Nebbia e circo

Alcuni libri, letti durante l’infanzia, si fissano nella memoria. Le parole e le immagini mettono radici dentro di noi, e anni dopo le ritroviamo mescolate agli altri ricordi, tanto che quasi non distinguiamo più ciò che abbiamo vissuto da ciò che abbiamo letto. In fondo, questo è il senso della letteratura: aumentare la vita. L’immaginazione ci rende più consapevoli di noi stessi, tiene deste le domande sul mondo, ci rammenta che ogni realtà visibile poggia su fondamenti invisibili. Proprio per verificare i fondamenti, è opportuno qualche volta tornare alle storie che ci meravigliavano da bambini.
Ogni anno, in novembre, rileggo una storia di Bruno Munari: Nella nebbia di Milano, Corraini Editore (prima edizione 1968; ristampato parecchie volte, l’ultima nel 2013). È una passeggiata nella grande città immersa nella nebbia, con il richiamo delle luci di un circo, l’incanto dello spettacolo e infine il ritorno a casa attraversando il parco. L’autore, com’è nel suo stile, trasforma il libro in un oggetto dinamico, per mezzo di illustrazioni, pagine trasparenti, sovrapposizioni e ritagli che creano connessioni segrete. Il fascino di quest’opera consiste soprattutto nell’atmosfera, che si diffonde grazie a due elementi in apparenza diversi, ma intimamente legati: la nebbia e il circo.
Fin da bambino amo sia la nebbia, sia il circo. Anzi, per me il circo è un evento luminoso che si manifesta proprio durante l’inverno, con la musica dell’organetto di Barberia che si diffonde nel buio, con quell’odore di popcorn e di segatura, di zucchero filato e di cavalli. Ogni anno, ancora oggi, assisto allo spettacolo del Circo Knie a Bellinzona. Certo, lo stupore non è più quello assoluto dell’infanzia, ma quando varco la soglia del tendone avviene uno sfasamento temporale. È come se per un istante mi fossero restituite le sensazioni di quel bambino dai capelli biondi, sbalordito dai riflettori e dall’ampiezza dell’arena. Oggi il bambino non esiste più – cioè, ormai sono diventato io, con il mio strascico di esperienze e disillusioni. Ma è davvero così?
Forse acrobati e pagliacci resistono anche per questo, per congiungere epoche lontane con il linguaggio delle pantomime, del salto mortale e dei volti truccati, con quello struggimento dolceamaro che sempre il circo porta con sé. È un mondo nomade, che arriva e riparte, che appartiene a tutti i luoghi e a tutte le età, senza mai radicarsi veramente. Così annotava nel 1939 Tristan Rémy, uno dei più grandi critici circensi: Nella grande famiglia errante dei tendoni, delle carovane e dei transatlantici, si preparano nuove meraviglie, nuovi misteri si compiono, la fantasia prepara nuove forme. Il circo non è un museo. Gli artisti viaggianti non sono manichini. Vivono. E vivere è, per loro come per tutti, sorpassare sé stessi, sorpassarsi ancora.
Lo spettacolo di quest’anno miscelava alcuni grandi classici (la “posta ungherese” di Ivan Frédéric Knie o il numero indiavolato del giocoliere Michael Ferreri) con qualche novità soprattutto nel campo delle acrobazie (penso in particolare ai lazos della Xinjiang Troupe). Per quanto riguarda i clown, l’attrazione dello spettacolo era l’artista ungherese Semen Shuster, conosciuto come Housch-ma-Housch. Sia lui sia l’altro comico presente – il portoghese Cesar Dias – hanno fatto un largo uso degli effetti sonori ottenuti con il microfono. Entrambi mi sono parsi di buon livello, sebbene con una tendenza forse eccessiva a coinvolgere direttamente il pubblico.
Uno dei momenti più intensi è stato il finale, prima della chiusura del sipario. Gli spettatori seduti dietro di me se n’erano già andati, presi dalla frenesia di raggiungere il più presto possibile la loro automobile; altri si stavano alzando. Housch-ma-Housch è tornato in scena con un foglio, dal quale ha letto un breve messaggio di ringraziamento nel suo gergo caratteristico. Poi ha girato il foglio, che era bianco e vuoto, e ha proseguito il discorso. Infine ha spezzato il foglio e, aguzzando lo sguardo, ha continuato a leggere di profilo. Ecco una cosa alla quale non avevo mai pensato: la pagina bianca non è soltanto fronte e retro; anche nel taglio si celano parole minuscole, quasi inafferrabili.
Come scrittore, questa piccola rivelazione circense mi ha fatto riflettere. Da dove arrivano le storie? Credo che le parole trovate non corrispondano mai precisamente a quelle che si cercavano: il senso profondo di un testo, per fortuna, supera sempre le intenzioni dell’autore. Le parole più preziose sono quelle che non aspettavamo, quelle che sono apparse nel taglio nascosto della storia. L’atto del narrare dischiude mondi sconosciuti al narratore stesso: i personaggi si manifestano lentamente, dapprima incorporei e poi sempre più vivi, così come – nel testo di Bruno Munari – la nebbia diventa sempre più colorata man mano che ci avviciniamo alle luci rosse e gialle del Gran Circo.

PS: Da bambino, nel libro di Munari a colpirmi non erano tanto i colori del circo, quanto gli autobus che mescolano lentamente la nebbia dei vari quartieri. Era l’attesa prima dello spettacolo, la sospensione narrativa: nella nebbia di Milano anche i gatti vanno a passo d’uomo. E il ritorno a casa non è un banale ritorno alla normalità: dopo l’incontro con la realtà irreale del circo, anche i viali del parco sembrano avvolti in un prodigio. D’inverno la natura dorme e quando sogna appare la nebbia. Camminare dentro la nebbia è come curiosare nel sogno della natura: gli uccelli fanno voli corti per non perdere l’orientamento, scompaiono i segnali e i divieti nelle strade, i veicoli vanno piano e si fa appena in tempo a riconoscerli che spariscono.

PPS: Le parole di Tristan Rémy provengono dal saggio Le cirque, uscito sul primo numero del mensile Mieux Vivre (gennaio 1939); in italiano, si può leggere tradotto da Luana Savarani per l’antologia Tornano i clown (Medusa 2017). Anche le due fotografie in bianco e nero provengono dal saggio di Rémy (la prima s’intitola Equilibrio, la seconda Intervallo).


PPPS: Per approfondire i contenuti dello spettacolo, e per vedere le fotografie del circo a Bellinzona, consiglio di visitare il blog specialistico https://solocirco.blogspot.ch. È meticolosamente aggiornato e curato con passione. (Questa estate, sono usciti anche degli interessanti reportage sui grandi clown.)

 

Condividi il post

La terrazza a vela

Un passero saltellava tra i merli del castello. / Nel cantiere vicino, una gru girò lentamente / e poi volò via. Quando mi sono imbattuto in questa breve poesia di Bruno Munari, ho sentito distintamente una specie di sssquish… è il suono che fa il mondo di ogni giorno quando, per un istante, un altro mondo si sovrappone, più impalpabile, più strano. È vero che spesso il mondo ci sembra uno, soltanto uno, inesorabilmente. Ma allora com’è possibile che ci siano merli e merli, una gru e un’altra gru?
Un’amica mi ha inviato una vignetta di Schulz in cui Charlie Brown, sentendosi molto giù, chiede alla perfida Lucy – nelle vesti di psichiatra – che cosa si possa fare quando non ci si sente a posto, quando la vita sembra tagliarti fuori. Lucy lo porta in cima alla collina e gli dice: Vedi l’orizzonte laggiù? Vedi quanto è grande questo mondo? Vedi quanto spazio c’è per tutti? Poi, dopo una pausa: Hai mai visto degli altri mondi? No, risponde Charlie Brown. E Lucy: Per quello che ne sai, questo è l’unico mondo che c’è, giusto? Charlie Brown: Giusto. Lucy: Non hai altri mondi in cui vivere… giusto? Charlie Brown: Giusto. Lucy: Sei nato per vivere in questo mondo… giusto? Charlie Brown: Giusto. Allora Lucy grida la sua risposta a squarciagola, come solo lei sa fare, facendo ruzzolare il povero Charlie Brown: BE’, ALLORA VIVICI! Alla fine, da brava psichiatra, Lucy esige da Charlie Brown cinque cents di compenso. Ma ha davvero ragione? Siamo davvero confinati nel mondo che riusciamo ad avvistare dalla collina, per quanto alta sia la nostra personale collina e per quanto poderosa sia la nostra vista?
Ogni atto creativo consiste nella ricerca di un altro mondo. Questo vale per chi racconta una storia, ma anche per chi dipinge, per chi compone una musica, per chi s’impegni in qualsiasi gesto artistico o scientifico (penso ai matematici, agli inventori). Non solo. Credo che la tensione verso altri mondi si manifesti pure in quei momenti in cui il pensiero scava nella profondità della nostra anima, cercando di capire chi siamo, oppure si rivolge con empatia e immaginazione verso gli altri, per comprenderli, per partecipare alla loro vita. Ogni innamoramento è creativo, ed è la ricerca di un altro mondo. Ogni attimo di felicità o di tristezza affina la nostra percezione: ci permette di udire l’eco di uno sssquish e d’intravedere il balenio degli universi che si affollano, invisibili, intorno alla nostra collina.
Certo, questi sbalzi sono pericolosi. Possono suscitare un sentimento di sentirsi-tagliato-fuori, come accade a Charlie Brown; o peggio ancora, possono indurre uno stato di schizofrenia, di alienazione, di depressione. Credo che la saggezza sia trovare l’equilibrio fra il qui e l’altrove, senza cancellare nessuno dei due poli. Non è facile, però. Nel momento in cui avvertiamo gli altri mondi, smettiamo di sentirci al sicuro. A volte per fortuna tutto si risolve con un sorriso, come nella poesia di Bruno Munari. A volte, addirittura, lo sssquish consente di trasformare con la fantasia gli oggetti comuni che abbiamo intorno.
Per esempio, conosco una casa che ha una terrazza di legno proprio davanti alla porta. Per evitare di sedersi a picco sotto il sole, è possibile coprire la terrazza con un telo di colore bianco. Sarà per la posizione, in alto sopra una valle, sarà per i pali che ricordano gli alberi di una barca, sarà per il telo che sembra una vela… insomma, certe volte – in piedi sulla terrazza – ho la sensazione di stare sulla prua di una nave: invece di prati, contemplo oceani. L’effetto aumenta nelle giornate di vento, quando la vela si gonfia e i cavi, tendendosi, emettono lo stesso cigolio che udivano i marinai di Cristoforo Colombo, di Magellano, di Vasco da Gama. Allora, per qualche secondo, mi sembra di sentire muoversi sotto di me le assi di legno, mentre il sole che scintilla sui vetri delle automobili diventa un riflesso di luce sulla cresta delle onde.


Non vorrei ridurre la percezione di un altrove a una sorta di gioco. Ma è vero che, insieme al pericolo dell’alienazione, la creatività (ossia la tensione verso altri mondi) porta con sé un aspetto ludico. Direi che in questo caso la metafora del viaggio funziona bene: viaggiare è svelare altri mondi, anche restando fermi. Diceva la scrittrice Cristina Campo che percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E aggiungeva: ma che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?

PS: La poesia di Munari si trova in Verbale scritto (Corraini 2008; prima edizione Il Melangolo 1992). La frase di Campo proviene dal saggio Una rosa, in Gli imperdonabili (Adelphi 2008). La vignetta di Schulz l’ho ricevuta con un messaggio, quindi non saprei indicarne di preciso la fonte (ma di sicuro c’è qualche possibilità di trovarla sfogliando quest’opera in dodici volumi: Charles Schulz, Snoopy e la sua gang. Tutte le strisce dei Peanuts 1960-2000, Mondadori 2007). La canzone di Francesco De Gregori, un buon accompagnamento per ogni tipo di viaggio, è tratta dall’album Viva l’Italia (RCA 1979).

Condividi il post

Capodanno

Le cose finiscono. E ci sentiamo soli. Le persone, l’amore, l’anno vecchio, tutto si allontana da noi. Ma dopo un po’, con la precisione di una rima in una filastrocca, le cose tornano. Non sempre, però certe volte lo fanno. Magari in maniera misteriosa, magari non ce ne accorgiamo. Per restare attenti al ritorno di ciò che amiamo, e per festeggiare Capodanno, ecco un mazzo di rime firmate da Gianni Rodari e colorate da un disegno di Bruno Munari.
image1(Qui la versione in PDF)

Insieme alle rime, ecco un po’ di musica. Una canzone scritta da Frank Loesser nel 1947 e incisa da una quantità di musicisti (specialmente nei loro album natalizi). Il titolo: What are you doing new year’s eve. Questa è la versione di King Curtis, un robusto sassofonista nato in Texas nel 1934 e morto accoltellato a New York nel 1971. L’incisione risale al 1968. Il sax è come un pianto, però a un certo punto, fra una nota lamentosa e l’altra, c’è anche un brivido di allegria. Buon 2016!

PS: Ho preso “Capodanno” da Filastrocche in cielo e in terra (Einaudi), con i testi di Rodari e i disegni di Munari. Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1960.

Condividi il post