Tecniche di sopravvivenza

Preso da un folle desiderio di avventura, ho passato un sabato sera in un centro commerciale. Naturalmente mi ero preparato, procurandomi un Manuale pratico di sopravvivenza. Ma un conto è leggere una serie di nozioni su come comportarsi nelle zone selvagge, altra cosa è trovarsi in mezzo a una folla inferocita tra McDonald’s, Disney Store e un posto che vende tutto a due euro. Anche l’esploratore più coraggioso rischia di finire nei guai, sommerso da quelle che il Manuale chiama circostanze imprevedibili.
image4Eppure Raymond Mears, l’autore del Manuale, mi aveva messo in guardia. Fin dalle prime pagine ammoniva: Nessuno può sconfiggere gli elementi; coloro che non prestano attenzione ai segnali di pericolo o hanno la stupidità di spingersi più avanti, fanno una brutta fine. Che dire? All’ingresso ho notato uno stand con centinaia di barattoli di Nutella accanto a un recinto con decine di finti abeti cosparsi di finta neve. Incurante dei segnali di allarme, ho tirato diritto. Ma dopo pochi passi, ho capito di essermi perso: nessuna traccia dei miei compagni di esplorazione. Il buon Mears fa notare che ogni escursionismo in una zona selvaggia, in ogni parte del mondo, richiede abilità nell’orientamento. In effetti, avrei potuto procurarmi una mappa, una bussola, magari un sestante. Invece avevo lasciato in macchina pure il telefono. Ma a quanto pare, persino nelle foreste più fitte, dove non esistono sentieri tracciati, ci sono piste create da animali o dagli indigeni. Allora mi sono guardato intorno e ho cercato qualche pista. Proprio come suggerisce il maestro: Camminate con cautela più che con paura e imparate a conoscere voi stessi.
image1-copia-2Ma la foresta era davvero fitta. Il Centro commerciale di Arese, alle porte di Milano, è a quanto pare il più grande di Europa: consiste in una serie di piazze interne, ispirate alle vecchie corti lombarde. Si tratta di novantamila metri quadrati, con più di duecento negozi, venticinque ristoranti, seimila parcheggi, apertura sette giorni su sette, area di accoglienza per cani (Mi Fido) e per bambini (Area Kids). Nell’area per i cani ci sono perfino dog sitter pronti a prendersi cura di loro e la possibilità di toeletta. In quella per i bambini la promessa è di far divertire i più piccoli e farvi sentire più liberi di usufruire, in tutta tranquillità, dei numerosi negozi e servizi. (A quanto pare, per i bambini nessuna possibilità di toeletta). All’ingresso, una banda musicale suonava canzoni di Gianna Nannini in una sorta di finto mercatino natalizio, mentre un’automobile candida, scintillante, si offriva agli sguardi dei visitatori. Accanto alla macchina, una hostess biancovestita lanciava sguardi malinconici.
img_8012Il centro si chiama proprio Il Centro e ogni parte di essa, in un certo senso, è il centro del Centro. La luce è sempre uguale, la musica di sottofondo lentamente ipnotizza l’incauto esploratore, strappandolo al normale fluire del tempo e lasciandolo sospeso in una bolla fatta di vetrine scintillanti e affermazioni perentorie: ogni prodotto è genuino, ogni birra è artigianale, ogni cibo è tipico, ma nello stesso tempo quella che servono dietro un bancone di colore giallo viene definita: Non la solita polenta. Che roba è, allora? Sarà prudente assaggiarla? Affannosamente, consulto il Manuale. Mears è perentorio: Se vi sembra poco sicuro, non mangiate il cibo selvatico. D’altra parte, per lavorare avete bisogno di energia; per l’energia avete bisogno di cibo.
img_8013Bisogna girare come lupi, pronti a cogliere ogni fremito, ogni minimo segno che un tavolo stia per liberarsi. La selezione è spietata: passano come rulli compressori famiglie di tre generazioni, con nonni che tengono i posti, genitori che bilanciano vassoi colmi di hamburger e figli che chiedono le figurine dei Pokémon. Poco più in là si aggirano branchi di adolescenti dallo sguardo torvo e coppie di ragazze pronte a ogni follia. Ormai qui ci vengo per i cacchi miei, dice una di loro, perché se aspetto lui, una volta c’è l’Inter, una volta c’è la musica… E l’amica: perché non torniamo domani? Ci facciamo la giornata!
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Nel nostro gruppo, la tensione si fa sentire. I territori da attraversare sono sterminati, e c’è chi dà segni di cedimento: uno abbandona e torna in automobile a leggere Tex; un altro si distrae un secondo ed è spacciato… eccolo dentro un negozio di Lego, catturato dal canto delle commesse-sirene. Per andare avanti, bisogna stare sempre all’erta e sviluppare al massimo le qualità percettive che già possediamo. Myers è prodigo di consigli: Se vi capita di sentire un rumore strano, fermatevi e ascoltate attentamente, cercando di non fare nessun rumore a vostra volta. Per ampliare la vostra capacità di captare i suoni, potete usare il vecchio trucco di mettere la mano dietro l’orecchio.
image2Grandi schermi sospesi mostrano partite di calcio e all’ingresso dei bagni, oltre alle consuete icone uomo-donna, una scritta in sette lingue, dall’arabo al cinese passando per quelle europee, annuncia che sì, quelli sono proprio i bagni. Ci sono alberi verdi, distributori di bibite, panchine provviste di séparé per conversazioni intime e una grande piramide di legno, come il resto di una civiltà perduta. La piramide troneggia in mezzo al parco giochi e indica, di nuovo, il centro del Centro, il posto giusto per farsi avvolgere dal sabato sera.
img_8017Forse dovremmo trovare un rifugio? Secondo Myers si dividono in due categorie: quelli da costruire e quelli naturali, che possiamo prendere in “prestito” dall’ambiente. Sebbene qualcuno suggerisca di trovare riparo dentro Zara o H&M, alla fine, esausti ma sani e salvi, raggiungiamo i limiti estremi della zona selvaggia. Dietro le quinte si aprono spazi vuoti: stanze con armadietti per gli inservienti, punti di raccolta per i rifiuti, porte antincendio. Una scala di metallo. Due rampe, una piattaforma e all’improvviso, come una carezza, dolcemente mi arriva sulla faccia un velo di pioggia. È notte. Il cielo è buio. Mi fermo e ascolto le sfumature del silenzio. Posso tirare un sospiro di sollievo: il mondo, dopotutto, esiste ancora.

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PS: Le citazioni di Raymond Mears provengono dal suo Manuale pratico di sopravvivenza, pubblicato originalmente nel 1990 e in italiano nel 1991 (Gremese editore, con ristampa nel 2012). Le altre citazioni sono tratte dal sito www.centroilcentro.it.

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PPS: Ecco un brevissimo frammento della banda musicale che ci ha accolti all’ingresso. Per ascoltare, seguendo le indicazioni di Mears, potete usare il vecchio trucco di mettere la mano dietro l’orecchio…

PPPS: Ringrazio le compagne di avventura che mi hanno fornito le immagini e il video per questo articolo (con eroico sprezzo del pericolo…).

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L’età delle caverne

Qualche giorno fa ero nel Gargano, in Puglia. Per una serie di circostanze che sarebbe lungo enumerare, e per quella blanda distrazione nei confronti della ragionevolezza che ci siamo abituati a definire come vacanza, mi sono ritrovato a bordo di una canoa, con un giubbotto di salvataggio e una pagaia. Qualcuno mi ha spinto verso il mare aperto.
image1Dopo qualche secondo, preso atto della situazione, stavo già remando… verso dove? Davanti a me si aprivano le infinite vie dell’oceano (in senso lato). Intorno all’anno mille i Maori attraversarono il Pacifico da ovest a est e da sud a nord a bordo di fragili piroghe a bilanciere, orientandosi con i venti e con le stelle. E io, quale meta avrei mai potuto raggiungere? Le coste dell’Australia? Le isole delle Antille? Capo Horn? Per fortuna, tempo qualche minuto, mi sono ricordato di non essere un Maori. Così ho voltato la canoa verso la costa, senza sapere che proprio lì mi attendeva l’ignoto.
image1 copia 2Nella parete rocciosa si scorgeva un piccolo varco. Anche soltanto per cercare un po’ di ombra, il mio compagno di canoa e io ci siamo diretti verso quel passaggio e ci siamo inoltrati in una grotta. Dentro, c’era il rovescio del mondo. Niente più sole abbagliante o azzurra vastità del Mediterraneo. Intorno a noi, soltanto rocce frastagliate e nere, qualche pezzo di legno trascinato dalla marea, qualche riflesso siliceo sulle pareti di calcare e l’acqua tenebrosa, inquieta, che aveva perso ogni trasparenza. Ci siamo spinti verso un angolo e in quel momento, nell’oscurità totale, ho pensato: siamo dentro di noi. Per uno strano effetto di traslazione, la grotta non era più un fenomeno esterno, ma una manifestazione oggettiva dell’inconscio. Ecco la caverna che da sempre accoglie l’umanità, l’antro dal quale siamo usciti, millennio dopo millennio, imparando a essere uomini e donne. Ecco il rifugio, l’ininterrotta oscillazione, l’acqua avvolgente, lo spazio chiuso che ho abitato prima di venire al mondo, mese dopo mese, imparando inconsapevolmente a essere me stesso. Ecco il fondo remoto da cui sorgono le idee e nel quale sono nati tutti i personaggi delle mie storie.
image4Quanti artisti entrano ed escono da queste grotte, alla ricerca di quel porto sepolto, che rappresenta ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile. Ma non riguarda soltanto i poeti, è così per chiunque. Anch’io, quando trovo una parola, mi accorgo che scavata è nella mia vita / come un abisso. Il punto di partenza per un atto di linguaggio è sempre qualcosa che viene dal fondo, è come il baricentro di un piccolo terremoto, come un’onda che sale su. Con la nostra canoa a noleggio eravamo approdati a quella caverna abitata da ombre platoniche e ricordi di epoche primitive, a quell’acqua buia assai più che persa, a quella zona oscura dove covano i sogni.
IMG_5289Abbiamo imboccato un cunicolo. Che ci volete fare? La convinzione di essere in un romanzo di Jules Verne si faceva sempre più solida, e ci pareva di sentire accanto a noi il professor Lidenbrock del Viaggio al centro della terra o il capitano Nemo di Ventimila leghe sotto i mari. Il cunicolo si faceva più stretto, cancellando ogni residuo di luce. Sono passati un paio di secondi – o erano epoche millenarie? Dalla profondità veniva un rumore sordo, come il brontolio di un drago che si risvegli dal sonno. Ma era soltanto l’acqua, l’acqua che incessante si frangeva sulle pareti. (Era davvero l’acqua? Mai sottovalutare i draghi).
Copia di image3Poi, ecco uno spiraglio. Lontano, più avanti, s’intravedeva qualcosa di azzurro. Aiutandoci con le mani, abbiamo spinto la canoa. In quell’attimo, ho colto un movimento: appena sfiorato dalla luce, sopra una roccia, è apparso un artropode nerastro; non so se fosse un gambero o un altro tipo di minuscolo crostaceo. Quell’irruzione della vita mi ha rinfrancato. Anche laggiù, nell’anticamera dell’inferno (o dell’inconscio, ma cambia poco), un essere animato s’industria per mandare avanti la sua giornata. Anche laggiù, l’imprevedibilità e il mistero dell’esistenza non cedono all’oscurità, all’ipnotico borbottio del drago.

E finalmente, di nuovo, il mondo. Di colpo la grotta si allarga, come una cattedrale di luce, e tornano i colori mutevoli del mare, del cielo, delle nuvole. Dopo una lunga preistoria, o dopo nove mesi di gestazione, usciamo all’aperto, sotto lo schiaffo del sole. Siamo noi, siamo tornati limpidi, siamo di nuovo quello che vogliamo o che possiamo essere. Ma non dimentico, nel cicaleccio dei gabbiani e dei bagnanti, che quella grotta non me la sto lasciando alle spalle, così come sembra. È qui, la sento, dentro di me. Ogni tanto anche senza canoa mi arrischio nella caverna, alla ricerca di parole, di pensieri, d’immagini, e spero sempre di fare ritorno.
Copia di image1Stavolta, per esempio, eccomi di nuovo con voi. Ho trovato qualche manciata di frasi, abbarbicate alle rocce come pomodori di mare, e le ho distese in ordine. Il viaggio continua, fuori o dentro l’acqua: approfitto della caverna virtuale di questo blog per rivolgere un saluto e un augurio di buone vacanze alle mie lettrici e ai miei lettori… e perché no, anche a quel piccolo crostaceo che, a modo suo, faceva il possibile per essere creativo, e dunque vivo.

 

PS: Qualche giorno dopo la mia partenza, in Puglia è capitato un grave incidente ferroviario. Quei due treni che si sono scontrati fra Corato e Andria, con quell’improvviso manifestarsi del male, della morte, mi hanno fatto riflettere sulla nostra precarietà e sulla vastità del mistero, che a volte è davvero immenso e oscuro come una caverna. Dedico questo articolo alle vittime, ai feriti, ai loro cari, nella speranza che al confine delle tenebre possa un giorno balenare l’azzurro del mare ritrovato.

PPS: Il porto sepolto è il titolo di una poesia di Giuseppe Ungaretti, contenuta nella raccolta omonima stampata per la prima volta nel 1916. Lo stesso autore, in un commento alla sua lirica, diede la definizione che riporto in corsivo. Trovate i versi e la glossa in Vita d’un uomo. Tutte le poesie (Mondadori). Anche i versi successivi sono tratti dal Porto Sepolto (poi confluito nell’Allegria), e in particolare dalla lirica Commiato. La citazione successiva è di Mario Luzi, presa dal volumetto Spazio stelle voce. Il colore della poesia, edito nel 1991 da Leonardo a cura di Doriano Fasoli. L’acqua buia assai più che persa proviene da un verso di Dante, nel canto VII dell’Inferno. Come spiega Dante stesso nel Convivio (IV, XX 2), lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina.

PPPS: Grazie a Martina, autrice di alcune fotografie e del video (la canzone è In my heart, tratta dall’album 18, pubblicato da Moby nel 2002).

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Il senso del pallone

Nel 1962 il giornalista britannico Anthony Smith ebbe l’idea di sorvolare l’Africa su una mongolfiera. Nella prima tratta, fra Zanzibar e il continente, Smith sentì qualcosa che non aveva mai sentito prima: la voce del mare. Nuotando, navigando o stando sulla riva, è impossibile udirla senza interferenze; per ascoltarla davvero, bisogna stare appesi a un pallone, più leggeri dell’aria, pochi metri sopra la distesa delle acque. L’impressione, annota Smith, non è quella di essere spinti dal vento, ma di essere parte del vento. A volte, nella vita e nella scrittura, è utile partecipare al vento: stare sospesi sopra le cose, silenziosi, attenti ai suoni segreti del mondo.
IMG_4652Ho cominciato a leggere Due manciate di sabbia per caso, incuriosito dal titolo. Pubblicato nel 1963 dalla De Agostini, appartiene alla stessa collana che mi ha regalato la parola “kiringa” (ecco qui l’articolo sul blog). Lo spunto per il viaggio reale venne da un viaggio fantastico: nel 1962 si festeggiavano i cento anni del romanzo Cinque settimane in pallone di Jules Verne. Naturalmente, nella realtà tutto era più complicato: per cominciare, Smith non aveva né un pallone, né il brevetto per pilotarlo. Ma era un uomo cocciuto. E si era innamorato del sogno di sorvolare la savana per sorprendere, nel silenzio, la vita vera degli animali africani. Dopo infiniti labirinti burocratici, viaggi di formazione, ricerche di fondi, lezioni pratiche e teoriche, bollettini meteorologici capricciosi e mille altri ostacoli, finalmente Smith partì, insieme a qualche compagno.
Nel frattempo, oltre al brevetto di volo ottenuto in fretta e furia, tentava di acquisire quello che nel libro chiama il senso del pallone. In effetti, era importante comprendere che l’oggetto nel suo insieme pesava almeno tre quarti di tonnellata e che tutto quel peso si muoveva nella densità dell’aria. Poche manciate di sabbia erano più che sufficienti ad alterare l’equilibrio delle cose, ma occorreva un certo tempo perché si producesse il loro effetto.
Non è facile, pilotare una mongolfiera. Più che condurre, bisogna affidarsi alle decisioni del vento. Quanto all’atterraggio, non è propriamente dolce (anche perché non si sa mai dove si andrà a finire): non ho ancora avuto un atterraggio in pallone, scrive Smith, del quale abbia saputo poi quel che era successo.
FullSizeRender copia 5Questo articolo ha un titolo che, mentre è in corso il Campionato europeo di calcio, può trarre in inganno: qualcuno forse prima di leggere avrà pensato all’abilità di prenderli a pedate, i palloni, affinché si sollevino con la giusta traiettoria. Ma in fondo non siamo troppo lontani dalle manovre di Smith perché la mongolfiera vada nella direzione più opportuna, senza picchiare contro una montagna o finire dentro un lago di soda caustica (uno dei rischi narrati nel libro). I viaggi in mongolfiera sono un’alchimia fra calcolo e improvvisazione, e come tali rappresentano un’attività creativa, ricca di scoperte.
Il percorso africano di Smith e compagni conobbe momenti pericolosi e disavventure. Il fatto stesso di sollevarsi da terra causa un vago timore: capivo perché ci stavamo muovendo, eppure i miei sensi non riuscivano ad avvalorare questo convincimento. Il sapere che si viaggerà con il vento, farlo effettivamente e non sentire neanche un sussurro è poco rassicurante. Mi rendo conto che noi e il vento eravamo come una cosa sola, ma il fatto era difficilmente concepibile. Era anche difficile capire il potere dell’idrogeno. Mi rendevo conto del modo in cui le sue caratteristiche potessero essere usate per sollevare un pallone e sapevo che era assolutamente incolore e senza odore; ma ero in un certo qual modo impreparato a guardare dentro l’involucro contenente il gas, sopra di noi, per vedere quello che c’era dentro, dopo che la bocca era stata aperta, e non vedere niente. Quello che c’era dentro sembrava aria. Era invisibile. Non c’era.
IMG_4634Non si vedeva niente, ma il pallone volava. Jambo, come lo battezzarono appena giunti sul continente africano, avanzava partecipando al vento. Era silenzioso mentre da sotto venivano i rumori del mondo. Quando si è sulla terra, tutti i rumori tendono a venire da un solo livello e perciò si confondono nelle nostre orecchie. Su in aria, arrivando attraverso una serie di livelli diversi, i suoni sono più distinti, certamente più udibili e generalmente identificabili con la loro fonte. Ogni guaito di cane, ogni grido, ogni ronzio di motore spiccano con precisione. Normalmente, all’aria aperta, le nostre orecchie sono un po’ assordite dal vento che le sfiora. Anche nelle notti più calme c’è sempre una brezza; ma un pallone cammina tanto d’accordo col vento che un intero mondo di suoni si schiude all’aeronauta.
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Mi ha stupito, a parte lo stile brillante di Smith, questo prodigioso sollevarsi dai pesi della terra, che consente una migliore percezione del mondo. Si afferrano suoni a cui prima non si badava, si vedono le cose dall’alto ma nello stesso tempo si è parte integrante del paesaggio. Tutto, spiega Smith, appare diverso. Anche il mare colpisce, perché è una novità, una cosa rumorosa e infuriata. Così come stupisce il movimento: volare con il vento fa sì che non si sente il vento. Non è come veleggiare. Non è come planare. È un’esperienza del tutto diversa. Si è presi dal vento a una velocità che gli aggrada, senza che per questo venga scompigliato un solo capello. Insomma: si è immersi nella realtà e nello stesso tempo la si osserva da fuori. Come scrittore, ciò mi fa riflettere. Ho sempre pensato che questo esserci-senza-esserci, questa partecipazione contemplativa sia indispensabile per riuscire a scrivere con efficacia. Partecipare al vento, viaggiare immobili nel silenzio, adeguarsi ai cambiamenti climatici significa imparare a guardare, ad ascoltare ciò che abbiamo intorno; ed è fondamentale perché l’esperienza – anche minuta, anche impalpabile – possa diventare narrazione. Mi riconosco nel simbolo della mongolfiera: nella sua lentezza, nella sua inquietudine, nel suo uscire dalle rotte stabilite per reagire agli imprevisti. Tutto questo mi aiuta a cogliere l’importanza dei dettagli. Come cantava Gianmaria Testa: lasciano tracce impercettibili le traiettorie delle mongolfiere.

Anthony Smith e i suoi compagni volarono da Zanzibar fino alle pianure del continente. Esplorarono il cratere di Ngorongoro, lasciarono che Jambo vagasse sopra la natura favolosa del Serengeti National Park. Il viaggio si concluse bene, fra mille peripezie, lasciando a Smith un gran desiderio di altre avventure. Di lì a qualche anno infatti fu il primo cittadino britannico a sorvolare le Alpi.
FullSizeRender copia 2  FullSizeRender copia 4E noi? Noi che in mongolfiera non ci andiamo, noi che seguiamo le traiettorie da terra? Anche noi possiamo partecipare allo stupore, alla leggerezza, e possiamo allenarci ad ascoltare il mondo come se non l’avessimo mai udito prima. Anche noi, con gli occhi controvento al cielo, abbiamo cercato e perso le tracce del loro volo dentro le nuvole del pomeriggio, nei pomeriggi delle città… ma chissà dove è incominciato tutto… chissà…

PS: Le ultime righe provengono dalla canzone “Le traiettorie delle mongolfiere”, registrata da Testa nel 1995 e pubblicata nell’album Montgolfières. Le altre citazioni sono tratte dall’edizione italiana del volume di Anthony Smith, il cui titolo originale è Throw out two hands. Fra l’altro, Smith non si limitò ai viaggi in pallone: nato nel 1926 e morto nel 2014, fu giornalista, scrittore, navigatore, amante delle imprese. Nel 2011, per esempio, all’età di 85 anni, compì una traversata atlantica su una zattera costruita con i tubi per il gas. Insieme a lui c’erano tre compagni di viaggio, anche loro in età da pensione. Smith infatti aveva fatto pubblicare questo annuncio: Avete voglia di attraversare l’Atlantico? Famoso viaggiatore cerca tre membri d’equipaggio. Devono essere anziani pensionati. Solo veri avventurieri. 
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Kiringa

Sarà la pigrizia primaverile, sarà la mutevolezza del clima. Ma arrivano giornate in cui ti sorprendi a desiderare di essere altrove. Dall’altra parte del mondo, lontano da ogni congegno tecnologico e dall’esercito di mail e messaggi che ogni giorno ti mette sotto assedio. Ti dici: me ne andrei volentieri in un’isola sperduta della Papuasia. In questi casi, la cosa migliore è trovare qualcuno che ci sia andato davvero… e non oggi – in un’epoca di aeroplani ed eterna connessione – ma nel 1871, quando i viaggi erano ancora viaggi.
Copia di FullSizeRenderHo letto di recente un libro di Nikolaj Miklucho Maklaj: Amicizia coi selvaggi. Viaggi nella Nuova Guinea. Il titolo, oggi difficilmente proponibile, mostra l’età del volume: pubblicato dall’Istituto Geografico De Agostini nel 1963, si trova solo nel mercato dell’usato. (Il titolo dell’originale russo è semplicemente: Путешествия). Maklaj (1846-1888) ebbe una vita difficile e avventurosa. Biologo e antropologo, nei suoi lunghi viaggi non si limitava a esplorare terre nuove, ma andava alla ricerca degli uomini. Con una delicatezza e un rispetto all’epoca non usuali, seppe avvicinare  gli indigeni della Nuova Guinea, che cercò di aiutare e difendere in ogni modo. Soprattutto, non si limitò a studiarli da lontano: con loro condivise anni di vita, stringendo rapporti di amicizia.
FullSizeRender copia 2Il 19 settembre 1871 la corvetta russa Vitiaz giunse nel Golfo dell’Astrolabio, sulla costa nord-orientale della Nuova Guinea. Dopo qualche giorno la nave ripartì e sull’isola, insieme a due aiutanti, rimase soltanto Maklaj. Nel suo diario, con stile sempre piano e avvincente, Maklaj descrive le tappe del suo avvicinamento agli indigeni. A quell’epoca i papuasi non avevano praticamente mai visto un uomo bianco ed erano a tutti gli effetti uomini dell’età della pietra. Maklaj invece era uno scienziato colto del XIX secolo. Ma in nessun momento egli disprezza o sottovaluta gli indigeni. Anzi, non esita a seguire le loro stesse usanze, come quando dopo la morte di una donna si tinge la fronte di nero in segno di lutto per esprimere le sue condoglianze al marito, oppure quando trova le parole e le azioni giuste per spiegare agli indigeni che anche lui è un essere umano, che può morire e soffrire (ma dicci, gli avevano chiesto, anche tu muori come tutti noi?).
Le differenze culturali erano immense. Però talvolta Maklaj trova, in maniera sorprendente, qualche inaspettata affinità: Passando accanto all’ultima capanna vidi una bambina che girava tra le mani una cordicella annodata ai capi. Mi fermai per osservarla. Con un sorriso compiaciuto la bambina ripeté il giochetto con la cordicella. Era lo stesso che fanno i nostri bambini d’Europa.
Copia di image1Maklaj e i suoi aiutanti passarono un anno e quindici mesi nell’isola prima di avvistare una nave. Uno degli aiutanti era morto di malattia e l’altro era in condizioni pietose. Maklaj invece era vivo, seppure provato dal lungo soggiorno nel luogo selvaggio (fra l’altro, aveva esaurito la scorta di chinino per curare la febbre). A malincuore ripartì con la nave, portandosi dietro i suoi reperti scientifici. Quattro anni dopo, trovò un’altra nave che lo riportasse sull’isola. Gli indigeni lo accolsero festanti: avevano conservato tutte le sue cose, perché sapevano che sarebbe tornato.
Con i vezzi di uno scienziato ottocentesco, Maklaj è meticoloso nell’annotare una vita meticolosa: ogni giorno misura la temperatura dell’aria e dell’acqua, insieme ad altri rilievi, raccoglie campioni di fauna e di flora, osserva con attenzione gli indigeni e cerca d’imparare il loro linguaggio. Questo è il punto che più m’interessa. Pensate: appena sbarcato Maklaj non comprendeva nemmeno una parola. E imparare una lingua, in quelle condizioni, non era certo facile.
Solo oggi, cioè cinque mesi dopo il mio arrivo, ho conosciuto le parole papuasiche che significano: “mattino”, “sera”; non sono ancora riuscito a conoscere la parola “notte”. […] È difficile farsi comprendere se la parola che si vuol sapere non è la semplice denominazione di un oggetto. Per esempio, come spiegare che si desidera conoscere la parola “bene”? A un certo punto, Maklaj credeva di avere imparato la parola “bene”: kas. Quando indicava qualcosa di bello o funzionale, diceva kas; e gli indigeni con entusiasmo ripetevano kas. Soltanto dopo tre mesi scoprì che kas in lingua papuasica voleva dire “tabacco”. Il guaio era che gli indigeni, per gentilezza, avevano l’abitudine di ripetere sempre le sue parole, pensando che si esprimesse nella sua lingua. Kas per loro era “tabacco”, ma chissà, forse nella lingua di Maklaj significava un’altra cosa… nel dubbio, lo ripetevano allegramente. Ancor più comica la storia della parola “kiringa” che gli indigeni usavano assai spesso quando parlavano con me. Io pensavo che significasse “donna”. Solo qualche giorno fa, cioè dopo quattro mesi, ho saputo che non si trattava di una parola papuasica, mentre Tuj e gli altri indigeni hanno potuto convincersi che non si trattava della parola russa che essi credevano.
FullSizeRenderAppena ho letto queste frasi, la parola kiringa mi si è stampata nella mente, e credo che non la dimenticherò. È una parola che non vuol dire niente, né in russo né in papuasico. Ma per mesi Maklaj e gli indigeni la usarono per comunicare fra di loro, riuscendo in qualche modo a comprendersi. Quanto spesso, anche esprimendoci nella nostra lingua madre, abbiamo l’impressione che le parole non corrispondano all’essenza delle cose? Quanto spesso il significato ci appare immensamente più vasto del significante? Eppure, a volte, una sola parola – che per giunta non esiste – può avvicinare gli uomini più di mille discorsi intelligenti, più di mille articoli sui giornali o sui blog, più di milioni di “A cosa stai pensando?” su Facebook.
La verità è che la comunicazione ha bisogno di tempo. Per approfondire il significato di una sola parola ci vogliono mesi – come nel caso di kiringa – o forse non basta una vita intera. Per contro, anche se usate in maniera imperfetta, le parole hanno una potenza miracolosa: creano ponti, uniscono le persone. Non soltanto legano Maklaj agli indigeni, ma anche Maklaj a me e a voi, e quindi gli indigeni a tutti noi. Insomma: quella parola, risuonata tanti anni fa in una luminosa isola dei mari del sud, torna a vivere qui, nel mio piccolo blog. In questi giorni, fra l’altro, cerco di usarla il più possibile con parenti e amici…
image1Siamo stanchi? Un po’ esauriti dalla frenesia delle giornate primaverili? Non è necessario partire per la Papuasia. Basta osservare le persone intorno a noi, cercare di cogliere i riti sociali, le usanze, le modalità di linguaggio: siamo tutti “selvaggi”, in un certo senso, e ci si può improvvisare antropologi anche a due passi da casa. Ma soprattutto, quando vi sentite giù di corda, provate a seguire il mio consiglio. Nella vostra prossima conversazione, con chiunque stiate parlando, usate la parola kiringa. Il vostro interlocutore non la conosce? Voi stessi non sapete che cosa significa? Non importa. Del resto, ufficialmente la parola non esiste; ma qualche modo, vedrete, qualcosa succederà. Ecco, è questo che mi consola. Qui come in Nuova Guinea, nel 1871 come oggi, le parole hanno ancora la forza di smuovere i pensieri, di farci viaggiare. Soprattutto, di suscitare domande.
Perciò, in conclusione, che altro dire?
Via, lo sapete già… non me lo fate ripetere!

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