Igarapeba

[“Viaggi immaginari” è una serie di reportage da luoghi che non ho mai visto, scelti a caso sulla mappa del mondo. A farmi da guida l’antico gioco Hanafuda, che scandisce le stagioni dell’anno. Ogni mese le carte mi accompagnano nella scrittura di un racconto di viaggio e di un haiku.]

Aprile
Hanafuda: Glicine / Cuculo
Luogo: Igarapeba, São Benedito do Sul, Pernambuco, Brasile
Coordinate: 8°48’09.8″S, 35°54’15.7″W
(Latitudine -8.80271; longitudine -35.90437)

Mi sono allenato poco. Le giunture scricchiolano, i muscoli inviano al cervello messaggi di protesta. Salgo sui pedali, poi mi siedo e tento di respirare con regolarità. Cerco il passo giusto, l’andatura che mi permetta di arrivare in cima. Per la prima volta le temperature sono quasi estive, il sole avvampa, ovunque lungo la via ronzano insetti e tosaerba. Un’altra curva. La strada è sempre più ripida. La fatica mi aggredisce, mi prende alla gola. I polmoni chiedono aria. Da qualche parte intorno a me, come a ritmare la mia pedalata, arriva il canto di un cuculo. Il battito frenetico del mio cuore in qualche modo si accorda a quel basso continuo, a quella sillaba ripetuta sempre alla stessa altezza, nella stessa tonalità.
Il mondo, filtrato dalla fatica, appare più calmo, più armonioso. Il mio affanno mi spinge a pensare a ciò che manca, a ciò che resta fuori dal quadro. Qui, altrove, a un passo da me, dietro lo scintillìo del presente si cela il mondo opaco, il mondo impreparato alla primavera. Le persone ferite, le cose che non vanno, chi non procede al passo degli altri, chi sanguina da una ferita che non si rimargina nemmeno al sole dei giorni migliori. Dopo un tratto di pianura, affronto un’altra salita. Dal prato alla mia destra salta fuori una cavalletta e si posa proprio davanti alla ruota. Tutto avviene in un lampo. La bicicletta avanza, sovrasta l’animale. Ma all’ultimo istante, appena prima di finire spezzata e travolta, la cavalletta balza di nuovo, fugge, torna al suo prato.
Il tempo, il momento giusto. Sto avanzando ancora in bicicletta, ma stavolta lungo un altopiano a São Benedito do Sul, nello stato brasiliano del Pernambuco. Il mio obiettivo è il villaggio di Igarapeba: in linea d’aria è a un paio di chilometri, ma in bicicletta, secondo i miei calcoli, sarano dieci chilometri. Poi vorrei scendere verso sud, fino all’agriturismo Fazenda Mambuca, dove trascorrerò la notte. Ma per arrivarci devo prima capire come raggiungere la strada carrozzabile. Il viottolo sterrato che mi ha portato fin qui si è perso nell’aia di una fattoria. Le nuvole incombono basse, minacciando pioggia. Dicono che da queste parti si possono ammirare cascate stupende, ma al momento intorno a me vedo solo erba e polvere.
Mi avvicino alla fattoria. Chiamo. Dopo un paio di minuti, si affaccia un uomo corpulento, sulla cinquantina. Mi viene incontro.
– Para onde vais?
– Igarapeba.
– Você anda de bicicleta?
Annuisco. L’uomo fa un sospiro. Mi stringe la mano.
– José.
– Andrea.
Dopo avermi offerto un bicchiere d’acqua, José prova a disegnarmi la strada su un pezzo di giornale. In realtà, mi spiega, il tratto più difficile sono i primi cinque o seicento metri: devo spingere la bicicletta a mano fra i campi, trovare il modo di attraversare il fiume e arrampicarmi fino alla strada. José mi dice che la strada sale per qualche chilometro, ma poi è tudo em declive, è tutta discesa fino a Igarapeba. Prima di salutarmi, José mi consiglia di fermarmi al bar Encontro Dos Amigos in rua do Comercio, se è aperto, e di scolarmi una birra alla sua salute.
Il momento giusto. Il posto giusto. Essere nel terrazzo di un bar, a Igarapeba, all’ombra di un albero o di una pergola, a bere una birra che lavi tutta la polvere del viaggio. Una birra fresca, il sudore sulla pelle. Gli occhi sazi di colline, campi, erba lisciata dal vento. Mentre spingo la bicicletta verso il fiume, rifletto sulla semplicità della mia situazione: lo sforzo fisico, la sete, il desiderio di sedermi a un tavolo, di scambiare due parole con uno sconosciuto. Cerco d’immaginare la mia meta. Un piccolo bar dalle pareti appena intonacate, una terrazza coperta di glicine. Il bianco, il viola. Una birra che, nel pensiero, diventa sempre più fresca, sempre più rigenerante.
Questi desideri banali mi parificano al mondo, mi ancorano alla cosiddetta “attualità” più del flusso d’informazioni che invade il mio telefono. Penso al vecchio pezzo di giornale dove José ha disegnato la strada. Che ci sarà stato, su quel giornale? Le solite polemiche, i soliti discorsi sui massimi sistemi, la retorica dello sport, il miagolìo della cultura, la politica con le sue parole – destra, sinistra, volontà popolare – sempre più prive di senso, sempre meno adatte a descrivere il buio, il terrore, ma anche la meraviglia e l’incanto dell’attimo presente.

HAIKU

In bicicletta –
Il cuculo sorprende
la mia fatica.

 

PS: Questo è il quarto “viaggio immaginario”. Ecco le puntate di gennaiofebbraio e marzo.

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rOssUrAcArÌ

Mi capita spesso di andare in bicicletta da Rossura a Carì, nella parte alta della valle Leventina (nel Canton Ticino). È una salita ripida, lunga una decina di chilometri. Ho sempre pensato che il suono dei due toponimi, nel mutare delle vocali, riassumesse il percorso: all’inizio, dopo il bivio tra Faido e Rossura, il respiro comincia a farsi difficile (rO), poi l’affanno cresce chilometro dopo chilometro (ssU), finché dopo Campello arriva un tratto pianeggiante per tirare il fiato (rAcA), prima dell’ultimo strappo (rÌ) dove braccia, cuore e polmoni si aggrappano al manubrio.
Viaggiare in bicicletta, anche quando si arranca come nel mio caso, non consente l’immersione nel paesaggio di chi va a piedi; ma non c’è neppure il distacco di un transito in automobile. In bicicletta riusciamo ad afferrare qualche dettaglio – un frammento di frase, un profumo – ma poi siamo già lontani. Quando camminiamo, in un certo senso, facciamo una piccola pausa a ogni passo, mentre in bici il nostro corpo deve piegarsi alle esigenze implacabili di una macchina. Salendo verso Carì, per esempio, sento il battito di un picchio nel bosco, vedo guizzare una biscia in una macchia di rovi; addirittura, a un certo punto, un cerbiatto spaventato mi taglia la strada. Ma è un lampo: appena registro la presenza degli animali, sono già oltre. A Calpiogna suonano le campane di mezzogiorno. Nell’aria, si diffonde un odore di salsicce alla griglia. Alle finestre c’è un profluvio di bandiere rosse con la croce bianca (il primo di agosto è la festa nazionale svizzera). A Molare, alla fine di un chilometro impervio, appare una catasta di legna che aspetta di consumare il suo destino come falò.
A lungo salgo da solo, poi vengo superato da qualche automobile. Passa pure un idiota che taglia le curve a una velocità folle: mi viene in mente che, se fossi stato in discesa, avrei corso il rischio di venire falciato. Qualcuno sta pranzando fuori su tavoli di legno, altri fanno il bagno in piscina. Seminascosta da una siepe, noto una fanciulla dal corpo dorato, distesa a prendere il sole con il petto scoperto. Ma la macchina, come dicevo, è implacabile: tutto viene consumato nel flusso dei pedali…
Ci sono cartelli che annunciano case e terreni in vendita. Nel momento in cui il sole picchia più forte, mentre la fatica si fa sentire, mi viene in mente che potrei fermarmi qui, come facevano i pionieri che andavano verso ovest: comprare un pezzo di terra, costruire un ranch e mettere su un allevamento di cavalli. L’idea assurda si dissolve nel momento in cui nasce, anche perché la strada sale, s’impenna ancora.
Le curve diventano momenti preziosi, in cui prendere un respiro più lungo prima di alzarsi sui pedali. Sulla sinistra avvisto un cartello che segnala un distributore self service di formaggio, aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. M’immagino un buongustaio che, colto da improvviso appetito nel cuore della notte, si arrampichi fin quassù, inserisca la carta di credito e ottenga l’agognato pezzo di Piora o di formaggella.
Un paio di anni fa anche il Giro della Svizzera fece tappa a Carì. Resta ancora qualche segno: una sagoma di ciclista sul tetto di un garage e alcune scritte sull’asfalto. Mi limito a segnalarne tre: 1) Un incitamento a Fabian Cancellara, un professionista che nel frattempo si è ritirato (ma il suo nome dura ancora sulle strade); 2) Un gigantesco pene maschile, sbiadito ma tenace; 3) lo slogan W IL NOCINO, proprio nel tratto più impegnativo.
La borraccia è ormai vuota. M’inerpico verso la fontana che mi aspetta alla fine, ai margini di un prato. Solo il primo sorso di acqua fresca interromperà la sofferenza. Perché in fin dei conti andare in salita con la bicicletta è un gesto che provoca sofferenza. Nient’altro. Forse è proprio per questo che mi piace. Non mi aiuta a rilassarmi, non è una cosa divertente, non ha aspetti socievoli (vado sempre da solo), non ho bisogno di perdere peso e non sento l’esigenza di fare sport.
Fra l’altro, mi piace uscire negli orari in cui il sole è a picco: il caldo, il sudore, la tensione nelle gambe e nelle braccia, il respiro spezzato… ho la sensazione che tutto questo serva a bruciare i pensieri neri, portandomi in una dimensione dove esiste solo il presente. Il cervello è intento nella prossima pedalata, nella prossima curva, e non può soffermarsi nella tristezza. Sebbene questo in realtà non sia del tutto vero: lungo un tratto lontano dagli abitati, in mezzo a un bosco, noto una palla di plastica colorata dentro un tombino. Non ci sono case, nei paraggi, non ci sono ragazzi né piscine. Mi chiedo da dove sia rotolata la palla e quanto durerà, nell’ombra perenne di quel buco. Inevitabilmente, paragono il percorso della palla smarrita al mio, al nostro. Quando anche noi rotoleremo via, presto o tardi, da quale genere di tombino oscuro dovremo passare?
Mi sembra però che nello sforzo di salire la riflessione non sia del tutto nefasta. Ai bordi della via, ci sono parecchie cappelle con dipinte scene sacre. Una, in particolare, mostra Gesù appena deposto dalla croce nelle braccia di Maria, coperta da un manto azzurro che spicca da lontano. Anche questo dolore immenso si unisce alla mia piccola sofferenza, al mio affanno. Penso alle persone ammalate, penso ai morti che ho conosciuto, li passo in rassegna uno per uno mentre salgo. Può darsi che, in qualche maniera inesplicabile, la mia fatica abbia una doppia funzione: da un lato mi aiuta ad avere ben presenti i morti, il male, la disperazione; dall’altro mi permette di gettare i pensieri nel prossimo giro di pedali, senza indugiare nelle ombre della malinconia.
Quando scrivo ho l’impressione d’innescare un meccanismo simile. La differenza è che la salita in bicicletta non costruisce niente, mentre la scrittura lascia un segno che può essere condiviso. Proprio questa prospettiva, la condivisione dell’interiorità che diventa racconto, è ciò che mi motiva a scrivere. A volte però mi capita di chiedermi se il senso più profondo non consista nell’offerta – che sia un romanzo o una salita. Come se fosse necessario offrire la fatica per mettere a nudo frammenti di sé o del mondo.
C’è un brano di John Coltrane che esprime bene questo aspetto: infatti s’intitola proprio Offering. So di aver già parlato di Coltrane un paio di settimane fa, per ricordare i cinquant’anni dalla sua scomparsa, ma mi pare opportuno proporre l’ascolto di questo pezzo stupefacente. (Non si tratta di musica facile: le orecchie sensibili stiano in guardia…) Per me il sax tenore di Offering è figura di un uomo che s’inerpica su una china, in bicicletta o a piedi, raggiunge l’apice dello sforzo e poi, finalmente, si placa nel respiro libero e lirico della discesa.

Per una cinquantina di secondi Coltrane suona volute di note che si alzano come segnali di fumo (mi pare che riprenda qualcosa da Aknowledgement, in A Love supreme). È accompagnato da Alice Coltrane al piano, Jimmy Garrison al basso e Rashied Ali alla batteria. Poi, lentamente, cresce l’onda del delirio. Il basso tace, o forse ha sempre taciuto, sopraffatto dalla forza d’urto. Anche Alice Coltrane si ferma, intimorita. Rashied Ali invece incalza Coltrane, lo pungola, lo sferza, e la furia tumultuosa del sax diventa frastuono, urlo, strazio, tensione vibrante verso un oltre che non si lascia afferrare. Infine, cessata la tempesta, tornano gli accordi del pianoforte. Ora il sax è quasi melodico, intriso di tutto ciò che è riuscito a sfiorare lassù, dove il fiato si fa corto e appaiono visioni nel nitore dell’azzurro.

PS: Offering si trova nell’album Expression (Impulse, settembre 1967). Il brano venne registrato il 15 febbraio 1967; pochi mesi dopo, il 17 luglio, Coltrane morì per un tumore allo stomaco.

 

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Un panino al salame

Perché salire? La domanda mi arriva così, dopo una curva. I muscoli, il fiato, la catena, le ruote, tutti lavorano. Quest’anno però sono fuori allenamento e perciò, nella mia prima scalata verso Carena, devo fare i conti con una mozione di protesta. 1) Le gambe: Una bicicletta da corsa… era necessario? 2) I polmoni: Che cosa… c’è… che non va… nella dolcezza della pianura? 3) Il cuore: Povero me, perché proprio la stessa salita che percorrevi a diciotto anni? 4) Il cervello: No comment. 5) Coro: E quindi, in conclusione, chi te lo fa fare?
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Parto da Giubiasco, vicino a Bellinzona, a una quota di 244 metri sul livello del mare, e arrivo a Carena (958 mslm) dopo un percorso di 10,6 chilometri. Durante il tragitto passo da Lôro, Pianezzo, Vellano, Carmena e Melera. È una strada che conosco a memoria. Quanto ci metto? All’incirca trenta minuti, quando non sono in forma. Altrimenti cerco di stare sotto i venticinque.
Attenzione, la frase precedente l’ho scritta nell’intento di far sobbalzare – sia pure soltanto per una frazione di secondo – gli eventuali appassionati di ciclismo che leggono questo blog. Naturalmente, sono ben lontano da questi tempi… e lo ero anche a diciotto anni! Non ho l’abitudine di conometrare e mie uscite in bicicletta (vado a pedalare proprio per starmene lontano dagli orologi, in senso proprio e metaforico). So che impiego più o meno un’ora, ma il contachilometri che ho sul manubrio ha esaurito le batterie anni fa, e non ne ho mai comprate di nuove.
image1Quando cominciai a uscire in bicicletta, durante l’adolescenza, seguivo il ciclismo con interesse. Ancora oggi mi tengo aggiornato, guardando qualche gara alla tivù o più spesso sfogliando le pagine sportive dei giornali. Di recente, mi è capitato di leggere un breve romanzo di atmosfera ciclistica: Cicale al carbonio, scritto da Carlo Zanzi e pubblicato nel 2008 dal Gruppo editoriale Eureka. L’autore suggerisce che la domanda con cui si apre questo articolo possa risuonare anche in un gruppo di professionisti: Un piccolo lago, alberghi e il bosco più fitto. Ai tornanti cartelli indicavano l’altitudine: millesettecentotrenta metri sopra il livello del mare. Nessuno si era permesso di scattare, neppure gli avventurieri alla caccia di qualche ripresa televisiva. Avevano tutti freddo lì in mezzo. Quando potevano, s’avvicinavano per scaldarsi. Ma nel gruppo allungato, biscia colorata a picco su Canazei, scoppiavano soprattutto imprecazioni, battute e, non dette, ricerche di un senso a tutta quella sofferenza fra i monti.
Ecco, si tratta proprio di questo: sofferenza fra i monti.
Perché, dunque?
Durante la salita lascio che la mente divaghi. Forse per il tempo che passa adagio, forse per la fatica nei muscoli e nel sangue, mi capita spesso di pensare a persone che ho conosciuto e che non ci sono più. È come se la tormentosa ascesa del corpo, in qualche modo, favorisse anche quella del pensiero. Qualche volta, se ci sono lavori in corso, mi devo fermare per pochi secondi. Bevo un sorso d’acqua, aspetto che il solenne autopostale giallo davanti a me riprenda a salire.
image1 copia 2Tutto è molto verde, molto azzurro. Un ciclista sulla cinquantina, dal fisico nodoso, mi raggiunge e mi supera, lentamente, concentrato nel suo ritmo. Lo lascio andare e rimango solo, in un tratto di strada meno ripido. Guardo le montagne: le case sembrano appoggiate sulle macchie di prato da un bambino che giochi a creare un piccolo mondo. Ci sono greggi di pecore: campane, belati, la corsa di un agnello (il suo belato, più urgente, è di un’ottava più alto). Passo e colgo brandelli di paesaggio, di conversazione. All’ombra dei portici siedono persone rilassate, nel cuore del pomeriggio. Il fruscio di una fontana mi accompagna per qualche metro. È uno scenario che, in questo momento, non mi appartiene. Ho il fiato breve, il cuore che pulsa. Insomma: sto faticando. Perché invece non mi siedo anch’io all’ombra, con una birra fresca?
Copia di image1Perché, a pensarci bene, sta succedendo qualcosa. Un’uscita in bicicletta per me non è un banale allenamento sportivo, ma una storia minima, un viaggio, un arco narrativo dalla fatica al sollievo, dalla freschezza iniziale al rimescolio del sangue fino allo scioglimento finale, con il respiro che ritrova la sua compostezza e i pensieri che tornano alla quiete. Mi piace pedalare così come mi piace camminare: senza fretta, seguendo un ritmo profondo. Affronto le salite proprio come affronto il lavoro della scrittura: è un percorso che si costruisce un pezzo alla volta, senza mai sapere che cosa si vedrà dietro la prossima curva. Anche quando conosco le strade, sono abbastanza distratto per dimenticarle. Così accade quando scrivo, quando viaggio, perfino quando suono. In un certo senso, forse, è uno dei segreti della creatività: essere pronti a dimenticare le strade note.
image1 copia 4Quando arrivo a Carena, appoggio la bicicletta contro il muro. Di fianco a me c’è l’edificio della vecchia dogana: in passato tra queste zone e la val Cavargna (in Italia) correvano traffici più o meno legali. Ora è tutto tranquillo e oltre al mio fiato si sente soltanto il gorgoglio del vecchio lavatoio (è severamente vietato lordare l’acqua, mi avvisa un cartello, e i trasgressori verranno puniti a norma di regolamento).
Svito il tappo della borraccia, la riempio di acqua fresca. Perché salire? La risposta alla domanda iniziale è tutta in quei pochi secondi di pausa, prima di portare la borraccia alle labbra. Sono sentimenti semplici: la sete, il calore, la freschezza, la dolcezza sublime dell’acqua che si dirama lungo il sistema nervoso. Ecco perché vado in bicicletta: perché prima di bere, bisogna avere sete.
image1 copia 5Anche Carlo Zanzi, in un momento significativo del suo Cicale al carbonio, nota qualcosa del genere: Marco saliva e la fatica si spegneva, lasciandogli nelle gambe e nella pancia una bella sensazione. Alzò lo sguardo verso la fine della scalata; più a destra, fra il Cuvignone e la cima del Monte Nudo, galleggiavano nel cielo tre parapendii. Uomini appesi a una tela colorata sfidavano il vuoto e la loro paura. Li seguì nel loro volo lieve, curando con la coda dell’occhio di non finire nella scarpata, dentro buche o contro i sassi lasciati in strada dall’inverno. Si sentì leggero e felice. Provò desiderio di un panino al salame.

PS: Per apprezzare l’ultima fotografia di questo articolo, credo che sia necessario un accenno di colonna sonora. Eccolo:

 

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