Perché i bambini piangono?

Ha senso interrogarsi sui neonati, fantasticando sui loro pensieri, quando là fuori ci sono tanti argomenti robusti e urgenti che dovrebbero attrarre l’attenzione di uno scrittore? Il mondo che va a rotoli, le guerre, le ingiustizie sociali, le persecuzioni, il riscaldamento climatico, i social network che ci stanno distruggendo, eccetera. Be’, credo che se vogliamo tentare una rinascita occorra chiedere agli specialisti, a chi è fresco di esperienza. Come scrisse il poeta Mario Luzi: «Così scendono e salgono verso l’avvenire / così avviene / l’avvenire nella loro lattea mente».

Quando tengo fra le braccia un neonato, non posso fare a meno di chiedermi tre cose.
1) Com’è arrivato qui?
2) Che cosa resterà nella sua memoria?
3) Che cosa conosce questo lattante che io non conosco?
Ho provato a intervistare una bambina nata meno di un mese fa. Lei è stata gentile, disponibile, ma le sue risposte sono difficili da interpretare.
RISPOSTA 1:

RISPOSTA 2:

RISPOSTA 3:

In attesa di riprovarci, preciso che la mia curiosità non mira a spiegazioni scientifiche; perciò ho chiesto a una bambina e non a un biologo. Prendiamo la prima domanda: mi hanno detto che il feto avverte la diminuzione del glucosio nella placenta e si formano degli ormoni e insomma per farla breve il bimbo si gira e poi cominciano le contrazioni eccetera. Ma a parte questo, immagino che il nascituro abbia un rudimentale piano d’azione, che so, forse nel cervello gli appare un’immagine, un sogno, una frase musicale, qualcosa in più che una reazione fisiologica di stress. A un certo punto il concetto di “nascita”, espresso senza parole e con sfumature indicibili, deve per forza attraversargli la mente.
Ve lo confesso: mi piacerebbe nascere di nuovo. Come avvenne la prima volta? Posso solo intuire quel momento di strazio e curiosità, quella percezione oscura che il grembo materno non basta più. Il feto ha i polmoni pronti per l’uso, anche se per nove mesi ha ricevuto l’ossigeno attraverso il cordone ombelicale. Ma il momento della partenza, la fatica di quel supremo passaggio – il primo respiro! – la vastità del mondo dispiegata come un castello di nuvole che senza fine mutano forma… ecco, mi piacerebbe ritrovare tutto questo.
A volte mi dico che è possibile. In fondo, tutto ciò con cui entro in contatto è più vasto di me: anche le cose che credo di avere capito, soprattutto quelle, aprono di continuo altre domande e sentieri da percorrere. Si può nascere di nuovo? Prima di tutto bisognerebbe essere capaci di desiderarla, una nuova nascita. Purtroppo con il tempo il desiderio tende ad appannarsi, almeno in questa epoca e in questa zona del mondo. È un paradosso: per rinascere serve un desiderio forte, ma per svegliare i desideri è necessario rinascere.

Mi sforzo di ricordare qualcosa delle mie prime settimane di vita. Sarà senz’altro un’illusione, però a volte affiora un’atmosfera che mi sembra antica: quando siedo da solo di notte in una stanza in penombra, oppure quando sento intensamente caldo o freddo, magari quando ho la febbre. A stupirmi è la sensazione di fragilità, di estrema inermità. Nessuno slancio, nessuna convinzione può resistere alla scoperta che sono preda della vita, questa vita-balena che m’inghiotte e mi tiene all’oscuro ogni volta che smetto di stare in guardia. Per uscire dalle balene bisogna avere pazienza. La reazione dei neonati è abbandonarsi alla madre, all’unica creatura che conoscono bene. Credo che anche ai neonati cresciuti e ingrigiti possa restare una certa capacità di avere fiducia. Da qualche parte nell’inconscio conserviamo almeno un brandello di ricordo: eravamo fiduciosi, lo siamo stati con tutti noi stessi. La balena non può avere l’ultima parola.
Provo a intervistare ancora la mia lattante di riferimento. Dalla sua risposta mi convinco che in effetti sappia molte cose più di me. Inoltre ho la sensazione che non ami essere intervistata (tanto giovane e già sottoposta alla tortura del giornalismo).
RISPOSTA 4:

Mi basta scrutare la bambina negli occhi, nell’intensita della pupilla che vede tutto senza guardare niente. La neonata ha percorso il più lungo, il più intenso dei viaggi che mai esploratore abbia osato, più che le spedizioni in terre selvagge, più che un giro del mondo, più che uno sbarco sulla luna o su Marte. Il suo cervello è ancora rudimentale? Sarà, ma sono convinto che ne sappia più di me su molti aspetti decisivi della vita.
Del resto, il pianto è una forma di conoscenza. Credo che i neonati piangano più o meno per le stesse ragioni che causano i nostri singhiozzi, compresi quelli che spesso mi strozzano la gola e non riescono a manifestarsi. Se i lattanti potessero leggere l’Eneide di Virgilio, forse sarebbero capaci di spiegarci il misterioso verso 461 del primo libro: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt», sono le lacrime delle cose e toccano la mente dei mortali. Quando a scuola studiavo questo verso, traducevo con una certa libertà: ci sono lacrime nelle cose. E pensavo proprio alla materia, agli oggetti, al mare, agli alberi, alle montagne, al mondo e a tutti i suoi abitanti, e mi figuravo che da ogni parte trasudassero delle lacrime. È un fenomeno invisibile, a volte anche impercettibile, ma la sostanza stessa della realtà è rivestita di lacrime. Ogni cosa al mondo continuamente piange.
Anche nei nuovi nati è presente qualcosa di nefasto, d’inevitabile. Non è vero che sono innocenti: vivono qui, fra di noi, e in loro cova il nostro stesso male. È una ferita che abbiamo tutti. A che cosa serve allora piangere? Forse è semplicemente un modo per imparare. Ogni vera educazione è prima di tutto un’educazione alla capacità di compatire, di riconoscere come nostro il dolore degli altri. Noi non siamo come vorremmo essere, o forse non vogliamo più niente. Le altre persone non sono come vorremmo che fossero. La natura stessa è intrisa di dolore, di sofferenza. Il pianto è una domanda, per alcuni una preghiera.
Perché piangono i bambini? Perché piangiamo noi? Per una delusione d’amore, perché dobbiamo morire, perché abbiamo fatto la cacca, perché ci sentiamo soli, perché abbiamo causato dolore agli altri, perché abbiamo fame e sete, perché ci fa male la pancia. Comunque sia, il nostro pianto significa che siamo al mondo. Infatti quel vagito iniziale serve pure a dilatare gli alveoli polmonari. Ecco di nuovo il primo respiro, il primo anelito dei nuovi nati che accolgono il mondo. È un’operazione difficile. Io cerco di metterci il massimo impegno, ma dopo tanti anni mi sembra di non avere ancora imparato a respirare.

PS: I versi citati nel preambolo in corsivo provengono dalla poesia C’è – lo sentono, lo sanno, contenuta nella raccolta Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (Garzanti, Milano 1994). Luzi è tornato più volte sul tema dei neonati, fino alla poesia Dorme, nuovo nato al mondo nell’ultima raccolta pubblicata a novant’anni (Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, Milano 2004). Anche la metafora della primavera, tanto spesso ribadita nei suoi versi con attenzione particolare ai primi, impercettibili segnali di risveglio nella natura, si può interpretare come una tensione verso una rinascita: «E con questo tutto il non ancora / il prima della primavera, quella / luce piovigginosa, quella grigia / fabbriceria di gemme nell’aria acquosa» (versi tratti da Non tra i bambini – con loro in Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, Milano 1985).

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Il respiro e la voce

Quando ascolto la musica di John Coltrane, mi sembra di cogliere una fatica e una meraviglia. Fatica: lo sforzo e l’incessante sfida tecnica; meraviglia: la dolcezza di certi passaggi, l’incanto dell’ingranaggio armonico e melodico. Mi chiedo allora se fatica e meraviglia non siano i due poli da cui nasce ogni forma artistica, compresa la letteratura.
In effetti, il mio primo ricordo è la fatica. Da bambino, come succede a molti mancini, formavo le lettere al contrario e creavo grovigli invece di parole: lo slancio di ciò che volevo dire era frenato da quelle aste, da quelle arcane linee ricurve.
Ancora oggi c’è una frizione nel momento in cui ciò che avverto dentro di me, come potenzialità indefinita, trova un modo di espressione, uno solo, con tutti i suoi limiti. Quello che appare sulla pagina è sempre diverso da quello che avevo in mente: prima di tutto perché ciò che scrivo esiste, mentre ciò che penso è come una vela che passa in lontananza. Dare voce ai personaggi, costruire una storia mi suscita meraviglia: in fondo né la storia né i personaggi mi appartengono; semplicemente, li ho trovati lungo la via.
Ascoltare Coltrane è diventato un modo d’interrogarmi sul mio lavoro. All’inizio non me ne rendevo conto: ero soltanto stupito da quel saxofono insieme impetuoso e limpido, fluviale, serio, sempre teso alla ricerca di qualcosa. Ero studente e vivevo a Zurigo quando, per caso, mi trovai ad ascoltare A love supreme (Impulse 1964). Si tratta della sua opera forse più celebre: una suite divisa in quattro parti (Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Psalm), che è allo stesso tempo Canzona di ringraziamento (come l’avrebbe definita Beethoven), professione di fede, autentica dichiarazione di gioia spirituale, applicazione delle ricerche di Coltrane nel campo della modalità e molto altro ancora (così Carlo Boccadoro nel suo Jazz, Einaudi 2005). A emozionarmi era soprattutto la parte finale, Psalm. Nella mia ignoranza musicale, mi colpiva soprattutto il suono, dolente, misterioso, e le frasi ripetute sopra il rimbombo dei timpani, gli accordi del pianoforte, il lungo strascinio dei piatti. Anni dopo, leggendo qualche libro su Coltrane e in particolare su A love supreme, scoprii che in Psalm il saxofonista suonò avendo in mente un testo scritto da lui stesso, riportato nel libretto del disco. Sotto la musica, insomma, si nascondevano le parole, e la musica le portava oltre, espandeva il loro significato.

John Coltrane ebbe una vita breve. Nato il 23 settembre 1926, morì a quarantun anni il 17 luglio 1967. I suoi primi dischi come leader uscirono nel 1957: negli ultimi dieci anni di vita continuò a esplorare strade impervie, in una continua, bruciante evoluzione, sorprendendo – e talvolta sconcertando – il suo pubblico. Lui stesso, in un’intervista, definì il suo metodo di lavoro: Parto da un punto e vado il più lontano possibile. La musica di Coltrane (insieme a quella di molti altri) è per me un’esortazione a percorrere strade nuove, nel mio lavoro e nella mia vita. Questo non significa lasciarsi tutto alle spalle, ma cercare la novità anche nel fluire dell’abitudine. Come scrive il critico musicale Xavier Daverat, la ripetizione coltraniana è un fenomeno di memoria diretto verso l’avvenire. Si tratta di essere pronti a vivere la fatica, senza abbandonare la meraviglia. Lo stesso Coltrane diceva: Essere un musicista è un’esperienza davvero unica. Ti permette di andare molto, molto a fondo. La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono: la mia fede, il mio sapere, la mia essenza. E aggiungeva: Voglio parlare all’anima delle persone.

Di sicuro, Coltrane parlò all’anima di molte persone con la melodia commovente di Alabama, registrata il 18 novembre 1963 nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs (New Jersey). Poco più di un mese prima, il 15 settembre, il Ku Klux Klan aveva perpetrato un attentato in una chiesa battista a Birmingham, in Alabama, ed erano rimaste uccise quattro bambine.
Il brano Alabama si trova nell’album Coltrane Live at Birdland (Impulse 1963). Nelle note di copertina, lo scrittore Amiri Baraka (pseudonimo di LeRoi Jones) cita una frase dello stesso Coltrane secondo cui il pezzo rappresenta musicalmente qualcosa che ho visto laggiù e che da dentro di me si è trasferito nella musica. È impressionante sentire il lamento del sax sopra la batteria che cresce sullo sfondo come un fenomeno naturale… un tuono che si rinforza, nubi di tempesta o nubi di guerra nella giungla (Amiri Baraka). Protesta, canto, preghiera: s’intuisce il respiro spezzato dalla sofferenza, lo stupore di un uomo davanti all’assurdità del male. Ma il respiro diventa musica. Il respiro diventa bellezza. Il soffio risale dai polmoni, percorre il tubo del saxofono e piange per quelle bambine, piange per lo strazio di tutti gli attentati. Anche per quelli di oggi; Coltrane non poteva saperlo, ma nel suo pianto risuona il dolore per ogni violenza, per ogni bomba scagliata dall’odio. E in quel pianto l’umanità resiste, anche in mezzo al caos, e afferma una speranza. Il respiro diventa voce.

PS: La versione video di Alabama proviene da uno spettacolo televisivo statunitense del dicembre 1963. I musicisti sono gli stessi dell’album: John Coltrane al sax tenore, MCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria. Fra l’altro, è lo stesso quartetto che registrò A love supreme.

PPS: Senza far riferimento a Coltrane, ho parlato qui della mia personale esperienza di saxofonista (agguerrito, ma principiante…). La musica di Coltrane, insieme a quella di altri musicisti jazz, è una delle fonti d’ispirazione per il mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016). In particolare, ho parlato qui del brano In a sentimental mood (inciso da Coltrane nel 1962 con Duke Ellington).

PPPS: Ringrazio Lina per il saggio di scrittura. Le dichiarazioni di Coltrane provengono da vari libri: “Je pars d’un point et je vais le plus loin possible”. Entretiens avec Michel Delorme suivis d’une lettre à Don DeMichael (Éditions de l’éclat 2012); Coltrane secondo Coltrane. Tutte le interviste (2010, a cura di Chris DeVito; l’edizione italiana, stampata nel 2012, è a cura di Francesco Martinelli per EDT); Lewis Porter, Blue Train. La vita e la musica di John Coltrane (1998, traduzione italiana di Adelaide Cioni nel 2006 per Minimum Fax); Ashley Kahn, A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane (2002, traduzione italiana di Fabio Zucchella nel 2004 per Il Saggiatore; da questo volume ho preso alcune delle fotografie che vedete sopra). Ho citato anche Xavier Daverat, Tombeau de John Coltrane (Parenthèses 2012). Per chi volesse approfondire l’influenza di Coltrane sugli altri musicisti, può essere utile il dossier speciale John Coltrane 50 ans après, apparso sul numero 696 di “Jazz Magazine” (luglio 2017).

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Istruzioni per andare all’inferno

In tempi di turismo di massa, andare all’inferno sarebbe una meta originale per le vacanze. Il problema è che, anche consultando i migliori tour operator, non è facile trovare indicazioni precise su come arrivarci (treno? automobile? volo low cost?), così come mancano dettagli sui bed & breakfast e sui posti dove mangiare a poco prezzo. Qualcuno allude vagamente a una selva oscura, ma senza rivelarne l’ubicazione, altri si limitano a consigliare di superare l’Oceano per poi cercare una spiaggia bassa e boschi sacri a Persefone, alti pioppi e salici dai frutti che non maturano. Capite anche voi che non sono istruzioni facili da inserire in un navigatore satellitare (il rischio è di trovarsi in Persephonestràat, una via nella città olandese di Tilburg). Alcuni fra gli specialisti danno qualche dritta su come raggiungere l’inferno – o l’Ade, come lo chiamano loro – ma faticano a mettersi d’accordo. Qualcuno parla della terra dei Mariandini, sul capo Acherusio, che non si capisce bene dove sia; qualcun altro allude al promontorio di Tenaro, e in questo caso viene in aiuto Wikipedia: Capo Matapan, o Capo Tenaro, è situato sulla punta della penisola della Maina, in Laconia. È il punto più a sud della terraferma greca e della penisola balcanica. Separa il golfo di Messenia a ovest dal golfo di Laconia a est. Detto questo, nemmeno Wikipedia spiega come si entri nella caverna che viene definita la casa di Ade (il dio degli inferi, da cui il luogo prende il nome).
Ecco altri dettagli che si trovano qua e là, nelle guide più rinomate: la presenza di una fonte accanto a un cipresso, il lago di Mnemosine, un bivio dal quale si diramano due strade. Non è un granché. C’è chi consiglia di cercare intorno al lago di Averno, in Campania, e chi si limita a menzionare paludi, gole nebbiose, grotte, un baratro immane, un sentiero in declivio fra le tenebre di tassi funerei. Tutto questo non aiuta quando si devono chiedere indicazioni a un passante (Mi scusi, vado bene per il sentiero in declivio fra le tenebre di tassi funerei?). L’inferno non sembra avere un ufficio del turismo efficiente. Come non condividere il lamento di Platone, noto per essere uno dei massimi esperti del settore? Il viaggio non è come dice il Telefo di Eschilo: egli dice che una semplice strada conduce all’Ade, ma a me non sembra semplice né unica. In questo caso non ci sarebbe bisogno di guide: nessuno sbaglierebbe, se ci fosse un’unica via. Pare, invece, che abbia molte biforcazioni e incroci. Si tratta di una destinazione esclusiva e, se ci sono dei villaggi vacanze, sono destinati a una clientela selezionata. Infatti il fumettista francese Étienne Lécroart, in una sua vignetta, mostra tre angeli che con aria soddisfatta stanno visitando l’inferno. Hanno l’aureola e le ali, ma impugnano anche un forcone (acquistato probabilmente in un negozio di souvenir). Uno di loro sospira: Pff! E pensare che fra due giorni, finite le vacanze, si torna in paradiso
Insomma, l’Ade sembrerebbe un luogo oltre la mia portata. Ma a volte, per fortuna, quando si viaggia si finisce per caso nel posto giusto. È andata così. Ero in un piccolo autosilo, nel cuore di una metropoli: all’inizio sembrava un parcheggio come tanti altri, ma poi mi sono accorto che stavo percorrendo le prime rampe dell’inferno. Il navigatore satellitare ha smesso di ricevere il segnale (ero lontano dal cielo), nell’aria si sprigionavano odori di gas, tutto era scritto in italiano e in inglese (com’è giusto che sia, vista l’utenza internazionale dell’Ade). Sono passato dalla cassa (cash), dalla guardiania (guardian), dove Caronte accettava carte di credito, e mi sono inoltrato nei meandri sotterranei, scendendo fino al piano -3 (floor -3) prima di risalire alla superficie. Da qualche parte ci doveva essere un ascensore (elevator), ma ho scelto d’imboccare l’uscita pedonale (pedestrian exit). Ho notato che, dietro una lastra da rompere in caso d’incendio (to crash in event of fire), c’erano un estintore e una lancia antincendio: forse un mezzo per tenere a bada gli animatori turistici o i demoni più fiammeggianti.
È stato emozionante risalire le rampe di scale dove a suo tempo si arrampicarono Orfeo ed Euridice, dopo che lui aveva osato avventurarsi per questi luoghi paurosi, per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno. Stanze vuote, loculi angusti, mille divieti di fumo, un labirinto di metallo e di cemento. Immagino la trepidazione di Orfeo, intento ad ascoltare se, sulle scale di ferro, si avvertisse il passo della sua donna, strappata agli inferi con la dolcezza del canto. Finché a un certo punto, per ragioni che poeti e romanzieri non hanno smesso di indagare, Orfeo si volta, trasgredisce il divieto; e subito Euridice scompare, come fumo dissolto in aure sottili, con il cigolio d’un topo che si salva.
La pedestrian exit è una porta insospettabile, che si apre in una fila di negozi e di bar. Appena fuori, nel cicaleccio degli aperitivi, fra cellulari e infradito, penso all’inferno. A quello vero, al male inesorabile. Quel luogo senza nome, definibile come assenza di luce e speranza, è più vicino di quanto immaginiamo. Affiora all’improvviso dalle pagine di un giornale, divampa dagli schermi di un computer o di un televisore. È un gorgo che divora, che trascina. C’è il male causato dall’uomo – la guerra, la fame – e quello che cova dentro l’uomo, come una ferita pulsante – le malattie, la depressione. C’è la solitudine che rimbalza su internet, la chiusura ideologica, l’invidia. C’è chi circonda di mine il proprio orticello, qualunque esso sia, perché nessuno possa entrarvi (o forse perché non venga la tentazione di uscirne). C’è l’arroganza, il cinismo, l’ipocrisia. C’è la violenza: quella dei criminali, quella dei kamikaze e quella che cova nelle famiglie. C’è chi langue nell’inferno delle carceri e chi scrive sui social network che bisognerebbe buttare via le chiavi. C’è chi muore lentamente, chi è già morto senza saperlo. Come fare? Come lottare contro la marea?
La tentazione è quella di rassegnarsi. Lo diceva anche il Kublai Kan di Italo Calvino: Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è la in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. Mi sembra che la risposta di Marco Polo sia sempre valida: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

PS: Ho citato molti autori di nascosto, integrandoli nel testo. Non vorrei quindi rovinare il gioco rivelando le fonti. Mi limito a dire che si tratta, in ordine alfabetico, di Apollonio Rodio, Dante Alighieri, Esiodo, Ovidio, Cesare Pavese, Virgilio. Ho citato anche qualche “indicazione di rotta” incisa su alcune laminette d’oro ritrovate in sepolture greche, menzionate da Anna Ferrari nel suo Dizionario dei luoghi letterari immaginari (UTET 2007); quest’ultima è un’opera utilissima per una panoramica sull’Ade nella letteratura classica e non solo. La frase di Platone è tratta dal Fedone (108a) e si trova in Dialoghi filosofici (a cura di Giuseppe Cambiano, UTET 1981). Le parole di Calvino provengono da Le città invisibili (Einaudi 1972). La vignetta di Lécroart è apparsa nel numero 4090 del settimanale “Spirou” (31 agosto 2016). Una delle fotografie raffigura capo Tenaro, in Grecia; un’altra immagine è un collage che accosta due statue di Antonio Canova (conservate al Museo Correr di Venezia): Euridice appare esasperata e Orfeo sembra chiedersi come abbia potuto fare una cosa del genere.

PPS: Ringrazio Eloisa per gli spunti orfici. Seguendo la tradizione classica, non rivelo qui l’ubicazione dell’autosilo-Ade: se qualcuno volesse fare una visita turistica, mi scriva in privato e vedrò di dargli qualche indicazione in più…

PPPS: Circa un anno fa mi trovavo per qualche giorno nel Gargano, in Puglia. Anche da quelle parti c’è una grotta marina che, se non è l’ingresso dell’Ade, ci assomiglia molto (ne ho parlato qui).

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Bogey

Ci sono mattine in cui, dopo aver ascoltato le notizie alla radio, sento cadermi addosso come un velo, una cappa scura che m’impedisce nei pensieri e nei movimenti, e che mi allontana dai gesti della quotidianità. La voce stentorea del giornalista annuncia stragi durante i mercatini di Natale, attentati, azioni di guerra che – dietro l’esito militare, qualunque esso sia – significano famiglie lacerate, solitudini, case e speranze distrutte, smarrimenti, fame, freddo, pensieri ed emozioni inghiottiti dal sentimento martellante della paura.
copia-di-image1-2Le notizie si susseguono, giorno dopo giorno, tanto da causare in me due reazioni distinte. Da un lato, sento insinuarsi il pericolo dell’assuefazione: un altro attentato, un altro eccidio. Dall’altro, percepisco la vanità del mio lavoro. A che serve raccontare una storia in più, quando dilagano la violenza e la disperazione? Mi sembra che questi fatti esigano il mio dolore, la mia solidarietà. Ma a parte inviare dei soldi – un gesto comunque poco personale – come posso esprimere la mia vicinanza? Il mio lavoro mi porta su sentieri distanti, mi conduce a trovare e a raccontare storie che non hanno niente a che vedere con queste tragedie.
guernica-1024x384Cercando una risposta, mi sono imbattuto in un testo dello scrittore Dany Laferrière. Mi capita di chiedermi come faccia a reggersi questo strano mondo. Sì, perché a volte sembra attaccato a un filo sottilissimo. Che cosa ci impedisce di precipitare nell’orrore più assoluto? Sappiamo bene che gli orrori si accumulano senza cancellarsi a vicenda. Il terrore dell’uno non annulla la violenza dell’altro. Le due cose si sommano. E un bambino appena nato riceve in eredità questo smisurato patrimonio di ferocia. La manifestazione del male avviene ovunque: dove c’è la guerra ma anche qui, dove tutto sembra scorrere liscio. In genere – continua Laferrière – la gente pensa che sia un fenomeno contemporaneo, mentre invece si tratta di una delle più antiche pratiche umane: terrorizzare l’altro. Ma è anche vero che la resistenza è antica quanto il terrore. E per sopravvivere ha imparato a nascondersi dappertutto: in un breve silenzio come in una risata. E anche a spuntare dappertutto appena può, come le erbacce.
Mi piace l’immagine della resistenza come un’erbaccia. Non è per forza qualcosa di appariscente, non è sempre un’azione eroica. Laferrière racconta una testimonianza della giornalista irachena Inaam Kachachi. Dopo uno dei vari bombardamenti su Baghdad, lei era riuscita a raggiungere sua madre di ottantaquattro anni, che sembrava dispiaciutissima perché non trovava più i suoi trucchi, perduti in mezzo a tutto quel trambusto. Commenta Laferrière: La frivolezza è forse la più commovente forma di coraggio.
image1-2Un silenzio, una risata, un gesto frivolo. Mi viene in mente che anche il nostro vivere quotidiano, a suo modo, è una forma di resistenza. Non occorrono decisioni storiche: forse l’erbaccia della resistenza significa svolgere nel modo migliore possibile il lavoro che siamo chiamati a fare, essere capaci di ironia e autoironia in ogni momento, anche quando il nostro orgoglio ci vorrebbe seriosi. Leggere una storia, ascoltare una canzone, guardare un film, cercare di capire meglio noi stessi e il mondo è già una forma di resistenza alla superficialità, a quell’indifferenza che può facilmente sfociare nell’odio.
Non vorrei cadere nella retorica. Perciò chiamo a testimone un personaggio che ha fatto dell’antiretorica la sua bandiera. È solo una storia, è un fantasma nato dalla grande macchina del cinema, ma secondo me ha qualcosa da insegnare: la sua corazza di apparente cinismo protegge la fragilità della compassione, e ci mette al riparo dalla chiacchiera vana, dal sentimentalismo, dall’isteria dell’ennesimo post strappalacrime nel mare dei social network.
img_8689Parlo di Humphrey Bogart, detto Bogey, nato a New York nel 1899 e morto nel 1957. Cinematograficamente parlando, sembra roba vecchia. Ma come tutte le erbacce, Bogey resiste all’usura del tempo. Di recente ho rivisto Casablanca grazie a un cineforum organizzato dagli studenti del Liceo diocesano di Breganzona, nella Svizzera italiana. Il film lo conosco quasi a memoria, ma ogni volta è in grado di stupirmi. Così come mi ha stupito il silenzio, l’attenzione degli studenti di fronte a un’opera del 1942. Quel mondo ormai non esiste più, e la rappresentazione che ne dà Casablanca è comunque storicamente inattendibile. È un film di propaganda, girato in piena guerra, con tutti i pericoli del caso: retorica, imprecisioni, luoghi comuni. Eppure, miracolosamente, non solo Casablanca evita il naufragio, ma riesce a dire qualcosa che ci sia di aiuto ancora oggi. Questo è anche merito di Bogey. Il suo modo d’interpretare Rick va oltre la recitazione, ma incarna un modo di essere. Bogey era pieno di difetti: beveva troppo, era umorale, aveva difficoltà nell’espressione dei sentimenti, soffriva di manie di persecuzione. Ma ebbe il coraggio di portare le sue debolezze nei suoi personaggi. In un certo senso, l’eroe del film è Victor Laszlo, che combatte direttamente il male (cioè i nazisti) e che con il suo carisma invita alla ribellione. Ma è Bogey, dietro il suo apparente distacco, a rendere possibile tutto ciò: un cenno del capo, una battuta, la capacità di sacrificio al momento giusto, la discrezione nel fare buon viso a cattivo gioco. Senza Rick, anche i gesti eroici di Laszlo non sarebbero possibili.

Mi sembra che tutti noi, in quel piccolo cineforum, davanti a un vecchio film, abbiamo intuito che l’erbaccia della resistenza può essere il coraggio della quotidianità. Scrive l’autore Jonathan Coe: È innegabile che, dopo aver visto uno dei grandi film di Bogart, si ha la sensazione che qualcosa ci abbia arricchito ed elevato lo spirito. Il personaggio di Bogey va oltre le sue singole manifestazioni. È un invito a prendere la vita con ironia, a non cadere nell’autocommiserazione o nell’ideologia. Lui stesso seppe conservare il senso dell’umorismo fino all’ultimo. Quando stava male, leggendo che i giornali lo avevano già dato per morto, rispose con queste parole: Ho letto che mi hanno asportato entrambi i polmoni; che mi restava mezz’ora di vita; che ero in fin di vita in un ospedale che non esiste nemmeno; che il mio cuore ha cessato di battere ed è stato sostituito da una vecchia pompa di benzina presa da una stazione di servizio in disuso. Mi hanno spacciato per diretto a tutti i cimiteri da qui al Mississippi, tra i quali alcuni dove sono certo che accettino solo cani. Tutto ciò addolora i miei amici, per non parlare delle compagnie di assicurazione…
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Che cosa ci può dire oggi questo fantasma in bianco e nero, con il suo impermeabile, la sigaretta, il cappello, con il suo sguardo insieme addolorato e ironico? Secondo Jonathan Coe, la strategia di Bogart si riassume nell’espressione take it and like it, che in italiano si potrebbe rendere con “fare buon viso a cattivo gioco”, “sopportare il male e sorridere nelle avversità”.
Questo è Bogey. Così lo abbiamo rivisto in Casablanca, ancora una volta. Una vecchia erbaccia del 1942, certe volte, può aiutarci ad affrontare il peso del mondo più di tante analisi storico-politiche, più di tanti brillanti editoriali, più di tanti proclami intessuti di belle parole.
Take it and like it.
Cerchiamo di fare del nostro meglio.

PS: Il cineforum s’intitola Ippopotami in vacanza. Il titolo proviene da una bella poesia di Billy Collins, che riflette sulla capacità d’immedesimazione suscitata dai grandi film. Ecco qui la locandina (la prossima proiezione, Ombre rosse, sarà domenica 8 gennaio alle 17.30, in via Lucino 79 a Breganzona, vicino a Lugano). Ed ecco la poesia di Collins: Ippopotami in vacanza // non è proprio il titolo di un film / ma se lo fosse lo vedrei di sicuro. / Mi piacciono le loro gambe corte e le teste grosse, l’aspetto globale dell’ippopotamo. / Mentre in centinaia giocheranno divertiti / nel fango di un ampio, lento fiume, / io mangerò il popcorn / nel buio di un cinema di quartiere. / Quando apriranno le bocche enormi / solcate da grandi e tozzi denti / io berrò la mia enorme Coca. // Starò ad un tempo seduto al mio posto / e nell’acqua a giocare con loro, / proprio come succede / in ogni grande film. / Solo un recensore dall’animo meschino chiederebbe in vacanza da che cosa?

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PPS: Le parole di Dany Laferrière sono tratte da L’Art presque perdu de rien faire, pubblicato dalle Éditions Grasset & Fasquelle nel 2014; in italiano, con il titolo L’arte ormai perduta del dolce far niente, è uscito per 66thand2nd nel 2016 (tradotto dal francese da Federica Di Lella e Francesca Scala). Le parole di Coe e dello stesso Bogart provengono da Humphrey Bogart. Take it & like it: è una biografia scritta da Coe nel 1991 e pubblicata in italiano da Feltrinelli nel 2004, con la traduzione di Anna Mioni e il titolo Caro Bogart. Una biografia. Le due immagini iniziali sono una riproduzione di La guerra (Marc Chagall, 1966) e di Guernica (Pablo Picasso, 1937). I versi di Billy Collins sono presi dalla raccolta Questions About Angels (1991), poi confluita in Sailing Alone Around the Room e pubblicata in italiano da Fazi nel 2013 con il titolo A vela in solitaria intorno alla stanza (traduzione di Franco Nasi).

 

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