Migranti

La settimana scorsa ho partecipato a una lettura pubblica, insieme ad altri quattro autori. L’idea era coraggiosa: per una volta, gli scrittori non avrebbero parlato di loro stessi, ma si sarebbero presentati prima di tutto come lettori. Questo dovrebbe essere scontato: ogni autore è la punta di un iceberg, fatto al novanta per cento di lettura (perché possa affiorare il dieci per cento della scrittura). Purtroppo, però, la tentazione di mettere sé stessi davanti alla propria opera è sempre viva, e talvolta le presentazioni di libri risultano un lungo itinerario all’interno di vasti e frastagliati ego.
image2In questo caso è andata bene. Con me c’erano Francesca Matteoni, Marco SimonelliYari Bernasconi e Tommaso Soldini. Le letture giravano intorno al tema della migrazione. La sfida: arrivare all’attualità senza fare del giornalismo, ma a partire da una prospettiva letteraria.
Sono anch’io un migrante. Siamo tutti migranti, questa è la verità. Lo siamo da sempre, inevitabilmente. È la condizione degli esseri umani sulla terra: siamo incalzati dalle nostre paure e dai nostri desideri. C’è chi fugge da paesi sconvolti, chi cerca qualcosa da mangiare, chi insegue l’avventura. E c’è chi resta fermo, ma esplora continenti con il pensiero, con le parole. Perché anche le parole, sepolte dentro di noi, non sanno star ferme: vogliono uscire, viaggiare, conoscere tutto ciò che è diverso.
A parte questa condizione esistenziale, dietro ognuno di noi c’è una migrazione concreta: in una certa epoca qualcuno è partito da casa, ha mutato paesaggio e condizioni di vita. Era nostra madre, o nostro nonno, magari un lontano e primitivo antenato. Ma siatene certi: qualcuno prima o poi si è mosso.
Copia di FullSizeRenderDi recente ho avuto modo di riflettere sul mio bisnonno Benvenuto Fazioli, che partì da Cremona per andare in Svizzera; ne ho parlato qui. Questa memoria migratoria riempie anche la mia scrittura. Mi ricorda che si può appartenere a un luogo che non si conosce; anche perché, a pensarci bene, non esiste un’appartenenza geografica definitiva. Per carattere ho sempre avuto un fondo inestirpabile d’inquietudine – tenuto a bada da un’impassibilità di facciata – che mi porta a usare la letteratura soprattutto come strumento di ricerca.
Per queste ragioni ho deciso di proporre l’inizio del poema La camera da letto, scritto da Attilio Bertolucci nel 1988 (lo trovate pubblicato da Garzanti o nelle Opere edite da Mondadori). Si tratta di un romanzo in versi, nel quale Bertolucci ripercorre la storia della sua famiglia, indagando con minuzia le sfumature della vita quotidiana. Proprio perché gli eventi minimi di ogni giorno abbiano un senso, con le loro luci e le loro ombre, è necessario situarli nel contesto. Perciò Bertolucci, all’inizio del poema, rintraccia l’origine della sua famiglia: uomini e cavalli che emigrano dalla Maremma e percorrono le valli dell’Appennino fino a Casarola. La storia che il poeta aveva sentito raccontare da bambino diventa una narrazione epica. Anche dietro la famiglia, che mira alla stabilità, c’è il mito fondante di una migrazione.
BERTOLUCCI

BERTOLUCCI1

BERTOLUCCI2(Le pagine in pdf, per chi non vedesse bene le immagini: 1, 2 e 3).

È solo una parte del primo capitolo: mi sono fermato al verso che si chiude con le parole cenere propizia, per ragioni di tempo e anche perché mi pareva un’espressione significativa; il resto lo lascio scoprire a voi. Quell’accendersi di sguardi fra il timore e la speranza, quell’ondularsi di prospettive inedite si cela anche nella mia storia, così come quei movimenti fra cronaca e fantasticheria (non a caso fissati nell’immagine ricorrente delle nuvole).
FullSizeRenderBertolucci trova una migrazione nella sua vicenda intima, e questo gli permette di capire meglio pure lo spazio circoscritto, ma universale, della camera da letto. Penso che un lavoro del genere sia necessario anche quando si affronta il tema delle migrazioni attuali, con il loro carico di tragedie. Non entro nello specifico delle questioni politiche. A me compete il lavoro di uno scrittore, e cioè aprire spazi nell’immaginario. Qualunque posizione vogliamo assumere, lo faremo con cognizione di causa se saremo stati capaci di essere migranti, di esserlo compiutamente, grazie al sentire profondo della poesia. Ecco perché pure nell’ambito politico la cultura mi pare necessaria (o almeno utile): quando si parla, o quando si scrive, il fatto stesso di rivolgerci a qualcuno ci pone dentro un orizzonte umano più vasto di ciò che stiamo dicendo.
Anche se non abbiamo fame, anche se non abbiamo freddo, restiamo migranti. E come tali, siamo vicini a tutti i migranti di oggi e di ieri, a quelli che fuggono per disperazione e a quelli che cercano una vita migliore. Lo dice bene Jacques Sternberg in un suo fulminante raccontino intitolato Equilibrio.
Allora, nella notte dei tempi, il primo uomo pensante uscì dal suo antro, contemplò il grandioso paesaggio che lo circondava e credette di sentire affiorare in lui il bisogno confuso, ma lancinante, di qualcos’altro.
Allora, questo mattino di primavera, il direttore di una banca uscì dalla sua villa, contemplò la sua giornata ben riempita e credette di sentire dentro di lui il bisogno confuso, pernicioso, di qualcos’altro.
Ma di cosa? Di cosa?

PS: Per ragioni di spazio, mi sono soffermato soltanto su Bertolucci. Ma vi consiglio di leggervi, o di rileggervi, anche i testi presentati dagli altri autori. Insieme, formano un percorso che nei giorni scorsi mi ha offerto molti spunti di riflessione. Yari Bernasconi ha letto Furore di John Steinbeck (capitolo 21); Francesca Matteoni, Vita del lappone di Johan Turi (Adelphi, pagine 26-29); Marco Simonelli, la poesia Il Mare Adriatico di Alba Donati; Tommaso Soldini, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (Einaudi, pagine 56-60). Mi rendo conto che sarebbe più comodo trovare tutto qui nel blog… ma in un certo senso, uscire a cercare i testi è già un principio di migrazione.

PPS: Il racconto di Sternberg proviene da 188 contes à régler, pubblicato da Gallimard nel 1988.

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