La Mano Rossa

A Natale ho ricevuto un piccolo rastrello di colore rosso. O forse arancione. In realtà, più che un rastrello, si tratta di un sarchio o di una zappetta. Ma il modo giusto per descriverlo è riconoscere, dietro le dita di ferro, il modello originario della mano umana. Insieme al dono c’era un biglietto con la foto di alcuni profughi: una madre, due bambini, un uomo con la barba. In alto, la parola Betlemme scritta in arabo e in ebraico. Sotto, in grassetto: Still crossing. Più in basso: Everything will be ok, Andrà tutto bene, Tout ira bien, Todo irá bien. Il biglietto non aiuta a capire il rastrello, se non forse come un invito a dissodare la terra, affinché possa attecchire la pace.
Per me la Mano Rossa è simbolo di avventura: ricordo una banda di spietati assassini, nei fumetti di Tex Willer. È anche uno scettro, un bastone magico, un’antenna che capta emozioni. Soprattutto è uno mezzo per favorire la scrittura, sarchiando la terra allo scopo di consentire la circolazione dell’aria e della luce.
Ho tenuto la mano rossa sulla scrivania e, giorno dopo giorno, ho scritto un piccolo diario. Lo potete leggere qui: Diario della Mano Rossa (sono poche pagine). Il mio augurio è che ognuno di noi sappia compiere il gesto primordiale di spezzare la crosta del terreno. Bisogna smuovere le zolle e rompere la durezza dei pregiudizi, delle identità acquisite, perché germoglino incontri, novità, storie inaspettate.
In questo senso, vorrei proporvi di ascoltare Fleurette africaine, un brano inciso il 17 settembre 1962 da Duke Ellington (piano), Charles Mingus (contrabbasso) e Max Roach (batteria). È un incontro inedito (e unico) fra musicisti di generazioni diverse: il grande classico Ellington, nato nel 1899, indiscusso maestro dello swing, l’irregolare Mingus, nato nel 1922 (e già cacciato nel ’53 dall’orchestra di Ellington per avere inseguito il trombonista Juan Tizol con un coltello sul palcoscenico), insieme all’ombroso Max Roach, nato nel 1944 (e passato anche lui dall’orchestra di Ellington nel ’41 per una sostituzione). A quell’epoca Mingus stava lavorando ai suoi più grandi album (Oh Yeah nel ’61, The Black Saint and the Inner Lady nel ’63), mentre Roach aveva pubblicato nel ’60 We Insist! – Freedom Now Suite, una pietra miliare nella protesta contro la segregazione razziale. Tre musicisti, tre percorsi, tre linguaggi… e un brano memorabile.

Fra i musicisti c’è ascolto, c’è grande rispetto, c’è la voglia di mettersi al servizio della musica, ignorando le etichette. Mingus gioca sul vibrato, mentre Roach batte solo sui tom, contribuendo a creare un’atmosfera ipnotica. Al piano Ellington disegna il ritratto di un piccolo fiore che spunta nel folto della giungla, lontano dagli sguardi. La melodia delicata, gli accordi talvolta dissonanti, le contromelodie di Mingus, tutto contribuisce a dispiegare una grazia minuta, apparentemente fragile, ma inestirpabile nella sua gratuità. Anche se non lo vede nessuno, anche se a molti può sembrare inutile, il piccolo fiore – come disse Duke Ellington – cresce ogni giorno più bello.

PS: Il brano
Fleurette africaine, composto dallo stesso Ellington, si trova dall’album Money Jungle (Blue Note 1962). La frase di Ellington proviene dalla sua autobiografia Music is my mistress (1973, tradotta in italiano da Franco Fayenz e Francesco Pacifico nel 2007 per Minimum Fax con il titolo La musica è la mia signora).

PPS: Grazie a Caterina per l’escardilho e per il biglietto.

PPPS: Buon 2018!

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Foulard

In questo periodo mi alzo presto, perché sono in onda il mattino alla radio, e ogni giorno viaggio lungo l’autostrada semideserta da Bellinzona a Lugano. Alle quattro e mezzo del mattino in pianura c’è un banco di nebbia, che si dirada salendo verso il Monte Ceneri. L’altro ieri la nebbia era tanto fitta che si vedeva a malapena un orizzonte di pochi metri, poi la strada spariva in un’incertezza biancastra, dove anche la luce dei fari si smarriva. Ascoltavo una versione di Solitude con l’orchestra di Duke Ellington. Intanto mi chiedevo: e se dall’altra parte fosse tutto diverso? Se questo entrare nel nulla significasse uno slittamento di spazio, di tempo, di vita? M’immaginavo di sbucare dalla galleria e di trovarmi in uno scenario inaspettato: magari trent’anni indietro nel tempo, oppure nel cuore della giungla, o in un mondo dove gli animali parlano e gli uomini tacciono. (In quest’ultimo caso, sarebbe complesso andare in onda alla radio).

Poi, naturalmente, tutto era come doveva essere. Ma l’impressione del passaggio suscitava in me la possibilità di mondi diversi: in fondo è a questo che serve l’immaginazione. Gli universi invisibili, gli universi fantastici hanno una loro funzione: ci aiutano a osservare meglio questo nostro unico vecchio mondo, ci invitano a interrogarlo, a indagarne il mistero.
img_8566Domenica mattina ho vissuto un’esperienza simile. Ero andato a Poschiavo per una lettura (accompagnato dalla musica di Zeno Gabaglio) e sulla via del ritorno abbiamo valicato il passo del Bernina e lo Julier. Salendo sul Bernina, in particolare, il paesaggio si faceva sempre più innevato, e in cima abbiamo provato una sensazione di leggerezza. C’era un lago ghiacciato cosparso di pattinatori che scivolavano avanti e indietro, circondati da uno scenario di montagne abbaglianti sotto il sole. Scendendo, abbiamo perso la neve e siamo rientrati nel solito paesaggio, conservando nella memoria quel silenzio bianco, quel nitore di roccia contro il cielo azzurro.
I molteplici impegni di questi giorni – conferenze, laboratori – riducono talvolta il tempo per la scrittura, ma sono belle occasioni di scambio e d’incontro, sia a Poschiavo, sia a Milano, dove martedì c’era la presentazione dei finalisti al Premio Scerbanenco. Anche questo è stato un momento prezioso, sebbene fossi un po’ stralunato (a causa del risveglio all’alba); essere nella cinquina dei finalisti con L’arte del fallimento è per me un onore, e mi aiuta ad avere fiducia nel mio lavoro.
img_8558Insomma: sono giorni di andirivieni in automobile e di molte parole. Nel frattempo, l’avvicinarsi del Natale moltiplica le cene, gli aperitivi, le riunioni. In questi momenti mi capita di pensare a un vecchio libro natalizio per bambini, in cui si raccontano le avventure di una chiocciola testarda che – pur consapevole della sua lentezza e della sua inadeguatezza ai lunghi viaggi – decide di partire per Betlemme. Lungo la strada fa diversi incontri, viene distratta dalla varietà del mondo, dalle tentazioni. A volte la chiocciola sognava di vivere in un’immensa aiuola di fragole, dove non avrebbe fatto altro che mangiare e dormire tutto il giorno. Ma trova sempre la forza per andare avanti, spinta da una indefinita nostalgia.
Andare avanti. A volte è un gesto difficile, perché la tentazione di indugiare, o di voltarsi indietro, magari sulla scia del sentimentalismo natalizio, prevale sulla naturale curiosità che ci porta a indagare il mondo. Per me il mestiere di scrittore è un modo di avanzare, una tecnica per non smettere di pormi domande. Certo, è inevitabile che la scrittura si mescoli ai piccoli problemi e agli inciampi della quotidianità. In fondo non c’è niente di male. Anzi, è un aiuto a mantenere i piedi per terra e a vivere il lavoro in senso concreto, artigianale.
fullsizerender-2Di recente stavo sfogliando le trascrizioni dei quaderni di Agatha Christie. La scrittrice riempì durante tutta la sua carriera decine e decine di taccuini, dove si trovano annotazioni, progetti per romanzi e drammi teatrali, ma anche appunti pratici. È particolarmente affascinante la pagina in cui, insieme a una serie di spunti narrativi, ci sono alcuni promemoria per i regali di Natale. Una freccetta avvelenata e una cerbottana trovano posto insieme all’idea di regalare un cane al cognato Jack, un portamenù (qualunque cosa esso sia) a una certa signora E., una borsa e un foulard a Barbara e una cintura a Joan. Due righe sotto, Poirot riceve una lettera da un apparente psicopatico.
img_8564La piccola chiocciola e Agatha Christie in questo hanno un atteggiamento mentale simile: accettano le divagazioni, le distrazioni inevitabili del cammino, con le sue asperità e le sue dolcezze, ma non dimenticano il progetto finale, l’obiettivo del viaggio o del lavoro narrativo. Anche questo ci insegna la scrittura: quando si parte, è necessaria una meta. Poi, lungo la strada, è bello improvvisare.
Proprio ora, improvvisando, la nebbia e i foulard mi fanno venire in mente una vecchia canzone di Paolo Conte, in cui parla di certi gatti o certi uomini, / svaniti in una nebbia o in una tappezzeria. Intanto per piazze e ponti ognuno se ne va, / e se tu vuoi, li puoi vedere laggiù, danzanti, / che più che gente sembrano foulards…

PS: Il lungo viaggio verso Betlemme, scritto da Annegert Fuchshuber, è stato pubblicato in italiano da Elle Di Ci (purtroppo la pagina con i dettagli della pubblicazione è andata persa: credo che risalga agli anni Settanta). Solitude è una canzone scritta da Duke Ellington in venti minuti, appoggiato alla vetrata dello studio, a sentire quanto racconta lui stesso nella sua autobiografia Music is my mistress (uscita nel 1973; pubblicata da Minimum fax con il titolo La musica è la mia signora nel 2007 e poi nel 2014). La versione che ascoltavo in macchina è quella che ho inserito qui: è stata registrata a New York nel 1957 (la trovate in The complete Ellington indigos, Phoenix 2003). Madeleine proviene dall’album Paris Milonga del 1981; la versione che ho messo qui è stata registrata dal vivo all’Arena di Verona nel 2005. I taccuini di Agatha Christie sono stati pubblicati a cura di John Curran nel 2009 (in italiano: I quaderni segreti di Agatha Christie, Mondadori 2010).

PPS: Approfitto di questo spazio per ringraziare la giuria del Premio Scerbanenco e tutte le lettrici e i lettori che hanno votato per L’arte del fallimento, consentendogli di entrare nella cinquina. Anche Elia Contini, se non fosse l’uomo scorbutico che è, vi ringrazierebbe personalmente, inviandovi una lettera da Corvesco… Grazie pure a Josy Battaglia, a Simone Pellicioli e a tutte le persone che hanno accolto me e Zeno Gabaglio a Poschiavo: è stata una serata speciale. Un pensiero anche al Centro culturale della Svizzera italiana, che ha organizzato la conferenza di lunedì, insieme al pubblico che mi ha ascoltato con pazienza, nonostante la mia stanchezza. Infine, grazie a Eloisa per la piccola chiocciola.

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In a sentimental mood

In febbraio uscirà per l’editore Guanda il mio nuovo romanzo, L’arte del fallimento.
Ecco un assaggio. È un brano dal capitolo 34 (intitolato “Paura”).

Dicono che Duke Ellington abbia scritto In a sentimental mood per sedare un litigio fra due ragazze. Pare che si sia messo al pianoforte e abbia lasciato parlare la musica. Mario non sapeva se fosse vero, ma di certo per lui quella canzone aveva un potere magico. Soprattutto nella versione incisa da Ellington e Coltrane all’inizio degli anni ’60.
Era una medicina: un toccasana da prendere la sera, dopo lo stress di una lunga giornata. Mario, sprofondato nella sua poltrona di pelle con un bicchiere di vino, sentiva placarsi il litigio anche dentro di lui, sentiva che le due ragazze alla fine si sorridevano e si stringevano la mano. Almeno fino al prossimo round.
Il giro ipnotico di piano, i piatti sullo sfondo, le sette note fino a quel mi alto prolungato, dal colore blu… perché stavolta non funzionava?

Magari, leggendo il romanzo, qualcuno farà una pausa per ascoltare il brano amato da Mario.

È un’incisione memorabile, anche perché in teoria Ellington e Coltrane appartenevano a generazioni e a mondi diversi: tradizionale e rassicurante il primo, sperimentatore e moderno il secondo. Invece no. Sentite, in questo primo e ultimo incontro fra i due, com’è tranquilla e rilassata l’atmosfera. Tranquilla, ma non piatta: c’è (paradossalmente, direbbero gli esperti) un soffio di inquietudine nel pianoforte di Ellington e molta dolcezza nel suono serio di Coltrane. L’amore per la musica, e per la bellezza, supera ogni steccato di genere.

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