L’arte di raccogliere ciottoli

Anni fa avevo letto in un libro la storia del ciottolo di Makapansgat. Mi ero procurato un’immagine della pietra e l’avevo salvata nel mio telefono. In seguito ho dimenticato sia il titolo del libro, sia la storia del ciottolo. Due giorni fa, cercando un’altra foto, ho ritrovato per caso l’immagine: un sasso che assomiglia a un volto umano, con dei solchi per gli occhi e la bocca.
Ho fatto qualche ricerca e ho letto – riletto, ma era come se fosse la prima volta – che la pietra risale a 2.95 milioni di anni fa ed è stata trovata in una grotta a Makapansgat, in Sudafrica Si tratta di un diaspro di colore rosso-brunastro. Accanto al ciottolo c’erano dei resti di Australopithecus africanus. Il materiale di cui è composta la pietra non proviene dai dintorni: qualcuno deve averla raccolta altrove e portata con sé.
Che cosa spinse quell’ominide a trascinarsi dietro il ciottolo per molti chilometri? Non è difficile capirlo: anche a me piace raccogliere sassi, tanto più se ne trovo uno che assomiglia a una faccia. Ma io vivo all’inizio del Ventunesimo secolo e sono abituato ad attribuire un valore simbolico agli oggetti. Per arrivare a me il percorso è stato lungo: gli antenati degli esseri umani impararono lentamente che le cose potevano assomigliare ad altre cose. È quello che succede ai bambini, quando riconoscono nei nostri disegni stilizzati un uomo, una donna, una casa, un gatto.

Il ciottolo di Makapansgat è un oggetto artistico, forse il primo in assoluto. Non è stato creato da un essere umano, poiché la sua origine è naturale. Ma una persona l’ha visto, l’ha afferrato. Immagino la sua meraviglia. Non ha nemmeno potuto indicarlo a qualcuno ed esclamare “ehi, guarda, sembra la tua faccia!”, perché ancora non si era sviluppato il linguaggio. Sono convinto però che l’avrà mostrato con fierezza ai membri del proprio clan. E gli altri l’avranno ammirato a bocca aperta. Forse qualcuno avrà scosso il capo, pensando che raccattare sassi fosse una perdita di tempo. Ancora oggi c’è gente che la pensa così.
Quando ci penso, quel gesto mi commuove. Il ciottolo venne raccolto quando gli ominidi ancora non sapevano costruire utensili in pietra, più di un milione di anni prima che imparassero a controllare il fuoco. Le manifestazioni artistiche dirette, come le incisioni rupestri, sarebbero arrivate centinaia di migliaia di anni più tardi. Gli scienziati discutono sulla reale portata di quell’azione, ma non voglio addentrarmi nella diatriba. Per me oggi basta questo: riconoscere il proprio volto nelle cose del mondo, senza costruire o modificare niente, è l’inizio di ogni storia. Tutta l’arte, tutta la letteratura nacque nel momento in cui un ominide tirò su una pietra e se la mise in tasca (in una proto-tasca), proprio dove noi teniamo il telefono e il portafogli. Mi piace immaginare che fosse un luminoso mattino di primavera.
Come sempre, in occasione del mio compleanno, mi trovo a riflettere su di me, sul mio mestiere. Credo che il ciottolo di Makapansgat sia una sorta di manifesto anche per un narratore. Le storie non si traggono dal nulla, ma esistono già: bisogna solo raccoglierle da terra. La poesia non è un’invenzione, ma un riconoscimento. Questo mi aiuta nei momenti in cui mi chiedo che cosa fare, che direzione dare alla mia scrittura, come lavorare a un testo. Nella pratica quotidiana, anno dopo anno, mi rendo conto che non si tratta di affermare la mia personalità, bensì di lasciare spazio al mondo, perché esso si rifletta nelle mie parole.
Chissà, forse la prima volta in cui mi capitò di leggere la storia del ciottolo avevo sviluppato dei pensieri simili. In ogni caso, poi ho dimenticato tutto finché lunedì scorso, passeggiando fra le fotografie conservate nel mio telefono, ho raccolto il ciottolo un’altra volta. Anche questo mi conforta: dimenticare le cose non è per forza un male, anzi, può essere un’opportunità per continuare a riscoprirle.
Per fortuna, là fuori l’universo è pieno di ciottoli.

PS: Negli ultimi mesi scrivo poco in questo blog. Non so nemmeno il perché. In generale, faccio fatica a usare anche i social network e le forme di comunicazione immediata. Credo tuttavia che sia giusto fare uno sforzo per proseguire anche questo tipo di scrittura, insieme a quella più lenta e più meditata delle mie pubblicazioni “ufficiali”. Quindi, tornerò a farmi vivo, presto o tardi…
Intanto, per chi segue ogni tanto anche il blog, voglio festeggiare il compleanno con un breve inedito, come vuole la tradizione. S’intitola Pensieri dell’ingorgo.

Leggi Pensieri dell’ingorgo

(Il testo è già stato pubblicato in un volume a tiratura limitata, un omaggio a più voci al poeta Alberto Nessi: AAVV, Rampe di lancio doganieri nuvole, Omaggio ad Alberto Nessi, a cura della Casa della letteratura per la Svizzera italiana, Bellinzona, Edizioni sottoscala, 2020.)

Condividi il post

Greina

Ecco la domanda: chi siamo noi, davvero? Dove passa il confine fra noi-stessi-ma-proprio-noi e ciò-che-ci-siamo-o-che-ci-hanno-cucito-addosso? A voler essere precisi, bisognerebbe rispondere come Giobbe: nudi siamo usciti dal ventre di nostra madre, nudi ritorneremo nel ventre della terra. Il resto è solo, come dire, un intermezzo. Ma è un intermezzo pieno di case, famiglie, passaporti, tatuaggi, pranzi della domenica, autobus, banconote e altri vestiti più o meno eleganti, che velano la primordiale nudità.
Quando scrivo un romanzo, cerco di prestare attenzione ai dettagli. Ma soprattutto mi sforzo di cogliere quello che Simenon chiamava l’homme tout nu, l’uomo nudo, nella sua natura essenziale. La difficoltà consiste nell’usare i dettagli concreti della storia come un mezzo e non come un fine. In che modo conservare questa schiettezza narrativa? Spesso alcuni gesti in apparenza semplici, come quello di camminare, mi aiutano a riordinare i pensieri.
Il pianoro della Greina si trova fra le montagne a nord della Svizzera italiana. Da migliaia di anni è un valico per chi viaggia attraverso le Alpi. Oggi il Passo della Greina, a 2362 metri sul livello del mare, segna il confine fra due Cantoni elvetici: Ticino e Grigioni. Ma è proprio l’idea di “confine” a diventare labile quando ci si trova lassù, nella vastità dell’altopiano in cui sole, vento e acqua discutono fra loro con parole nate prima di ogni linguaggio. Che senso ha distinguere una nazione dall’altra? Ci affanniamo a litigare su “cittadinanza”, “identità”, “tradizioni storiche”, “valori nazionali”, “patria”, “politiche migratorie”, “istituzioni”… e trecento milioni di anni fa qui c’era soltanto acqua. Un mare calmo, tropicale. Un moto di onde senza frontiere, incessante, sempre uguale a sé stesso. Camminando per la Greina, la vertigine non è data dall’altezza, ma dal tempo: ogni passo segna il trascorrere dei millenni. Da uno strato roccioso all’altro, si misura l’ampiezza e la lentezza dei movimenti che hanno creato il suolo, quello stesso suolo che ci pare immutabile e che possiamo misurare, ma non veramente possedere.
A nord c’è lo gneiss occhiadino, che è una roccia metamorfica. Il gruppo del Piz Medel, del Valdraus e del Gaglianera risale all’era paleozoica, circa trecento milioni d’anni fa. La tonalità di fondo è grigiastra, rischiarata dal verde dell’erba e del muschio. Poche centinaia di metri più a sud, prevale il giallo delle dolomie, con le striature rossastre del magnesio: sono rocce sedimentarie del Triassico, nate circa duecento milioni di anni fa. Ancora più a sud, si trovano i calcescisti e gli argilloscisti: dal Piz Coroi al Piz Terri, sono ammassi giganteschi di rocce nere. Le montagne si formarono dall’accumulo di sabbia, giù nelle profondità del mare, dove si posavano i sedimenti minuscoli portati dai fiumi. Durante il Giurassico e il Cretaceo, dai centottanta agli ottanta milioni di anni fa, la materia organica si trasformò in grafite; oggi, nelle giornate di sole, brilla come uno specchio.
Proprio questo è la Greina: uno specchio. Il mutare del tempo diviene la consistenza stessa del paesaggio. Mi sposto dal nero al giallo fino al grigio – nell’ampio silenzio interrotto dal frusciare dei torrenti e dal fischio delle marmotte – e penso che sto viaggiando verso il passato. Tutto pare immobile, ma i moti convettivi che crearono queste valli e queste montagne stanno ancora lavorando, proprio nel ventre della terra. Anche se non sembra, ogni cosa lentamente cambia. Nella desolazione spiccano i movimenti minimi: il fremito di un girino dentro una pozza, il ciondolio di una vacca al pascolo, il guizzo di uno stambecco fra gli spunzoni di roccia. Anche i miei gesti mi sembrano più netti, come se lasciassero un’eco visuale nello spazio: bere un sorso d’acqua, appoggiare il bastone, aggiustare il cappello. Ogni azione elementare, per effetto del paesaggio, acquista una densità, un senso compiuto e misterioso.
Come tutti gli specchi, infatti, la Greina conserva qualcosa di segreto. Lo scrittore olandese Cees Nooteboom annotava: C’è qualcosa di misterioso nel fatto che i paesaggi, che in definitiva non sono responsabili della tua esistenza, che in ogni caso non hanno nulla a che farci e che sicuramente non se ne curano affatto, ciò nonostante esprimano qualcosa di quello che provi perché se così non fosse non proveresti nulla per quello che vedi. I paesaggi, visti o immaginati, restano dentro di me, riflettono un’immagine di ciò che sono e mi sorprendono a mezza costa fra il passato e il futuro, incerto, inquieto come sempre. Sulla Greina affiorano sorgenti che scendono nel Reno e poi nel Mare del Nord, da una parte, e che dall’altra giungono fino al Po e al Mediterraneo. Essere qui è essere altrove, in una vicissitudine spazio-temporale che mi comprende e che mi sovrasta. Risalgo la parete di un canyon, passo accanto agli archi e ai monoliti della dolomia. Poi supero le doline erbose, avanzo fra i meandri del fiume, nella pianura alluvionale.
L’aria è fredda, sale la nebbia. Comincia a piovere. Mi sembra che potrei camminare per sempre lungo questo frammento di tundra. Così in alto, dentro questo vuoto, la vita e la morte si mostrano per quello che sono: inesorabili. Animali e piante si adattano, per sopravvivere si aggrappano con tenacia a ogni espediente, a ogni spiraglio. E noi esseri umani, che pensiamo di possedere le cose, non lottiamo forse allo stesso modo? Con la differenza che a noi non basta essere dentro un paesaggio, ma vogliamo trovare noi-stessi-ma-proprio-noi, vogliamo indagare le ragioni del nostro vivere e del nostro morire. Anche i protagonisti delle mie storie, dentro il fluire delle vicende quotidiane, devono fare i conti con la loro intrinseca nudità. Mentre mi avvolgo nel mantello, sotto la pioggia leggera nel cuore dell’altopiano, mi vengono in mente i miei personaggi. È tutto qui: la vita e la morte. Ed è il riassunto di ogni storia, dal principio del mondo fino a questo giorno di metà settembre.

PS: La frase di Giobbe proviene dal libro omonimo della Bibbia (Gb 1, 21). Il riferimento di Simenon all’homme tout nu si trova in parecchi testi o interviste; per esempio nella conferenza Le romancier, tenuta a New York nel 1945: Je me rapprochais de l’homme, de l’homme tout nu, de l’homme en tête à tête avec son destin qui est, je pense, le ressort suprême du roman. Il testo completo si trova in L’Âge du roman (Complexe 1988). Le parole di Cees Nooteboom risalgono al 1981 e sono tratte da Voorbije passages (De Arbeiderspapers, Amsterdam 1989). In italiano, tradotte da Fulvio Ferrari e Marco Agosta, sono citate in Cees Nooteboom, Avevo mille vite e ne ho presa una sola (Iperborea 2011).

                                         

PPS: Grazie a Paolo per la documentazione e per alcune delle fotografie che illustrano questo articolo; ma soprattutto, grazie per avermi fatto da guida. (A proposito: lo gneiss occhiadino, che ho citato sopra, si chiama così per il feldspato plagioclasio, di colore bianco, che forma quasi degli occhi all’interno delle rocce). Un ringraziamento ai gestori della Capanna Scaletta per l’ottimo vitto e per la gentile accoglienza.

PPPS: La regione della Greina è un altopiano lungo circa sei chilometri e largo uno. Si allunga in tre direzioni: a est il Plaun la Greina, a sud l’Alpe di Motterascio e a ovest il Piano della Greina. Al centro di questa area, su un grande masso, è stata infissa una croce di ferro battuto: è il Cap la Crusc (il sasso della croce).

Condividi il post

Appunti sui falò (e la luna)

Nei giorni scorsi mi è capitato di trovarmi davanti a un falò sotto la luna. Tutto era com’è da sempre, fin dalla preistoria. Il buio dei prati e dei boschi, il profilo severo delle montagne. Ombre di uomini. Crepitio di fiamme. Voci di bambini spaventati. E insieme tutto era nuovo: telefoni protesi a filmare lo spettacolo, automobili parcheggiate lungo la strada, famiglie di villeggianti salite a prendere il fresco fra una vacanza al mare e il ritorno al lavoro nelle città riarse.
Dopo aver scattato anch’io la mia brava foto, ho ripensato a La luna e i falò, il romanzo scritto da Cesare Pavese tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949 (e pubblicato da Einaudi nell’aprile del 1950). A un certo punto il protagonista, tornato dall’America nelle Langhe del Piemonte, discute della luna e dei falò con l’amico d’infanzia rimasto al paese. Nuto, l’amico, non ha dubbi: i falò svegliano la terra, e anche nella luna bisogna crederci per forza. Piano piano anche il protagonista comincia a sentire il richiamo delle origini. “Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano”. […] Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo più di saperla.
Il senso ultimo della luna e dei falò rimane nascosto sia ai personaggi, sia ai lettori. È una conoscenza arcana, che non si può razionalizzare. Per il protagonista è qualcosa che bisogna avere nel sangue: che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnio di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.
Qual è allora il significato del mio falò? Qualcuno dice: serve a celebrare la Festa nazionale svizzera. Ma questo è solo un pretesto. E quel tizio che si affaccenda a sparare verso il cielo dei piccoli razzi, che fanno un gran botto e sparpagliano qualche scintilla, suscitando lamenti di cani e bambini? Quali sono le radici del suo gesto, che cosa lo induce a trafficare con il fuoco? Anche in questo caso, la parola “festeggiamenti” è una spiegazione vaga. La verità è che la civiltà umana è basata sulla combustione. Lo spiega bene l’autore tedesco Winfried Georg Sebald.
La carbonizzazione delle specie vegetali superiori, la combustione incessante di tutte le sostanze combustibili è ciò che dà impulso alla nostra espansione sulla Terra. Dalla prima torcia a vento sino alle lanterne a riflettore del Settecento e dalla luce di quelle lanterne sino al pallido scintillio delle lampade ad arco sulle autostrade del Belgio, tutto è combustione, e la combustione è il principio intrinseco di qualsiasi oggetto da noi prodotto. La fabbricazione di un amo, la fattura di una tazza di porcellana e la produzione di un programma televisivo si basano, in ultima analisi, su un eguale processo di combustione. Le macchine da noi ideate hanno, al pari dei nostri corpi e del nostro anelito, un cuore che brucia lentamente. L’intera civiltà umana non è stata altro, sin dall’inizio, che un ardere senza fiamma, d’ora in ora più intenso, di cui nessuno sa quanto potrà crescere e quando comincerà a declinare. Per il momento le nostre città continuano a essere illuminate, i fuochi vanno ancora estendendosi.
Inevitabilmente, in un futuro più o meno lontano, tornerà il buio. Allora il senso dei falò, pur rimanendo difficile da cogliere, si farà più urgente, più drammatico nel suo voler lasciare un segno. L’umanità da sempre lotta contro l’oscurità, con ogni mezzo. Fra l’altro, anche ciò che sto scrivendo è legato a una sorta di combustione: non solo quella che manda avanti il mio cuore e il mio cervello, ma soprattutto quella che permette l’esistenza del mio computer. Del resto, senza combustione voi non potreste leggere: la mia luna e il mio falò sarebbero rimasti chiusi dentro di me.
Finora mi sono soffermato sulla luce di fattura umana – il falò – senza parlare della luna, cioè del chiarore che resterà (almeno per un po’) anche quando le nostre città si spegneranno. Ma che si può dire della luna? Quella domanda sospesa sulle montagne, attraversata da lembi di nuvole, è nuova stanotte come lo era un milione e mezzo di anni fa, quando l’Homo erectus accendeva i primi fuochi. Magari è proprio la luna, con il suo enigma, con il suo cerchio perfetto, ad aver suscitato negli esseri umani il desiderio di sapere. I falò preistorici, insieme al bisogno di luce e di calore, esprimevano forse una risposta allo sguardo di quell’insondabile pupilla.
È così, per trattenere la luce o per cercarla, che nascono le opere d’arte. Bruciano nei millenni sempre diversi falò, sotto la stessa luna, e nascono musiche, racconti, poesie, dipinti, sculture. In questi giorni, nella Svizzera italiana è in corso il Locarno Festival. Mentre il mio falò si spegneva, aiutato da un improvviso acquazzone, riflettevo sulla combustione che si cela dietro i film, i riflettori, gli aperitivi, i giornalisti. In fondo non è poi tanto diversa dalla combustione che tra il 25 e il 20.000 avanti Cristo, nella grotta pirenaica di Pech-Merle, permise a sconosciuti pittori di fissare con linee e punti, prodigiosamente, l’aspetto di mammut, cavalli, bisonti, felini, orsi e cervi giganti.

PS: Le parole di Sebald provengono dal volume Die Ringe des Saturn. Eine englische Wallfahrt, pubblicato nel 1995 (tradotto da Ada Vigliani per Adelphi nel 2005 con il titolo Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra). L’immagine con i chevaux ponctués, i “cavalli a pois”, ritrae l’opera più celebre della grotta di Pech-Merle. Circa l’indecifrabilità della luna e dei falò nel romanzo di Pavese, riporto un’osservazione del critico Giovanni Pozzi, il quale riteneva che essi non siano allegorie, cioè non siano significanti ai quali è connesso un preciso significato, ma restino indizi, cioè evocatori allusivi di sensi e non indicatori di significati. L’osservazione proviene dal quaderno Un’analisi di testo narrativo (Pavese, La luna e i falò) all’indirizzo degli insegnanti ticinesi del settore medio, edito a Zurigo da Juris Druck nel 1977. Trovate qui il sito del Locarno Festival e qui quello della grotta di Pech-Merle.

Condividi il post

Winter moon

Qualche giorno fa è venuta un’amica a cena e ha portato un po’ di alghe in una bottiglia di plastica. Aveva con sé anche roba più commestibile – cioccolatini, vino bianco – ma io mi sono sentito subito attratto dalle alghe. Non erano da mangiare, non avevano proprietà curative e in generale non sembravano un granché: la bottiglia di PET lasciava intravedere filamenti verdi, giallastri o bruni. Ma nella loro banalità, emanavano un richiamo misterioso. Mentre ero intento nella contemplazione, mi hanno spiegato che quella minuscola cosa verde era una delle specie viventi più antiche del nostro pianeta.
image1-2 copia 4Un po’ come le felci, ho detto io. O come le lucertole, ha detto qualcun altro. No, no – ha spiegato la persona che aveva portato l’alga – questa è molto più vecchia. Ha circa 400 milioni di anni. Mi sono girato verso la mia amica. Sei sicura? Ha annuito. Era sicura, anno più anno meno. Allora ho guardato di nuovo la bottiglia. Mi sentivo quasi in soggezione. Si chiama Isoetes velata, ha aggiunto l’amica. Varietà sicula. L’alga, nel frattempo, se ne stava assorta nei suoi pensieri.
Abbiamo bevuto un aperitivo, abbiamo parlato, abbiamo mangiato una pizza. E intanto la piccola alga, matriarca di noi esseri viventi, approdata dal mare sconfinato dell’era paleozoica fino a una bottiglietta di PET riciclabile, se ne stava placida nell’acqua. Proprio come ha fatto per milioni di anni, mentre intorno a lei si frantumavano continenti, si sprigionavano vapori, ruotavano senza fine vaste correnti oceaniche, nascevano spugne, scorpioni, vermi, animali con cinque occhi, coralli e muschi e meduse e lunghi tenaci millepiedi e pesci con le pinne che annaspavano sul fango delle rive. La piccola alga era già vecchia nel periodo Triassico, aveva già visto tutto quando il mondo si stupiva per l’apparizione dei protorotirididi nel Carbonifero. Figuriamoci poi il Giurassico e il Cretaceo, figuriamoci le angiosperme con i loro fiori, ah, la bellezza dei fiori. Il gusto della pizza. I primi primati. Gli australopitechi. La bicicletta. Quel brutto ceffo dell’Homo abilis. L’arco e le frecce. Il tubo di scappamento, le sciarpe, i romanzi a puntate. Il coltellino svizzero. Internet, sì, nella seconda epoca del Quaternario è comparso anche internet. Ma prima ancora, è saltato fuori il polietilene tereftalato. E nel 1973 Nathaniel Wyeth ha inventato le bottiglie di PET.
image1-2A questo punto le vie della Isoetes e della bottiglia si sono incrociate, come succede in tutte le storie. E qualche ora dopo sono arrivato anch’io. Naturalmente, la Isoetes è una remota discendente delle sue antenate che popolavano i mari primordiali, ma è riuscita a invecchiare senza troppi cambiamenti. Ecco quindi un modo poco dispendioso per viaggiare nel tempo: mettersi davanti alla Isoetes velata (varietà sicula), fissare lo sguardo, cancellare tutto il resto – la pizza, la casa, la luce elettrica – e immaginare che quello stesso piccolo filamento avremmo potuto incrociarlo 400 milioni di anni fa, così come lo stiamo vedendo ora.
IMG_9781Lo studioso Renato Giovannoli precisa che l’ammissione della possibilità di un viaggio a ritroso nel tempo, nella scienza o nella fantascienza, avrebbe conseguenze devastanti sul piano cosmologico, e per lo stesso “tessuto logico” della realtà. Da sempre gli scienziati e gli scrittori si trovano alle prese con paradossi insormontabili; Giovannoli li analizza meticolosamente fino a intravedere una soluzione nella pluralità dei mondi. Ma si può tentare anche la strada dell’empatia e dell’immedesimazione. Il viaggio nel tempo non è reale? Certo, così parrebbe, ma chi dice che per qualche secondo, per un’infinitesima frazione di secondo, i miei occhi non abbiano scrutato davvero nelle profondità del Paleozoico?
70a3e084f90e85938540b60de2f51840Non c’è nemmeno bisogno di un’alga preistorica, basta una notte serena. Di recente mi è capitato di guidare la notte e di avvistare, sospesa sulle montagne, una falce di luna immensa, limpida e luminosa, come se fosse a pochi metri dalla terra. In questi casi, a volte, parcheggio la macchina e muovo qualche passo fuori dal ciglio della strada, inoltrandomi nei campi o nei boschi. Quando non vedo più tracce della civiltà contemporanea, mi fermo. Intorno a me ci sono arbusti, un masso di pietra, i rami spogli di un faggio. Allora, alzando gli occhi al cielo, guardo la luna.
In questo momento, che differenza c’è tra me e un mio antenato del XIX secolo? Che cosa mi distingue da un uomo del medioevo? La situazione – immobile, ai margini di un bosco, la luna sopra la testa – mi rende contemporaneo di Giulio Cesare, di Napoleone Bonaparte, di un contadino cinese dell’anno mille.
La luna ci accompagna fin dall’inizio. Passano le epoche, cambiano i popoli e la tecnologia, ma il gesto di alzare gli occhi ci lega inestricabilmente ai nostri progenitori. Siamo certi che davvero, per un secondo, non si crei un cortocircuito, una sovrapposizione di universi, siamo certi che per un istante io non possa trovarmi davvero in un’altra epoca? E se tornassi verso la strada e incontrassi solo una mulattiera? E se nessuno sapesse più niente delle automobili e dei computer?

La fantasticheria dura per un minuto, poi mi rendo conto che sono sempre io, soltanto io, Andrea Fazioli, con tutta la mia inevitabile andreafaziolitudine, e che questa è ineluttabilmente una sera di marzo del 2017. Aveva ragione Eraclito l’Oscuro, quando nel 500 avanti Cristo ammoniva: Non scenderai due volte nello stesso fiume. La nostra umanità ci vincola al tempo, siamo inchiodati alla nostra identità, al qui e ora di questa epoca, e sentiamo il tempo che lentamente muta e consuma tutto ciò che conosciamo, compresi noi stessi. Nemmeno la luna è più la stessa luna che guardavano Giulio Cesare o il contadino cinese dell’anno mille. Così dice Borges in una breve lirica: C’è tanta solitudine in quell’oro. / La luna delle notti non è la luna / che vide il primo Adamo. I lunghi secoli / della veglia umana l’hanno colmata / di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio. Lassù non ci sono mondi fantastici, ampolle di senno perduto o conigli giganti, ma ci siamo noi, le nostre sofferenze, le speranze che nei millenni si sono accese in ogni singolo uomo e in ogni singola donna che almeno per un istante, nel corso di una vita, abbia alzato gli occhi verso la luna. Guardiamola. È il nostro specchio.
image1-2 copia 3Nonostante le catene del qui e ora, è forte nell’uomo la tentazione di correre più in fretta del tempo, o di fermarlo per poterlo assaporare. Perciò sono nate mille storie di fantascienza, mille sogni paradossali. È così fin dal Big Bang, quando l’universo è sbucato dal nulla ed è subito caduto nel tempo, è così fin dall’attimo del nostro concepimento, che è come un big bang personale. Tuttavia, possiamo incontrare una distorsione del tempo quando meno ce l’aspettiamo. A me è successo tre volte in questi giorni: prima con l’alga preistorica, poi con la luna invernale sulle montagne e infine – insospettabilmente – facendo la spesa. Infatti anche alla luce artificiale di un grande magazzino potete vivere un’esperienza di crono-distorsione. Basta che all’improvviso, nel settore dei dolci, vi troviate davanti una fila di panettoni, un mucchio di frittelle di Carnevale e un coniglio di cioccolato che vi scruta con i suoi occhietti folli. Allora di sicuro vi fermerete. Natale, Carnevale, Pasqua. Con un soprassalto interiore, vi chiederete: ma che giorno è? Basta poco. Pochissimo. E state già viaggiando nel tempo.

IMG_9771

PS: Il brano Winter moon venne inciso dal saxofonista Art Pepper nel 1980 per l’album omonimo, pubblicato dalla Galaxy nel 1981. Pepper, nato nel 1925, sarebbe morto l’anno successivo. Aveva sempre desiderato suonare con un’orchestra di archi, e fu lieto di poterlo fare in un periodo tranquillo della sua carriera: negli ultimi anni, pur segnato dalle ferite della droga, del carcere e dell’internamento terapeutico, era tornato a lavorare con una certa serenità. Il suo suono è sempre elegante, con un rintocco doloroso. Le note lunghe dei violini tratteggiano l’oscurità del cielo invernale; le vibrazioni del basso costruiscono la struttura su cui, come un fantasma lirico, si arrampica il contralto di Pepper, su, su, fino a disegnare il contorno della luna. Insieme a lui Stanley Cowell (piano), Howard Roberts (chitarra), Cecil McBee (contrabbasso), Carl Burnett (batteria) e gli archi diretti da Bill Holman, che è pure l’arrangiatore del brano, composto da Hoagy Carmichael negli anni Cinquanta.

PPS: A chi ama la fantascienza consiglio caldamente la lettura dell’opera di Renato Giovannoli, intitolata La scienza della fantascienza e pubblicata in edizione riveduta e aggiornata da Bompiani nel 2015 (la prima edizione risale al 1991). Ho citato anche il frammento 91a di Eraclito (lo trovate in I frammenti, Marcos y Marcos 1989) e la lirica La luna di Jorge Luis Borges, tratta da La moneda de hierro, una raccolta del 1976 (in Tutte le opere, Mondadori 1985). Ecco il testo originale: Hay tanta soledad en ese oro. / La luna de las noches no es la luna / que vio el primer Adam. Los largos siglos / de la vigilia humana la han colmado / de antiguo llanto. Mirala. Es tu espejo.
Il dipinto è di René Magritte: Le maître d’école (1954).

PPPS: Grazie ad Alice per l’Isoetes velata (varietà sicula).

Copia di image1-2                           image1-2 copia 2

Condividi il post