Il castello e

Oggi sono troppo stanco per scrivere.
Ci provo, in effetti lo sto facendo, ma l’Andrea che scrive è poco più di un gesto. È la schiena che cerca una posizione, sono le dita che premono sulla tastiera. È sempre così: una lettera dopo l’altra. Ecco, ho già scritto cinquanta parole, senza contare gli articoli. Non è difficile. Basta non pensarci.
Stamattina presto ero in onda alla radio, e per quattro ore non ho parlato con nessuno (tranne un rapido saluto all’addetta alla sicurezza). O almeno, questa è la mia impressione: un lungo passaggio silenzioso. In realtà ho parlato, naturalmente. Ho posato l’indice sul pulsante rosso del microfono e ho parlato. Ho anche intervistato degli esseri umani. Ma parlare nel microfono mi sembra solo un’altra forma di silenzio, più ambigua, più elusiva. E ora? Continuo a tacere e continuo a premere tasti. E fuoriescono parole, molto più di cinquanta, non sto a contarle.
Ma insisto: è solo un modo per tacere. La scrittura per me è ascolto, piuttosto che espressione. Naturalmente finisco per dire qualcosa, ma per riuscirci devo prestare attenzione a ciò che si muove intorno a me, dimenticandomi. Poi devo paragonare i suoni, le meraviglie, le ferite del mondo a ciò che d’inesprimibile accade dentro di me. Insomma, scrivere è un modo per essere attenti. È come quando a scuola prendevo appunti non tanto per rileggerli in futuro, quanto soprattutto per non addormentarmi durante la lezione.
Nessun racconto dice mai l’ultima parola. Nemmeno quelli con un finale perfetto. È dopo, nel silenzio, che i personaggi compiono il loro destino, all’insaputa di chi scrive e di chi legge. Ci pensavo proprio stamattina, sempre alla radio, quando parlavo di Franz Kafka. (Lo so, non si dovrebbe parlare di Kafka prima delle otto del mattino, ma proprio oggi si celebrano i cento anni dalla morte.)

A lungo ho avuto una certa ritrosia nel leggere Kafka. Ero frenato dall’aggettivo: “kafkiano”, con tutto il suo strascico di compiaciuta erudizione. Ma poi ho pensato che non è colpa di Kafka se l’hanno aggettivato. Ora lo leggo spesso, soprattutto i racconti brevi e gli aforismi. In particolare apprezzo i frammenti incompiuti. Come questo, per esempio: «Chiesi a un viandante che trovai sulla strada maestra se dietro i sette mari ci fossero i sette deserti e dietro a quelli le sette montagne, sulla settima montagna il castello e».
Perché Kafka si è fermato dopo quella “e”? Aveva perso il conto? Oppure la frase non gli piaceva? Però non l’ha cancellata, l’ha soltanto lasciata in sospeso. Forse qualcuno l’ha interrotto mentre stava scrivendo. Forse aveva finito l’inchiostro. Comunque sia, quel frammento incompiuto mi pare uno dei più belli, circondato di silenzio. «Il castello e». Non c’è altro da dire, perché dopo la “e” tutti stiamo già visitando il nostro castello, che è nostro e insieme di Kafka. Siamo soli e in compagnia, scriviamo e restiamo in silenzio, diciamo senza dire.
È per questo che amiamo la letteratura.

PS: Il testo di Kafka proviene dalla sezione “Frammenti” in F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1972. La fotografia ritrae un castello e.

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Ah, se sapessi disegnare!

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Secondo episodio.

3) «In nessun luogo hanno una città stabile, e neppure sanno dove l’avranno domani».

Stiamo pedalando affiancati, quando comincia a piovere. L’asfalto diventa scivoloso. La salita è ancora lunga, così decidiamo di fermarci sotto una tettoia arrugginita. Sembra la vecchia fermata di un autobus. Metà della struttura è ricoperta di erica e altri rampicanti. Sotto, seminascosto dalle erbacce, c’è il pannello che un tempo doveva ospitare gli orari. Appoggiamo le biciclette a un grosso albero, forse un faggio. Lasciamo il casco sulla testa e ascoltiamo il nostro respiro che torna regolare.
– Guarda come viene giù.
– Che facciamo, aspettiamo?
– Ma sì, fra poco smette.
– Tanto abbiamo tempo.
Parliamo senza pensarci, come per dimostrare a noi stessi che non stiamo sognando, siamo lì veramente, in piedi, uno accanto all’altro. Dietro le nuvole e la pioggia c’è ancora il sole a scaldare l’aria.
Poi succede tutto in un attimo: chiudiamo gli occhi e siamo a casa. Per una manciata di secondi sentiamo di appartenere a qualcosa. Siamo in viaggio, sostiamo sotto un riparo improvvisato, quasi nulla sappiamo della terra su cui poggiano i nostri piedi, eppure la consapevolezza è talmente forte che quando apriamo gli occhi quello ciò che abbiamo intorno – la ruggine, l’edera, gli alberi, l’asfalto – assume un nuovo, prezioso significato.
Ieri, in autostrada, ci siamo fermati in un’area di servizio dove stazionavano molte roulotte. Era un gruppo di Jenisch. Alcune bambine che giocavano con un pallone ci hanno salutato con le mani, gridando qualcosa. Abbiamo risposto incuriositi. Quelle erano le loro abitazioni, pronte per ripartire. Fisse nel movimento. Radicate in quella geografia mobile che tanto sembra impossibile agli stanziali, e che invece loro continuano a chiamare casa.
Chissà dove saranno oggi, ci chiediamo a mezza voce. Poi recuperiamo le biciclette, beviamo un sorso d’acqua e riprendiamo la salita.

4) «Entrando in casa, gli uomini non appendono mai la loro faretra sul lato delle donne».

Nel Medioevo li chiamavano Tartari. Allora come oggi, basta nominarli per evocare guerrieri indecifrabili e possenti, assalti all’arma bianca, tempeste di frecce, maestose cavalcate nell’infinito enigma della steppa. Eppure anche il Tartaro, quando la sera rientra a casa, ha le sue piccole abitudini. Noi appoggiamo le chiavi sul piattino all’ingresso, lui appende la faretra sempre dalla stessa parte.

5) «Le donne si fanno costruire dei carri bellissimi, che saprei descrivervi solo con un disegno; ma in verità tutto quanto vi avrei dipinto, se sapessi disegnare!».

Guglielmo scrive. Poi si volta. Ci scruta in silenzio per qualche secondo. Infine borbotta: «Non è che voi sapete disegnare, per caso?» Ci guardiamo negli occhi. Non è stato facile convincerlo a portarci con lui: non sembriamo esattamente due esploratori pronti a un viaggio nella steppa, fra sconosciute tribù di Tartari. Però avevamo i nostri due taccuini, una scorta di buona volontà, oltre a maglioni di lana e scarpe robuste. Guglielmo, che gira invece per la steppa con i sandali da frate, ci ha raccomandato più volte di non perderci e noi facciamo del nostro meglio. Ma un disegno? «Disegnare non è il nostro forte, purtroppo». Lui risponde qualcosa d’incomprensibile in fiammingo. Forse si chiede quale sia il nostro forte.
La bellezza di quei carri resterà insomma un mistero. Gli storici descriveranno esemplari simili, gli esperti ne ricostruiranno la forma e gli addobbi. Quei carri, però, proprio quelli, così come apparivano nell’estate del 1253, saranno per sempre velati dalla loro stessa bellezza: pulcherrimas bigas, scrive Gugliemo, ammutolito per lo stupore. Noi in verità qualche schizzo sui taccuini l’abbiamo fatto. E senza dubbio avremmo potuto scattare una foto con i nostri cellulari (li abbiamo infilati nello zaino di nascosto). Ma perché? A che proposito? Ci sono cose che non si possono dire, ed è bene che sia così. Il mondo ha bisogno anche di silenzio.
Ah, se sapessi disegnare! Lo stile di Guglielmo è immediato, pieno di vita, e i suoi silenzi sono eloquenti. Ancora oggi, del resto, noi ci aggrappiamo alla sua tonaca per partecipare al suo viaggio, e giorno dopo giorno impariamo a conoscere il mondo. E se Guglielmo vivesse nel 2022? Se avesse postato tutto sul suo profilo Instagram, fotografie e dirette video? Vogliamo credere che anche oggi Guglielmo avrebbe avuto la saggezza di spegnere il cellulare.

PS: Potete leggere qui il primo episodio.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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Misterioso

Ero uno studente all’università di Zurigo quando un giorno, girando per le strade del Niederdorf, entrai in un negozio di dischi usati. All’epoca cominciavo a interessarmi di jazz, in maniera disordinata e curiosa. Così fui colpito dal nome di un pianista: Thelonious Monk. Non sapevo niente di lui, e credo proprio che comprai il disco per il nome (e forse per il bizzarro disegno sulla copertina, dove Monk appare con un casco da aviatore). Arrivato a casa, mi sedetti in balcone e ascoltai il disco. Non avevo nessuna competenza musicale, ma il suono di quel pianoforte mi riempì di meraviglia. A colpirmi furono la sua forza e insieme la sua lontananza. Quei trilli, quelle note ribattute, quelle dissonanze. Mi pareva di trovarmi in un altro mondo, somigliante al nostro eppure profondamente misterioso. Le melodie erano facilmente distinguibili, le canzoni avevano perfino qualcosa di antico… ma per me era tutto nuovo.
Misterioso è la parola giusta. Questo infatti è il titolo di uno dei brani più belli composti da Monk, registrato per la prima volta il 2 luglio del 1948 con il vibrafonista Milt Jackson. È un blues in dodici battute eppure, per la sua atmosfera surreale, è diverso da ogni altro blues. Questo a causa della melodia che marcia su e giù per la tastiera a scalini di sesta che sembrano un esercizio per principianti – scrive il critico John Szwed – ma soprattutto a causa dell’assolo di Monk, che lascia stupefatti per il suo rifiuto della logica convenzionale del blues. Le frasi sembrano chiudersi sempre su una nota sbagliata, gli intervalli scelti non sembrano quelli corretti, a un certo punto sembra addirittura restare indietro, suonando ripetutamente intervalli di seconda, dissonanti. Ogni volta che lo riascolto, mi sembra che non abbia perso niente della sua contemporaneità; del resto, anche il tocco di Monk al pianoforte è sempre unico e inconfondibile.


Sono passati cento anni dalla nascita di Thelonious Sphere Monk, avvenuta il 10 ottobre del 1917. (Sì, anche il secondo nome non è male.) Sposato e padre di due figli, Monk ebbe una vita difficile, a causa di una grave sindrome depressiva, intensificata dal consumo di alcol e stupefacenti. La moglie Nellie gli fu sempre vicina, così come altre persone; in particolare Nica, cioè la baronessa Pannonica de Koenigswarter, sua grande amica e protettrice, tanto che lo ospitò per gli ultimi dieci anni di vita (dal 1972 al 1982). A lungo Monk non fu curato nella maniera adeguata, e spesso i critici lo descrivono come un matto, un istintivo, uno che suonava le note sbagliate. Lui invece era profondamente consapevole della sua arte. Anche dopo che si era chiuso nel silenzio, durante gli anni Settanta, continuò a non apprezzare i giudizi dei critici (come quello da me citato sopra…). Nel 1976 gli accadde di sentire una trasmissione radiofonica, nella quale un musicologo dichiarava che Monk era un grande musicista nonostante suonasse le note sbagliate sul piano. Thelonious arrivò al punto da chiamare la radio e lasciare un messaggio, chiedendo che qualcuno dicesse a quel tizio in onda: “Il piano non ha note sbagliate”.
La musica di Monk non è sbagliata. È diversamente giusta. È come un pomeriggio di sole nel tardo autunno, quando a sederti in piazza pare di essere in estate, e ti rimbocchi le maniche e ti viene voglia di una birra, mentre la luce accarezza gli alberi nudi sui viali. In quei momenti ti piace stare in silenzio, fissando l’attenzione su qualcosa di piccolo e immediato: un riflesso sui vetri, il cigolio di un tram, il passaggio di un corvo sopra i tetti delle case. Il calore del pomeriggio è un abbraccio che fa vibrare qualcosa dentro di te, come una voce amica che ti raggiunge al telefono quando non te lo aspettavi. Mi sembra che tutto ciò, in maniera insondabile, sia racchiuso nella musica di Thelonious Monk.
A volte, quando scrivo e non capisco più a che punto sono, metto un disco di Monk. Come narratore, avverto la presenza di una piccola storia in ogni suo brano: ci sono gli imprevisti, i colpi di scena, la tensione dell’attesa e, nel momento giusto, il silenzio. Monk non amava gli effetti spettacolari, proprio perché sapeva bene – come ebbe a dire in un’intervista – che il silenzio è il rumore più forte del mondo. È famoso un suo silenzio in un’incisione di The man I love, registrata la vigilia di Natale del 1954 con Miles Davis alla tromba e con tre membri del Modern Jazz Quartet (Milt Jackson al vibrafono, Percy Heath al basso e Kenny Clarke alla batteria). Il pezzo comincia con il ritmo lento di una ballad, mentre Davis espone il tema; al minuto 1.21 Jackson parte con l’assolo e la band raddoppia il tempo. Quando è il turno di Monk, a 4.51, lui decide di esporre un’altra volta il tema; ma lo fa nel tempo originale, mentre gli altri continuano a doppia velocità. A 5.23, all’improvviso, Monk si ferma. Il basso e la batteria proseguono per nove battute, poi Davis richiama all’ordine il pianista con una frase suonata lontana dal microfono (5.36), quasi per esortarlo a proseguire. Monk allora si lancia in un’improvvisazione, finché a 6.02 Davis interviene con una frase decisa ripetuta quattro volte.

Su questo episodio si sono fatti molti pettegolezzi, anche perché, durante la stessa sessione, Monk aveva già dato qualche segno di stravaganza. Qualcuno dice che il pianista si fosse addormentato, qualcuno che si fosse alzato per danzare (come faceva spesso durante i suoi assoli), altri pensano che fosse andato in bagno o che si fosse smarrito e non sapesse più che cosa suonare. Altri ancora riferiscono di un litigio fra Monk e Davis (ma i due smentirono; e anzi Monk raccontò che quella sera fecero le ore piccole insieme). In realtà, se si ascolta la prima versione del pezzo, pubblicata in seguito, si scopre che Monk aveva fatto la stessa cosa, lasciando semplicemente una pausa più breve. La spiegazione più semplice è quindi che Monk avesse voluto quel silenzio. Inaspettato, certo. E, com’è giusto che sia, misterioso. Quando scrivo, o quando parlo, cerco sempre di ricordarmi che il silenzio è una modalità espressiva; non è soltanto una pausa fra i suoni o le parole, ma ha una sua consistenza e un suo significato.
In tanti hanno provato a definire la musica di Monk. L’autore giapponese Murakami Haruki, per esempio, la descrisse come ostinata e soave, intelligente ed eccentrica e, per una ragione che non capivo bene, nel complesso estremamente precisa. Una musica che aveva un’incredibile forza di persuasione su qualcosa nascosto dentro di noi. Molti provarono a interrogare lo stesso Monk, ma lui era un esperto nel dirottare le domande. Resta memorabile per esempio la sua ultima intervista, che ebbe luogo a Città del Messico in occasione del Festival internazionale del jazz del 1971. Così la racconta Arrigo Arrigoni in Jazz foto di gruppo (Il Saggiatore 2010).

PEARL GONZALES. «Oltre alla musica esiste qualcosa che la interessa?»
MONK. «La vita in generale.»
G. «E cosa fa in questa direzione?»
M. «Continuo a respirare.»
G. «Qual è secondo lei lo scopo della vita?»
M. «Morire.»
G. «Ma tra la nascita e la morte c’è molto da fare.»
M. «Mi avete fatto una domanda e io vi ho dato una risposta.»
Girò i tacchi, lasciando Miss Gonzales interdetta, per sempre.

Quanto a me, vorrei concludere ascoltando un brano che dura meno di un minuto. Il 26 giugno 1957, in un periodo difficile della sua vita, Monk era in studio per registrare con altri sei musicisti. Il giorno prima avevano inciso qualche brano, ma con grande fatica. La sera del 26 Monk si presentò con l’arrangiamento di un inno che aveva imparato da bambino, Abide with me. Monk adorava quella melodia, composta nel 1861 da William Monk (nessuna parentela) con il titolo Eventide. Dopo che il poeta Henry Francis Lythe ebbe scritto la poesia Abide with me sul letto di morte, le parole furono sovrapposte all’inno di William Monk. Di sicuro Thelonious le aveva in mente quando quella sera insistette perché i quattro fiati registrassero l’inno. Così lui tacque mentre Ray Copeland (tromba), Gigi Gryce (sax alto), John Coltrane (sax tenore) e Coleman Hawkins (sax tenore) suonavano Abide with me.

The darkness deepens; Lord with me abide, / When others helpers fail and confort flee, / Help of the helpless, O abide with me. (“Il buio si addensa; Signore, resta con me, / Quando non vale altro soccorso e fugge ogni consolazione, / Aiuto degli indifesi, resta con me”). Proprio questa registrazione, il 22 febbraio del 1982, accompagnò il funerale di Thelonious Monk. Oggi, a cento anni dalla sua nascita, Monk ancora ci insegna a cercare l’originalità vera, che significa fedeltà alla propria voce e disponibilità allo stupore. Come disse lui stesso, a volte suono cose che nemmeno io ho mai sentito.

PS: Le citazioni di Monk (nella foto qui sopra, a sinistra, con Dizzy Gillespie) e le parole di Abide with me provengono da Robin Kelley, Thelonious Monk. Storia di un genio americano, pubblicato nel 2009 e tradotto da Marco Bertoli nel 2012 per Minimum Fax. Il commento di John Szwed è tratto da Jazz! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz, pubblicato nel 2000 e tradotto nel 2009 da Francesco Martinelli per EDT. La frase di Murakami viene da Ritratti in jazz, scritto nel 1997 e tradotto da Antonella Pastore nel 2013 per Einaudi. L’episodio legato a The man I love è raccontato anche da Franck Bergerot nel numero 699 (ottobre 2017) della rivista francese Jazz Magazine (Le jour où Monk eut un trou). La stessa rivista presenta un dossier per il centenario di Monk, con cento brani essenziali. Una discografia si trova anche nel volume di Kelley.

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Sweet bird

Quando lavoro alla radio, alla Rete2 della RSI, mi sveglio alle quattro. Mi lavo, mi vesto, bevo un bicchiere di tè freddo e mangio un frutto. Poi prendo la macchina e guido da Bellinzona a Lugano, nel buio delle mattine invernali o, com’è accaduto la settimana scorsa, nel blu misterioso e lucente che precede il crepuscolo. A volte tutto è limpido, silenzioso, a volte invece si scatena un temporale, magari mentre salgo verso il Ceneri; in quei momenti, nell’abitacolo battutto dalla pioggia, mi pare di essere solo al mondo. Poi arrivano i fari di qualche automobile a ricordarmi che su questa terra esistono altri esseri umani, come me aggrappati a un volante e diretti da qualche parte sotto il diluvio.


Ancora non ho pronunciato una parola. Lascio la macchina nel parcheggio della radio e mi dirigo verso lo studio (dove leggerò i quotidiani prima di cominciare la diretta). Se non piove, mi fermo per un istante ad ascoltare le ultime notizie così come vengono trasmesse da un nugolo di uccelli nel folto degli alberi. I trilli, i pigolii, le melodie ripetute, i gorgheggi e i fischi s’intrecciano fra loro, tessendo la trama di un discorso incomprensibile (per me), ma non per questo meno vero.


Di fatto la voce degli uccelli esprime una verità sul mondo pari a quella che esprimerà il primo notiziario del mattino. Per me, che passo in pochi minuti dal mondo del canto a quello delle news, è importante ascoltare entrambi i discorsi. È il cinguettio fra gli alberi a dirmi che 1) sta sorgendo un’altra alba: questo merita di essere annunciato, perché le albe non sono infinite e non vanno sprecate; 2) se sono qui e ora è per un motivo: non devo smettere di cercare una voce che rappresenti nello stesso tempo le mie domande, le mie risposte, la mia tristezza o la mia meraviglia davanti alla realtà; 3) il silenzio e la musica sono la fonte da cui sgorgano le parole: non c’è frase scritta o pronunciata al microfono che sia efficace, se prima non si è confrontata con questo mondo aereo e ancora privo di sillabe umane. Per riassumere:
1) annuncio (An);
2) espressione dell’interiorità (EI);
3) attesa della parola (AP).
Queste tre funzioni vanno poste in relazione con ciò che succede alla radio. Di colpo, il campo sonoro ornitico, più o meno immutato da cento milioni di anni, lascia il posto al fattore umano. Ecco quindi 1) l’inesausta attualità dei giornali, i loro titoli, gli editoriali che segno con un evidenziatore giallo; 2) l’irruzione del mondo: scorrono i flussi delle notizie d’agenzia, appare sullo schermo la scaletta dei brani musicali, arrivano i notiziari e i bollettini meteo; 3) il tempo sminuzzato della diretta: conto i secondi che mancano alla sigla, parlo con il tecnico-regista che mi aiuta a tenere il ritmo, la mia voce entra nel microfono e si diffonde in luoghi che non vedrò mai. Per riassumere:
1) attualità (At);
2) espressione del mondo (EM);
3) diffusione della parola (DP).
Credo che le funzioni degli uccelli abbiano lo scopo di produrre una curva di equazione cartesiana in un piano munito di sistema di riferimento con assi perpendicolari. Così ogni elemento radiofonico risulta da una funzione ornitica.
f(An) = At
f(EI) = EM
f(AP) = DP
Non sto a disegnare il grafico: è la forma di una mattinata di lavoro, vissuta nella tensione fra silenzio e parola. Prima il silenzio, il canto degli uccelli, il fruscio delle pagine dei giornali, in un crescendo d’immersione nel mondo. Poi le mie parole, tese verso ascoltatori invisibili. La ferita dei notiziari: titoli inesorabili (La guerra ed ora anche il colera: è allarme-epidemia nello Jemen, in ginocchio per gli scontri e per la situazione sanitaria: oltre 200mila i casi conclamati); statistiche sui migranti che dietro le cifre celano lo strazio di chi fugge (Il governo italiano lancia l’allarme: situazione insostenibile, nelle ultime ore oltre 12mila arrivi, dal 1 gennaio +13,43%); un neonato a Londra che sopravvive attaccato a un respiratore, mentre intorno infuria la polemica (La Corte di Strasburgo sul piccolo Charlie: si può staccare la spina). Nel corso della mattinata le notizie si alternano alle canzoni, alle rubriche, alle interviste.
Quando torno nel parcheggio, dopo la riunione di redazione, sento di nuovo gli uccelli. Sullo sfondo c’è anche il ronzio di un motore: qualcuno da qualche parte sta tagliando l’erba.

 

Mi rimane impresso questo sotterraneo e un po’ assurdo collegamento fra il canto degli uccelli e le voci della radio.
Nel pomeriggio recupero un vecchio saggio di Edward Neill: Musica, tecnica ed estetica nel canto degli uccelli (Zanibon 1975). L’autore trova affascinante l’ipotesi che l’uomo primordiale abbia potuto trarre ispirazione dal canto degli uccelli in generale per modulare le sue prime manifestazioni canore, e, in particolare, che per costruire il proprio rudimentale sistema melodico si sia rifatto a strutture aventi un carattere intervallico come quelle del Tordo eremita (Hylocichla guttata). Neill mostra poi alcune trascrizioni musicali elaborate da un certo dottor Szöke (nel cui nome mi sembra di cogliere l’eco di un colpo di becco ben assestato).
Penso al mio lavoro: come scrittore, ma anche alla radio o nell’insegnamento. Di certo, per essere efficaci le parole devono nutrirsi di silenzio, di musica. E il canto degli uccelli racchiude un nocciolo antico di melodia che, come dice il saxofonista brasiliano Ivo Perelman, stupisce per la sua coerenza: non sono stati a scuola, nessuno ha detto loro di cantare in quel modo, non sono nemmeno coscienti di farlo. Eppure, cantano. E qualcosa di quel suono primordiale si ritrova in ogni musicista, in ogni poeta.
Il mattino seguente, mentre vado alla radio, ascolto il brano Sweet bird, composto da Joni Mitchell e riproposto da Herbie Hancock nell’album River: the Joni letters (Verve 2007). Mi pare che nella musica risuoni la semplicità di un canto ancestrale. Specialmente nelle improvvisazioni al sax di Wayne Shorter, che a volte imita la cadenza degli uccelli (a 1.50, a 2.30, a 5.30, a 6.37) e che alla fine diventa un soffio. Ma pure nel fischio che affiora qui e là (per esempio a 0.30, a 0.39, a 4.09), come se un volatile invisibile accostasse la sua voce a quella di Hancock al piano, di Shorter al sax, di Dave Holland al basso, di Vinnie Colaiuta alla batteria e di Lionel Loueke alla chitarra.

Arrivo alla radio. Entro nel mondo delle parole, come ogni giorno, e cerco di conservare nell’anima un ricordo di melodia. Questa bellezza si esprime sia come riflesso malinconico, sia come speranza che – dietro il male che tracima dalle notizie – resista la capacità di affermare la parte generosa del mondo. Le parole feriscono ma, quando sono pronunciate nel modo e nel momento giusto, possono anche guarire.

PS: L’osservazione di Ivo Perelman proviene dal numero 688 della rivista “Jazz Magazine” (ottobre 2016). Anche Perelman, nelle sue improvvisazioni libere, imita talvolta il canto degli uccelli; si vedano per esempio i due album con Karl Berger: Rêverie (Leo Records 2014) e The Hitchhicker (Leo Records 2016).

PPS: Per chi fosse interessato all’intervento aviario nella musica umana, è simpatico il duetto che il pianista Misha Mengelberg registrò insieme a Eeko, il pappagallo di sua moglie: a volte, si ha quasi l’impressione che Eeko sappia swingare… Il brano si trova nell’album Epistrophy (ICM 1972). Lo metto anche qui come omaggio a Mengelberg, morto il 3 marzo di quest’anno a 82 anni.

PPPS: Infine, ecco il Tordo eremita di cui parlano Edward Neill e il dottor Szöke. Mi sembra che, nel profondo della sua solitudine, sappia trovare un modo per colmare il fossato tra sé e il mondo, con uno dei canti più umanamente melodici che esistano: secondo Neill le emissioni vocali di questo uccello che vive prevalentemente in Nord-America sono strutturate in modo assai simile a quello che caratterizza la nostra musica diatonica e pentatonica. Neill precisa inoltre che i Tordi eremiti sono asociali nel senso in cui lo sono gli artisti che possono creare solo se in compagnia di sé stessi. Non posso fare a meno di citare almeno un’opera del dottor Szöke: P. Szöke, W. W. H. Gunn, M. Filip, The Musical Microcosm of the Hermit Trush, in “Studia Musicologica Academiae Scientiarum Hungaricae”, 11, Budapest 1969.

PPPPS: Per essere precisi, il silenzio mattutino che mi accompagna dal risveglio fino al luogo di lavoro non è interrotto soltanto dal cinguettio degli uccelli. C’è anche quel momento, inevitabile, in cui la mia automobile mi avvisa perentoriamente che non ho ancora allacciato la cintura…

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I lampi della magnolia

IMG_0096Ogni tanto bisognerebbe prendersi il tempo di sedersi al ciglio di una statua. L’esperienza comporta qualche rischio, ma è senz’altro proficua. Quando mi fermo su una panchina o sopra un muretto ai bordi di una piazza, tutto è più semplice. Ai piedi di una statua, invece, sono costretto a fare i conti con una duplice realtà: le persone che si muovono e parlano intorno a me; la figura di bronzo che sta muta appena sopra di me. All’inizio pare una cosa inoffensiva ma poi, con il passare dei minuti, comincio a sentirmi preso in mezzo. La gente chiacchiera, mi restano appiccicati pezzi di conversazione: Le giornate diventano più lunghe; Ma se è stato lui a dirmi di farlo!; E c’è anche la cucina abitabile? Nel frattempo la statua tace, come sanno fare solo le statue, e quel silenzio mi rimane addosso, mi entra sotto la pelle.
IMG_0112Di recente ero di passaggio a Berna e ho scambiato due parole in silenzio con la statua di Adrian von Bubenberg in Hirschengrabenplatz. Mi sono seduto accanto a due ragazze che mangiavano insalata e granturco da piccoli contenitori di plastica. Davanti a me transitavano uomini e donne in bicicletta (con giubbotto catarifrangente), bambini al ritorno da scuola, tram dal colore rosso squillante. Adrian stendeva la sua mano su di me. In un primo tempo, intento nel trambusto della piazza, non mi sono accorto di niente. Poi mi è parso di capire che la statua mi stesse tacitamente dicendo qualcosa. Ho alzato lo sguardo.
ha detto Adrian.
Dopo un secondo di esitazione, gli ho risposto.

Allora lui ha sentito il bisogno di aggiungere:

Come non essere d’accordo? Abbiamo parlato ancora un po’.


IMG_0115In quel momento non avevo idea di chi fosse Adrian von Bubenberg. Sapevo soltanto che era nato nel 1424 e che era morto nel 1479. Sul fianco del monumento c’era una scritta: So lange in uns einer Ader lebt gibt keiner Nacht. Non so se l’ho capita: qualcosa sul sangue che scorre e tiene lontana la notte. Ma non c’è bisogno di conoscere una statua per parlarci insieme.
IMG_0111Questi attimi strappati al fluire di una giornata sono preziosi perché consentono di lanciare un’ancora. Il tempo come sempre porterà via la maggior parte dei gesti e dei pensieri, ma ciò che s’intuisce sedendo sotto una statua, chissà come, finisce per restare nel cuore un po’ più a lungo. Ero a Berna per incontrare Yari Bernasconi, con il quale avrei tenuto una conferenza all’Università di Friburgo, invitati dal professor Uberto Motta. Ci siamo seduti in un bar, a poca distanza dalla statua, e abbiamo lavorato alla costruzione di un percorso che, fra poesia e prosa, ci aiutasse a spiegare (prima di tutto a noi stessi) il nostro lavoro di scrittori.
IMG_1603Più tardi, davanti agli studenti e agli insegnanti, abbiamo letto alcune poesie di Yari e alcune pagine dei miei romanzi, cercando di scovare qualche rintocco, qualche segno che avessimo lavorato sullo stesso terreno. Mi è sembrato che gli studenti cogliessero il tentativo di condividere aspetti e problemi concreti dei nostri laboratori personali. In particolare, il discorso è scivolato sulla scrittura come processo di conoscenza, come cammino verso una migliore comprensione di noi stessi e del mondo. Una ragazza ha alzato la mano e ci ha chiesto: Ma quando scrivete vi sentite a casa? Una domanda profonda, difficile. In parte ne ho già parlato qui sul blog, ma a Friburgo abbiamo avuto occasione di approfondire il discorso. Di certo scrivere, così come anche leggere, significa essere a casa, ma forse bisogna stare attenti a non sentirsi troppo a proprio agio: talvolta le case possono diventare trappole.
In compenso, può capitare di sentirsi a casa in luoghi inaspettati, in circostanze imprevedibili. Come scrittori, è difficile talvolta vestire di parole questi momenti; tuttavia riconoscere quei luoghi e quelle circostanze è già un atto poetico, nel senso esistenziale del termine. Sono epifanie minime, come quelle che ci regalano le statue. Durante la conferenza, abbiamo letto una lirica di Franco Fortini intitolata I lampi della magnolia.

Vorrei che i nostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d’acqua che si scalda.

La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l’olio della vernice, il ragno trotta.

Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.

Non è necessario trovare subito la voce (Diremo più tardi quello che deve essere detto), sebbene il tendere all’espressione sia in sé già un’espressione. In questo caso il lampo della magnolia è abitato dalla poesia, e diventa un momento da salvare, con la sua perfezione congiunta all’imperfetto.
IMG_0117Un paio di giorni dopo la conferenza, mentre di nuovo parlavo a un gruppo di studenti in un’aula scolastica (stavolta nella Svizzera italiana), dalla finestra mi ha di nuovo raggiunto il lampo di una magnolia. Allora mi è tornato in mente Adrian von Bubenberg. Sono andato sul sito dell’Archivio storico svizzero e ho scoperto che alla fine del XIX secolo ci fu un’aspra controversia in occasione della costruzione del monumento a Berna. Si discuteva se la statua dovesse raffigurarlo quale prode cavaliere o piuttosto quale uomo di Stato a piedi (versione infine realizzata, inaugurata nel 1897). Alla fine dunque venne scartata l’idea di una statua a cavallo, forse per una riflessione simile a quella che esprime Elias Canetti in un suo aforisma: Il più bel monumento equestre sarebbe un cavallo che avesse sbalzato l’uomo di sella. Adrian invece è ben saldo sulle sue gambe: sarà un uomo di stato, ma quella mazza chiodata in primo piano, sospesa com’era proprio sopra la mia testa, non mi sembrava un utensile adatto alle aule di un Parlamento (per quanto non si possa mai dire).
IMG_0114Nel sito dell’Archivio storico scopro anche che Adrian von Bubenberg nel 1455 si recò con una propria truppa a Digione per partecipare alla crociata contro i Turchi, guidata dal duca Filippo il Buono di Borgogna ma poi annullata. Se conosco appena un po’ l’indole nazionale elvetica, posso immaginare la stizza con cui Adrian avrà accolto l’improvviso annullamento della crociata (senza preavviso e senza clausola di rescissione). In generale il nostro Adrian ebbe una carriera politica turbolenta: a un certo punto cadde in disgrazia, ma poi fu chiamato alla difesa di Morat. Sotto la sua guida, la città resistette per dodici giorni all’assedio dei Borgognoni, che vennero infine sconfitti il 22 giugno 1476 nella battaglia di Morat. Questo successo riavviò la carriera politica di Adrian, che probabilmente si ringalluzzì. Infatti leggo che nel dicembre del 1478 guidò attraverso il San Gottardo la campagna bernese contro Bellinzona. Ecco, questa è una provocazione. Ma come, io mi siedo pacifico sotto il ciglio della sua statua, e Adrian guida una campagna contro la mia città? Mi riprometto di tornare a Berna, presto o tardi, per rimproverare quella faccia di bronzo. Tanto, una cosa sicura delle statue è che in genere le ritrovi dove le hai lasciate.
IMG_0097Un altro monumento con il quale ho conversato per qualche minuto si trova a Mosca, in un quartiere periferico. Ricordo che qualche anno fa venni invitato in occasione di un festival a presentare una traduzione in russo di un mio romanzo. Sulla via del ritorno, mi fermai a mangiare in un Burger King. E chi scopro là fuori, condannato dalla storia a fissare senza scampo proprio l’insegna del fast food? Vladimir Lenin. È proprio vero che, in questo mondo, non c’è pace nemmeno per le statue.

PS: La fotografia che vedete qui sopra è stata scattata dalla vetrina del Burger King moscovita. Quella del tavolo di lavoro ripreso dall’alto è di Yari Bernasconi. La lirica di Franco Fortini proviene da Paesaggio con serpente (Einaudi 1984). L’aforisma di Canetti è tratto da una raccolta di appunti presi dal 1942 al 1972, intitolata Die Provinz des Menschen (La provincia dell’uomo, Adelphi 1978). La voce dell’Archivio storico su Bubenberg risale al 1979 ed è firmata da K. F. Wälchli.

PPS: Proprio questa sera Yari Bernasconi e io riproporremo nella Svizzera italiana la conferenza che abbiamo tenuto a Friburgo: l’appuntamento è alle 20.30 nella Sala multiuso comunale di Magliaso. Adrian von Bubenberg non ci sarà; in compenso, non mancheranno le magnolie.

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