviano i compromessi, le speranze fasulle e, infine, registrano in triplice copia il tonfo.

Non è un brano decisivo, anzi, è una divagazione. Ma forse anche i brani marginali possono rivelare qualcosa della tonalità di un romanzo.
image1-2Non voglio rimuginarci troppo. Ho sempre creduto che la miglior tecnica di scrittura sia pensare ad altro. È il giorno dell’Epifania: appena finirò questo articolo approfitterò del sole e andrò a farmi un giro in bicicletta. Il pezzo lo pubblicherò domani (tanto, che cosa cambia?). Oggi lascerò che la mente passeggi fra cose concrete: nuvole, montagne, battiti del cuore. Prometto comunque di pensare ogni tanto a Contini e agli altri personaggi; e fino al 18 febbraio, quando il romanzo arriverà in libreria, cercherò di non dimenticarmi ciò che ho scritto (sembra facile, ma ricordate: è L’arte del fallimento…). Dopo l’uscita del libro, se ne avremo l’occasione, qualche volta potremo discuterne insieme.

PS: Avevo già parlato dell’Ufficio Fallimenti: potete trovare qui l’articolo.

PPS: Se foste curiosi, il giro in bicicletta è andato bene. Percorso misto: salita e pianura, ma soprattutto salita. Un po’ di fatica all’inizio, poi ho trovato il ritmo. Poche automobili, aria fredda, il silenzio appena velato dal mormorio lontano dell’autostrada.

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I segreti della geometria instabile

Vi trovate a Berna in un giorno d’inverno e volete viaggiare in una dimensione parallela? Dimenticate Palazzo federale e la Fossa degli orsi. Prendete invece una stanza ai piani alti all’Holiday Inn in Riedbachstrasse, nella periferia di Brünnen. Se sarete fortunati, il mattino si leverà la nebbia. Allora, dalla vostra finestra, contemplerete un edificio misterioso, futuristico e inquietante. E vi chiederete: ma dove sono finito?
image1Il luogo è sinistro. Viene in mente l’Area 51 statunitense, con la base militare cancellata dalle mappe e dalle immagini satellitari. Che cosa conterrà quell’edificio spettrale? Reperti alieni, tecnologia avveniristica, forse i diari segreti dei consiglieri federali?
Il mio consiglio: godetevi l’esperienza straniante, poi rendetevi conto che si tratta semplicemente del tetto di un centro commerciale e, per consolarvi, andate a farvi un giro nello scintillio dei negozi e delle panetterie fragranti (a Berna prendono sul serio l’arte di fare il pane). Fra l’altro il centro Westside di Brünnen è stato progettato dall’architetto americano Daniel Libeskind, autore di opere celebri in tutto il mondo e fra i massimi esponenti del decostruttivismo.
La “geometria instabile” di Libeskind riassume bene la tonalità del mio breve viaggio nella Svizzera tedesca.
IMG_0483Venerdì sera avevo una conferenza con Stefano Prandi, professore all’università di Berna. Le sue osservazioni sono state un’occasione per riflettere sul mio lavoro. Ho avuto fra l’altro l’occasione di approfondire i temi del prossimo romanzo (“L’arte del fallimento”). È la prima volta che ne ho parlato in pubblico: si tratta di una storia che mi ha fatto riflettere sulla sconfitta, sulla precarietà (economica, esistenziale) e sulla bellezza che nonostante tutto si manifesta per vie segrete. A Berna abbiamo parlato anche del mestiere di scrivere, interpretato come ricerca per capire qualcosa di sé stessi e del mondo; come ogni lavoro, ha le sue incertezze, le sue difficoltà e i suoi momenti d’illuminazione.
Un’esperienza utile sia per la visione generale, sia per i dettagli. Dopo la conferenza qualcuno, per esempio, mi ha fatto notare l’abbondanza dell’espressione “e però” nelle mie opere (e anche nel mio modo di parlare). Riuscirò a usarla ancora? Forse lo farò con più cautela, com’è giusto che sia, e però… forse è giusto che ogni stile abbia i suoi tratti distintivi, purché non siano troppo compiaciuti. Già mi tocca stare in guardia dall’espressione “rendersi conto” in tutte le sue forme, alla quale sono troppo affezionato.
I momenti di geometria instabile, in un viaggio, sono come gli accordi anomali in un brano musicale. Ti fanno trasalire, ma ti aiutano a renderti conto (ecco!) del modo in cui lavora la memoria.
A me per esempio resterà in mente la libreria accanto all’Università, dove ho comprato uno studio sull’ambiguità del comico nella letteratura, edito da Sellerio, e una piccola, bizzarra guida dal programma ambizioso: comprendere il carattere delle persone. Un appassionato di manuali strani come me non poteva ignorarla.
image3Mi resterà pure la nebbia intorno alla città, il meticoloso mercato del sabato mattina, la chiacchierata con il portiere notturno dell’hotel, gli occhi sgranati della fanciulla che appare su decine di cartelloni pubblicitari a Bellinzona, a Zurigo, a Berna, ovunque. Mi resta tutto questo e un paio di altre cose che non scriverò.
Durante il viaggio di ritorno ho avuto un’ultima, instabile occasione per riflettere sul mio mestiere. Di solito non ho l’abitudine di lavorare sui treni, perché sono pigro e preferisco guardare fuori dal finestrino, ascoltare i discorsi degli altri oppure, se non c’è nessuno ed è buio, leggere un romanzo. Ma in questo caso ho dovuto aprire il mio vecchissimo computer portatile per correggere un testo. Di fronte a me c’erano altri due passeggeri: un ragazzo che con il pollice esplorava l’interno del suo telefono cellulare e una ragazza che lavorava a maglia.
Per un attimo, mi è venuto in mente (mi sono reso conto) che stavamo tutti e tre facendo la stessa cosa. Io limavo le mie parole, il ragazzo creava link nello spazio virtuale e la ragazza sferruzzava, cioè costruiva lentamente un oggetto compiuto, usando un semplice filo di lana.
image2A partire da elementi basilari, immaginare una visione più armonica. È ciò che facciamo quando scriviamo (o navighiamo sulla rete, o sferruzziamo). Le mie storie non sono qualcosa che invento dal nulla. Tutto esiste già (come un filo di lana), e tutto tende a uno stato finale ordinato (come una sciarpa). Dov’è la creatività? Non è nel filo, e neppure nell’idea della sciarpa. La creatività è muovere i ferri su, giù, dentro e fuori, è un paziente processo dove la fantasia passa dall’astrazione alla concretezza, nominando cose, fatti, personaggi.
Chissà, forse è proprio questo che fanno nella misteriosa Area 51 bernese. Forse è un’immensa, favolosa fabbrica dove si assemblano tutte le storie ancora da raccontare, tutte i personaggi che al momento vagano nelle zone oscure della nostra fantasia…

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