Quando ascolto la musica di John Coltrane, mi sembra di cogliere una fatica e una meraviglia. Fatica: lo sforzo e l’incessante sfida tecnica; meraviglia: la dolcezza di certi passaggi, l’incanto dell’ingranaggio armonico e melodico. Mi chiedo allora se fatica e meraviglia non siano i due poli da cui nasce ogni forma artistica, compresa la letteratura.
In effetti, il mio primo ricordo è la fatica. Da bambino, come succede a molti mancini, formavo le lettere al contrario e creavo grovigli invece di parole: lo slancio di ciò che volevo dire era frenato da quelle aste, da quelle arcane linee ricurve.
Ancora oggi c’è una frizione nel momento in cui ciò che avverto dentro di me, come potenzialità indefinita, trova un modo di espressione, uno solo, con tutti i suoi limiti. Quello che appare sulla pagina è sempre diverso da quello che avevo in mente: prima di tutto perché ciò che scrivo esiste, mentre ciò che penso è come una vela che passa in lontananza. Dare voce ai personaggi, costruire una storia mi suscita meraviglia: in fondo né la storia né i personaggi mi appartengono; semplicemente, li ho trovati lungo la via.
Ascoltare Coltrane è diventato un modo d’interrogarmi sul mio lavoro. All’inizio non me ne rendevo conto: ero soltanto stupito da quel saxofono insieme impetuoso e limpido, fluviale, serio, sempre teso alla ricerca di qualcosa. Ero studente e vivevo a Zurigo quando, per caso, mi trovai ad ascoltare A love supreme (Impulse 1964). Si tratta della sua opera forse più celebre: una suite divisa in quattro parti (Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Psalm), che è allo stesso tempo Canzona di ringraziamento (come l’avrebbe definita Beethoven), professione di fede, autentica dichiarazione di gioia spirituale, applicazione delle ricerche di Coltrane nel campo della modalità e molto altro ancora (così Carlo Boccadoro nel suo Jazz, Einaudi 2005). A emozionarmi era soprattutto la parte finale, Psalm. Nella mia ignoranza musicale, mi colpiva soprattutto il suono, dolente, misterioso, e le frasi ripetute sopra il rimbombo dei timpani, gli accordi del pianoforte, il lungo strascinio dei piatti. Anni dopo, leggendo qualche libro su Coltrane e in particolare su A love supreme, scoprii che in Psalm il saxofonista suonò avendo in mente un testo scritto da lui stesso, riportato nel libretto del disco. Sotto la musica, insomma, si nascondevano le parole, e la musica le portava oltre, espandeva il loro significato.
John Coltrane ebbe una vita breve. Nato il 23 settembre 1926, morì a quarantun anni il 17 luglio 1967. I suoi primi dischi come leader uscirono nel 1957: negli ultimi dieci anni di vita continuò a esplorare strade impervie, in una continua, bruciante evoluzione, sorprendendo – e talvolta sconcertando – il suo pubblico. Lui stesso, in un’intervista, definì il suo metodo di lavoro: Parto da un punto e vado il più lontano possibile. La musica di Coltrane (insieme a quella di molti altri) è per me un’esortazione a percorrere strade nuove, nel mio lavoro e nella mia vita. Questo non significa lasciarsi tutto alle spalle, ma cercare la novità anche nel fluire dell’abitudine. Come scrive il critico musicale Xavier Daverat, la ripetizione coltraniana è un fenomeno di memoria diretto verso l’avvenire. Si tratta di essere pronti a vivere la fatica, senza abbandonare la meraviglia. Lo stesso Coltrane diceva: Essere un musicista è un’esperienza davvero unica. Ti permette di andare molto, molto a fondo. La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono: la mia fede, il mio sapere, la mia essenza. E aggiungeva: Voglio parlare all’anima delle persone.
Di sicuro, Coltrane parlò all’anima di molte persone con la melodia commovente di Alabama, registrata il 18 novembre 1963 nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs (New Jersey). Poco più di un mese prima, il 15 settembre, il Ku Klux Klan aveva perpetrato un attentato in una chiesa battista a Birmingham, in Alabama, ed erano rimaste uccise quattro bambine.
Il brano Alabama si trova nell’album Coltrane Live at Birdland (Impulse 1963). Nelle note di copertina, lo scrittore Amiri Baraka (pseudonimo di LeRoi Jones) cita una frase dello stesso Coltrane secondo cui il pezzo rappresenta musicalmente qualcosa che ho visto laggiù e che da dentro di me si è trasferito nella musica. È impressionante sentire il lamento del sax sopra la batteria che cresce sullo sfondo come un fenomeno naturale… un tuono che si rinforza, nubi di tempesta o nubi di guerra nella giungla (Amiri Baraka). Protesta, canto, preghiera: s’intuisce il respiro spezzato dalla sofferenza, lo stupore di un uomo davanti all’assurdità del male. Ma il respiro diventa musica. Il respiro diventa bellezza. Il soffio risale dai polmoni, percorre il tubo del saxofono e piange per quelle bambine, piange per lo strazio di tutti gli attentati. Anche per quelli di oggi; Coltrane non poteva saperlo, ma nel suo pianto risuona il dolore per ogni violenza, per ogni bomba scagliata dall’odio. E in quel pianto l’umanità resiste, anche in mezzo al caos, e afferma una speranza. Il respiro diventa voce.
PS: La versione video di Alabama proviene da uno spettacolo televisivo statunitense del dicembre 1963. I musicisti sono gli stessi dell’album: John Coltrane al sax tenore, MCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria. Fra l’altro, è lo stesso quartetto che registrò A love supreme.
PPS: Senza far riferimento a Coltrane, ho parlato qui della mia personale esperienza di saxofonista (agguerrito, ma principiante…). La musica di Coltrane, insieme a quella di altri musicisti jazz, è una delle fonti d’ispirazione per il mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016). In particolare, ho parlato qui del brano In a sentimental mood (inciso da Coltrane nel 1962 con Duke Ellington).
PPPS: Ringrazio Lina per il saggio di scrittura. Le dichiarazioni di Coltrane provengono da vari libri: “Je pars d’un point et je vais le plus loin possible”. Entretiens avec Michel Delorme suivis d’une lettre à Don DeMichael (Éditions de l’éclat 2012); Coltrane secondo Coltrane. Tutte le interviste (2010, a cura di Chris DeVito; l’edizione italiana, stampata nel 2012, è a cura di Francesco Martinelli per EDT); Lewis Porter, Blue Train. La vita e la musica di John Coltrane (1998, traduzione italiana di Adelaide Cioni nel 2006 per Minimum Fax); Ashley Kahn, A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane (2002, traduzione italiana di Fabio Zucchella nel 2004 per Il Saggiatore; da questo volume ho preso alcune delle fotografie che vedete sopra). Ho citato anche Xavier Daverat, Tombeau de John Coltrane (Parenthèses 2012). Per chi volesse approfondire l’influenza di Coltrane sugli altri musicisti, può essere utile il dossier speciale John Coltrane 50 ans après, apparso sul numero 696 di “Jazz Magazine” (luglio 2017).
Direi che “Alabama” colpisce oggi come allora; anzi, forse più oggi di allora… è un mondo ancora più terribile, ma questa musica ci ricorda che c’è anche la bellezza!
Alabama è un classico, e come tale è sempre di attualità. Secondo me vale per Coltrane ciò che diceva Giuseppe Pontiggia per i classici della letteratura: è un contemporaneo del futuro…
Bellissimo pezzo! Spesso leggo di sfuggita, ma stavolta mi sono preso il tempo di leggere, ascoltare, riflettere… e sono commosso! Certe volte, non c’è bisogno di polemiche politiche o dichiarazioni bellicose: basta la pura e distesa espressione del dolore. Il dolore sincero è già un gesto politico. Complimenti per il blog (sono un lettore affezionato, ma è la prima volta che intervengo).
Grazie, Piergiorgio. Sono d’accordo con lei: l’espressione artistica del dolore, come sentimento vero e non come sentimentalismo, è un gesto che lascia il segno più di tante dichiarazioni bellicose. Un cordiale saluto.
Bello, fa quasi piangere! 😢❤️ Però non so se lui veramente voleva dire tutte queste cose con la sua musica, cioè, capisco il dolore e la tristezza. Ma alla fine vince la tristezza o la speranza e la bellezza? Coltrane aveva fiducia nella bellezza oppure voleva solo condividere il suo immenso dolore? Come possiamo dirlo?
Grazie mille, Aline! In effetti, è difficile sapere con precisione che cosa volesse dire Coltrane; possiamo però ascoltare la sua musica e cercare di trovarci qualcosa per noi, oggi. Comunque, credo che Coltrane avesse fiducia nella bellezza. In una intervista, spiegò in questo modo la sua intenzione artistica: La musica per me è una delle maniere di dire che l’universo in cui viviamo, e che ci è stato dato, è grande e bello.
(Si ritrova la dichiarazione nel libro che ho citato sopra, Coltrane secondo Coltrane. Tutte le interviste, a cura di Chris De Vito; ed è citata anche in Arrigo Polillo, Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afroamericana, Mondadori 1997).