Ajano-Majskij

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Agosto
Hanafuda: Miscanthus sinensis / Luna piena
Luogo: Ajano-Majskij, Chabarosk, Russia
Coordinate: 58°51’05.8″N; 132°47’40.3″E
(Latitudine 58.85161; longitudine 132.79453)
Trascorro gli ultimi giorni di agosto in un villaggio di montagna. Le case di vacanza sono sbarrate, i parcheggi vuoti, nessuno cammina più per i sentieri. Anche gli ultimi cercatori di funghi hanno ceduto al richiamo delle città. Qualche famiglia ha resistito più a lungo, ma il vortice di settembre – scuola quaderni libri riunioni – le ha risucchiate tutte, una dopo l’altra. Le montagne sono sempre al loro posto, ma sembrano perdute, avvolte in un azzurro irraggiungibile. Le sere sono un po’ più oscure, è meno fulgido il verde dei prati. È scomparso il rombo delle tosaerba; e crescono le piante spontanee, le vagabonde, le irregolari.
Tra le mani tengo le carte dell’Hanafuda, l’antico gioco giapponese che segue il corso delle stagioni. Le quattro immagini del mese di agosto mostrano le spighe d’argento di una graminacea, la Miscanthus sinensis. Su due carte gli steli piegati dal vento evocano la solitudine, lo spazio vuoto, ma anche la dolcezza dell’abbandono davanti alla terra scura e al cielo bianco. Su un’altra carta la luna piena, immensa, sorge dietro la collina, in un cielo rosso come il coraggio; le macchie lunari assumono la forma di un coniglio, com’è usanza in Giappone. Infine, nell’ultima carta appare la migrazione autunnale delle oche selvatiche, che torneranno solo in primavera. È stupefacente come un semplice gioco possa esprimere con tanta forza un’atmosfera, raccontando una storia senza trama, una condizione dell’animo. (Del resto, nessun gioco è mai veramente semplice.)
Nella mia testa il vento che muove gli steli della Miscanthus è lo stesso che accompagna i miei passi nell’estremo est della Russia. È un paesaggio sempre uguale, ondulato, con piccoli corsi d’acqua e laghi nascosti dietro le colline. Nel 1639 l’esploratore Ivan Jur’evič Moskvitin, insieme a quarantanove cosacchi, attraversò i territori di quello che oggi è il distretto di Ajano Majskij, oltrepassò i monti Džugdžur e infine arrivò alle coste del mare di Okhotsk. Oggi anch’io mi trovo da qualche parte lì in mezzo, a una cinquantina di chilometri dal fiume Aldan. Sono proprio al confine tra l’Ajano-Majskij rajon e la Sacha (detta anche Jacuzia). Dico “al confine”, ma naturalmente intorno a me non c’è niente, se non alberi, erba, rocce. La Jacuzia da una parte, con i suoi tre milioni di chilometri quadrati; l’Ajano-Majskij dall’altra, con quasi centosettantamila chilometri quadrati per meno di duemila abitanti. Supero il confine con la Jacuzia e dirigo verso ovest, in direzione dell’Aldan. Non vedo né sentieri, né piste, né tantomeno strade; e con me non c’è neppure un cosacco.
Sono luoghi selvaggi, lontani da tutto. Eppure anche qui la storia lasciò le sue ferite: l’Ajano-Majskij infatti accolse l’ultima sacca di resistenza ai bolscevichi da parte dei controrivoluzionari “bianchi”, durante la guerra civile russa (1917-22). In queste zone il tenente generale ucraino Anatolij Pepeljaev continuò la lotta e non si arrese fino al giugno 1923. In seguito Pepeljaev fu condannato a morte, ma ottenne la grazia e venne mandato in prigione; nel 1936 venne scarcerato e lavorò come carpentiere, prima di venire di nuovo arrestato e fucilato come «nemico del popolo» nel 1938.
Tutto questo ormai è passato. Intorno a me, nel tardo pomeriggio di agosto, si sente solo il suono del vento. Non riuscirò ad arrivare al fiume prima di sera, ma voglio avvicinarmi. Sono stanco. Concentro i miei pensieri nel gesto di muovere le gambe, di appoggiare i piedi. Che cosa dice il vento? Avanzo a passi misurati, secondo il mio ritmo. Forse le storie che frusciano nell’erba riecheggiano le antiche battaglie, il furore? Magari invece cantano la malinconia della stagione che svanisce; oppure – oggi così come all’inizio del mondo – ripetono l’eterna vicenda della partenza, dell’addio, della speranza di un ritorno, non si sa come, non si sa quando.

HAIKU

L’erba d’argento
brilla come un addio –
Non c’è nessuno.

 

PS: Questo è l’ottavo  “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo, aprilemaggiogiugno e luglio.

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Ross Ice Shelf

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Luglio
Hanafuda: Lespedeza / Cinghiale
Luogo: Ross Ice Shelf, a circa 400 km dalla McMurdo Station, Antartide
Coordinate: 80°38’49.3″S 171°01’35.5″E
(Latitudine -80.647028; longitudine 171.026528)
Fra il 1785 e il 1796 il botanico ed esploratore francese André Michaux viaggiò in diverse regioni del Nordamerica. Nel 1803 pubblicò il volume Flora boreali-americana. Fra le altre cose, Michaux descrive una nuova specie di legume che chiama “lespedeza”. In una nota a piè di pagina spiega di avere dato al vegetale quel nome in onore di D. Lespedez, gubernator Floridæ, erga me peregrinatorem officiosissimus (“D. Lespedez, governatore della Florida, che ha dimostrato grande cortesia verso di me durante i miei viaggi”).  La pianta è ancora oggi conosciuta con quel nome… peccato però che il governatore si chiamasse in realtà Vicente Manuel de Céspedes y Velasco. Com’è potuto accadere quel passaggio da “Céspedez” a “Lespedez”, con quell’errore destinato a restare nella storia della botanica? Comunque sia, c’è qualcosa di festoso in quel nome: lespedeza. Non è solo un legume, ma una burla, una parola che non doveva nascere e che invece è nata. Mi ripeto questa parola – lespedeza, lespedeza – mentre guido su una strada montuosa del Centro Italia, diretto verso un piccolo circo girovago.
Il luogo dov’è accampato il circo è circondato da querce e castagni. Verso sera le luci si accendono e gli spettatori si avvicinano all’ingresso (saranno al massimo una ventina). Mentre mi metto in fila, immagino che altri spettatori, silenziosi, sguscino fuori dal bosco: volpi, cinghiali, tassi… per una volta le bestie guarderanno gli uomini. Forse sorrideranno, si chiederanno quando arrivano i pagliacci ed esclameranno: ehi, ma quell’acrobata è matto! Non voglio vedere, borbotterà il cinghiale, io chiudo gli occhi. Sono quasi certo che la volpe riuscirà a procurarsi un cartoccio di popcorn.
Intanto comincia lo spettacolo, incantevole come la parola “lespedeza”. Dopo il numero dei clown appare un acrobata con un abito di lamé argentato. Al centro della pista, solo nel suo scintillìo, sembra uno spicchio di luna. Mi fa pensare all’acrobata creato dallo scultore Remo Rossi: un’opera che racchiude in sé l’incanto della leggerezza e la maestà della forza. Misteriosamente, nonostante gli angoli squadrati, l’equilibrista di bronzo sembra morbido e sinuoso, proprio come una mezzaluna. Davanti ai miei occhi, nel piccolo circo, l’acrobata lunare si arrampica lungo una fune, cammina sopra una corda, balza sopra un lunghissimo palo, volteggia nel silenzio attonito del pubblico. Lui è concentrato, tranquillo… siamo noi, in basso, ad avere le vertigini.
Chiudo gli occhi e ripenso al mio viaggio in Antartide. Anche in quella circostanza, ero pieno di vertigine. Nel buio, circondato da milioni di chilometri di ghiaccio, fermo in un luogo imprecisato della Ross Ice Shelf, ho sentito che il mondo era immenso mentre io solo un pugno di ossa, muscoli e sangue, un respiro fragile nell’aria gelida. La Barriera o il Tavolato di Shelf è un’enorme distesa dove non si vede niente nemmeno d’estate, nel candore abbacinante. Ma in quel momento, d’inverno, rincattucciato nel mio riparo provvisorio, sperando che il vento non strappasse via, mi sono chiesto che cosa mi avesse portato laggiù.
Che cosa muove gli esseri umani a viaggiare, sempre, in ogni epoca, con il corpo o con l’immaginazione? Fin dall’inizio dei tempi ogni volta che qualcuno tracciava un confine, un altro lo superava. Nel corso dei secoli ogni angolo della Terra è stato delimitato, recintato, trasformato in proprietà pubblica o privata. Qui finisce il mio paese, là comincia il tuo. Ma a ben vedere, nessun luogo ci appartiene. Per capirlo, basta farsi un giretto da soli in Antartide. Alcune nazioni vorrebbero tracciare confini anche qui, ovviamente, ma intanto il vento soffia a cento chilometri all’ora, la visibilità è inferiore ai dieci metri e la temperatura percepita scende sotto i -75°C. Quando tutto ciò che ti separa dal nulla è una piccola tenda, capisci quanto sia folle l’ambizione umana.
Ero un punto nel vuoto. Un’increspatura nel buio. Non ero mai stato tanto lontano da tutto. Il bar più vicino si trovava a più di quattrocento chilometri. E mi era ancora andata bene, in un continente con una superficie di quattordici milioni di chilometri (quasi tutti ricoperti di ghiaccio perenne). Se avessi camminato più o meno diritto in direzione dell’Oceano Antartico avrei potuto raggiungere il Gallagher’s Pub alla McMurdo Station (che in inverno è abitata da più o meno trecento persone). Il problema, naturalmente, era che da quelle parti il concetto di “direzione” è assai astratto.
Naturalmente, visto che ne sto scrivendo, alla fine in qualche modo ho raggiunto Il Gallagher’s Pub, chiamato così in ricordo di Charles “Chuck” Gallagher, il padre del proprietario. È un luogo caldo e accogliente. Appena arrivato, dopo avere riacquistato l’uso dei cinque sensi – li avevo persi praticamente tutti –, ho brindato al calore e all’umanità con una tequila messicana. Dopo un po’ mi sono liberato del sentimento di opprimente solitudine e anche del gelo che mi era entrato nelle ossa. Ma la vertigine invece no, quella non mi ha lasciato. Quando ci penso, oggi, qui, mi sento ancora un acrobata sospeso sulla fune, mentre intorno i pianeti e le stelle ruotano nell’oscurità.

HAIKU

Un vecchio clown
nel buio suona il violino.
Notte di luglio.

 

PS: Questo è il settimo “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo,  aprilemaggio e giugno.

PPS: In base a un trattato firmato da 46 paesi e risalente al 1959, l’Antartide non appartiene a nessuna nazione. Sono vietate sia le attività di sfruttamento economico, sia quelle militari.

PPPS: L’immagine della lespedeza è presa da internet, così come quella dell’acrobata di Remo Rossi (quest’ultima, scattata da Chiara Zocchetti, proviene dal sito del “Corriere del Ticino”). La scultura si trova nel “Giardino del clown” a Verscio, nella Svizzera italiana.

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Yabluniv

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Giugno
Hanafuda: Peonia / Farfalla
Luogo: Yabluniv, distretto di Kaniv, Oblast’ di Čerkasy, Ucraina
Coordinate: 49°40’27.8″N; 31°26’21.0″E
(Latitudine 49.67439; longitudine 31.43916)
Un ristorante in campagna, una sera di giugno. I tavoli sono disposti sul prato, con le tovaglie candide, le caraffe di vino rosso. I campi e le colline fuggono all’orizzonte, mentre il sole diventa rosso fuoco prima di scomparire. Sotto la pergola, vicino all’ingresso del ristorante, c’è una tavolata allegra: due o tre famiglie che si godono il fresco, lontano dalla città rovente.
Un bambino sui quattro anni si stacca dal gruppo. È curioso, attento a quanto avviene ai tavoli vicini. Si avventura sul prato e, dopo un paio di minuti, decide di suonare la tromba. Accosta il pugno alla bocca, mimando il suono. Dapprima nessuno gli bada; dopo un po’ alcuni cominciano a osservarlo divertiti, altri infastiditi. I genitori ancora non si sono accorti dell’assolo di tromba. Il figlio è sempre più rapito dalla sua stessa musica, si muove a tempo, si divincola, come in un raptus. Il ritmo si fa più veloce, gli acuti più febbrili. Il bambino si ferma un attimo. «Sto suonando la tromba», dice. Poi riprende l’assolo, come in trance, mescolando varie melodie e terminando con una nota prolungata. Esausto, si lascia cadere supino sul prato, con gli occhi rivolti al cielo. Dal tavolo sua madre gli chiede: «Va tutto bene?» «Sì» risponde il bambino, ansimando. Poi, come tra sé, aggiunge: «Ehi, si vedono le stelle!»
Stavano sbiadendo le ultime stelle anche quando mi sono svegliato dopo una notte all’addiaccio, nel cuore dell’Ucraina. Una nebbiolina che saliva dal basso lasciava presagire che sarebbe stata una giornata calda. Stavo seguendo il crinale di una montagna, lungo l’estrema propaggine di una zona selvaggia ricca di foreste, di orsi e di fiumi tortuosi. Nel pomeriggio mi sarei abbassato fino a raggiungere la città di Yabluniv, della quale sapevo soltanto che aveva due o tremila abitanti e che era conosciuta per il suo museo ebraico. Avevo anche sentito dire che, poco lontano dalla zona urbana, c’era un colossale impianto di pollicultura. Non so perché, ma la cosa mi suscitava una certa inquietudine.
Quel mattino, comunque, ero solo. Forse per questa ragione ero attento ai dettagli: le volute della nebbia, il fruscio dell’erba sotto ai miei piedi, il volo di una farfalla. Quest’ultimo evento, in particolare, ha catturato la mia attenzione. In un certo senso, mi ha fatto venire in mente il bambino che fingeva di suonare la tromba. Avevo la sensazione di trovarmi davanti a un impeto creativo, a un gesto di arte involontaria. Involontaria? Quanto è cosciente una farfalla della sua grazia? Chi crea veramente quella bellezza? Ogni essere umano prova a dare una risposta: Dio, la natura, il caso. Ma di certo la bellezza è innegabile, per tutti. Il battito delle ali, l’irregolarità del volo, l’incanto dei colori, gli abbinamenti cromatici che si rinnovano di fiore in fiore. Che cosa c’è di più naturale di una farfalla ai margini di un sentiero? E nello stesso tempo, che cosa c’è di più meraviglioso?

HAIKU

Viene la sera –
le peonie si addormentano
stanche di sole.

PS: Questo è il sesto “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo,  aprile e maggio.

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Myaungmya

“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.

Maggio
Hanafuda: Iris / Ponte
Luogo: Myaungmya, Myanmar (Birmania)
Coordinate: 16°31’20.5″N 95°10’56.7″E
(Latitudine 16.52237; longitudine 95.18241)
È una calda giornata di maggio. Alle sei di sera sono seduto da solo al tavolo di un bar, davanti a un parcheggio. Sto pensando a un quadro di Van Gogh intitolato Iris. L’artista lo dipinse nel maggio 1899, un anno prima di morire, quando era ricoverato nell’ospedale del monastero di Saint-Paul-de-Mausole, a Saint-Rémy-de-Provence. Dopo una settimana di degenza, Van Gogh si affidò alla vivacità, alla leggerezza, all’incanto di questi fiori per non sprofondare nella solitudine e nella malattia. Fece in modo che il viola si stagliasse sul verde e sul bruno, e cercò di trovare pace nella precisione del suo lavoro, nel gesto abituale, mostrando ancora una volta quanto un semplice giardino non sia mai soltanto un semplice giardino.
Ordino un bicchiere di vino bianco secco. Bere un aperitivo da solo è un’attività che consente di rallentare il tempo, almeno in apparenza. Il mio pensiero spazia dalle iris della Provenza alle chiacchiere dei miei vicini di tavolo. Osservo una macchina che tenta di parcheggiare. Vedo il segno L della scuola guida e capisco che l’automobilista dev’essere alle prime armi… infatti l’operazione fallisce. Allora pilota e co-pilota si scambiano di posto: la ragazza che era alla guida cede il posto alla donna che la stava istruendo. Ma nemmeno quest’ultima è in grado di parcheggiare la macchina. Le due, nervosamente si scambiano di posto un’altra volta. Di colpo, noto una cosa straordinaria: la conducente e l’insegnante sono la stessa persona! Entrambe vestite con leggins e maglietta nera, entrambe con i capelli ricci e neri fino alle spalle, con gli stessi identici lineamenti.
Mentre infine una delle due riesce a parcheggiare, capisco meglio la scelta di Van Gogh, la scelta di ogni artista. C’è sempre una spiegazione banale: le due ragazze sono sorelle, vicine per età e molto simili d’aspetto; oppure sono madre e figlia, e la madre è estremamente giovanile. Ma noi davvero vogliamo le spiegazioni banali? Davvero il nostro pensiero non preferisce navigare verso l’impossibile? Basta poco. Io che faccio scuola guida a me stesso. Il mio doppio che riesce a parcheggiare dove io ho fallito.
Mi è capitato di ripensare all’oscillazione fra reale e immaginario sulla strada fra Kyonmange e Myaungmya, nel sud della Birmania (o del Myanmar). L’automobile procede lungo una strada sterrata. Alla guida c’è un uomo sulla sessantina, che mi ha detto di chiamarsi U Kan e che, in un misto tra inglese e francese, prova a spiegarmi perché il paese dei suoi sogni non sarà mai come quello reale.
Mi spiega che stiamo costeggiando l’Irrawaddy, il grande Fiume Madre. Mi dice che da bambino amava navigare con la barca di suo zio nel mezzo della corrente. Stava sdraiato nel fondo dell’imbarcazione, con il cielo negli occhi. Poi si rialzava e il paesaggio appariva meraviglioso: le variazioni di colore dell’acqua, le foreste, i piccoli porti, le città, i delfini di fiume…
– At that time there were still dolphins – borbotta. – It was the childhood. But c’était la misère. We everytime hungry, we scared.
Il Myanmar (o Birmania) resta fra i paesi più poveri del mondo. Inoltre la violenza non è mai lontana: le minoranze cristiane e islamiche sono perseguitate da gruppi di fondamentalisti buddisti.
– My name is Kan. C’est la fortune, the luck… – il mio autista scoppia a ridere. – We are alive… we are all lucky, okay, c’est la belle vie, non?
Il fiume Irrawaddy (ဧရာဝတီမြစ်) nasce sull’Himalaya, a quasi seimila metri di quota, e scorre per 2170 chilometri prima di gettarsi nell’Oceano Indiano. Mi sono informato: in effetti i delfini di fiume, cioè le orcelle asiatiche (Orcaella brevirostris) sono in via di estinzione. Il mio autista, nonostante tutto, si dice speranzoso.
– Kò – mi chiama. – Kò, we have a great river.
A dodici chilometri dalla città di Kyonmange, ci fermiamo a Myaungmya. Facciamo due passi tra i campi, sulla destra. Davanti a noi c’è un ponte che supera un canale perpendicolare all’Irrawaddy. Il mio autista dice che gli piacciono i ponti. La sua opinione è che dovrebbero fare più ponti. Io penso a Van Gogh, alle gemelle della scuola guida, al passaggio precario tra la quotidianità e l’immaginazione. Gli dico che anche a me piacciono i ponti. Lui si fa pensieroso. A proposito, mi chiede, perché ho voluto fermarmi proprio qui? Che cosa sono venuto a cercare a Myaungmya?
Rimango per un attimo in silenzio. – I don’t know – rispondo.
Lui scoppia a ridere. – Ah, c’est la belle vie – ripete. – C’est la belle vie…

HAIKU

Splende nel calice
un vino bianco freddo.
È quasi estate.

 

PS: Questo è il quinto “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraiomarzo e aprile.

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Igarapeba

[“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.]

Aprile
Hanafuda: Glicine / Cuculo
Luogo: Igarapeba, São Benedito do Sul, Pernambuco, Brasile
Coordinate: 8°48’09.8″S, 35°54’15.7″W
(Latitudine -8.80271; longitudine -35.90437)

Mi sono allenato poco. Le giunture scricchiolano, i muscoli inviano al cervello messaggi di protesta. Salgo sui pedali, poi mi siedo e tento di respirare con regolarità. Cerco il passo giusto, l’andatura che mi permetta di arrivare in cima. Per la prima volta le temperature sono quasi estive, il sole avvampa, ovunque lungo la via ronzano insetti e tosaerba. Un’altra curva. La strada è sempre più ripida. La fatica mi aggredisce, mi prende alla gola. I polmoni chiedono aria. Da qualche parte intorno a me, come a ritmare la mia pedalata, arriva il canto di un cuculo. Il battito frenetico del mio cuore in qualche modo si accorda a quel basso continuo, a quella sillaba ripetuta sempre alla stessa altezza, nella stessa tonalità.
Il mondo, filtrato dalla fatica, appare più calmo, più armonioso. Il mio affanno mi spinge a pensare a ciò che manca, a ciò che resta fuori dal quadro. Qui, altrove, a un passo da me, dietro lo scintillìo del presente si cela il mondo opaco, il mondo impreparato alla primavera. Le persone ferite, le cose che non vanno, chi non procede al passo degli altri, chi sanguina da una ferita che non si rimargina nemmeno al sole dei giorni migliori. Dopo un tratto di pianura, affronto un’altra salita. Dal prato alla mia destra salta fuori una cavalletta e si posa proprio davanti alla ruota. Tutto avviene in un lampo. La bicicletta avanza, sovrasta l’animale. Ma all’ultimo istante, appena prima di finire spezzata e travolta, la cavalletta balza di nuovo, fugge, torna al suo prato.
Il tempo, il momento giusto. Sto avanzando ancora in bicicletta, ma stavolta lungo un altopiano a São Benedito do Sul, nello stato brasiliano del Pernambuco. Il mio obiettivo è il villaggio di Igarapeba: in linea d’aria è a un paio di chilometri, ma in bicicletta, secondo i miei calcoli, sarano dieci chilometri. Poi vorrei scendere verso sud, fino all’agriturismo Fazenda Mambuca, dove trascorrerò la notte. Ma per arrivarci devo prima capire come raggiungere la strada carrozzabile. Il viottolo sterrato che mi ha portato fin qui si è perso nell’aia di una fattoria. Le nuvole incombono basse, minacciando pioggia. Dicono che da queste parti si possono ammirare cascate stupende, ma al momento intorno a me vedo solo erba e polvere.
Mi avvicino alla fattoria. Chiamo. Dopo un paio di minuti, si affaccia un uomo corpulento, sulla cinquantina. Mi viene incontro.
– Para onde vais?
– Igarapeba.
– Você anda de bicicleta?
Annuisco. L’uomo fa un sospiro. Mi stringe la mano.
– José.
– Andrea.
Dopo avermi offerto un bicchiere d’acqua, José prova a disegnarmi la strada su un pezzo di giornale. In realtà, mi spiega, il tratto più difficile sono i primi cinque o seicento metri: devo spingere la bicicletta a mano fra i campi, trovare il modo di attraversare il fiume e arrampicarmi fino alla strada. José mi dice che la strada sale per qualche chilometro, ma poi è tudo em declive, è tutta discesa fino a Igarapeba. Prima di salutarmi, José mi consiglia di fermarmi al bar Encontro Dos Amigos in rua do Comercio, se è aperto, e di scolarmi una birra alla sua salute.
Il momento giusto. Il posto giusto. Essere nel terrazzo di un bar, a Igarapeba, all’ombra di un albero o di una pergola, a bere una birra che lavi tutta la polvere del viaggio. Una birra fresca, il sudore sulla pelle. Gli occhi sazi di colline, campi, erba lisciata dal vento. Mentre spingo la bicicletta verso il fiume, rifletto sulla semplicità della mia situazione: lo sforzo fisico, la sete, il desiderio di sedermi a un tavolo, di scambiare due parole con uno sconosciuto. Cerco d’immaginare la mia meta. Un piccolo bar dalle pareti appena intonacate, una terrazza coperta di glicine. Il bianco, il viola. Una birra che, nel pensiero, diventa sempre più fresca, sempre più rigenerante.
Questi desideri banali mi parificano al mondo, mi ancorano alla cosiddetta “attualità” più del flusso d’informazioni che invade il mio telefono. Penso al vecchio pezzo di giornale dove José ha disegnato la strada. Che ci sarà stato, su quel giornale? Le solite polemiche, i soliti discorsi sui massimi sistemi, la retorica dello sport, il miagolìo della cultura, la politica con le sue parole – destra, sinistra, volontà popolare – sempre più prive di senso, sempre meno adatte a descrivere il buio, il terrore, ma anche la meraviglia e l’incanto dell’attimo presente.

HAIKU

In bicicletta –
Il cuculo sorprende
la mia fatica.

 

PS: Questo è il quarto “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraio e marzo.

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