L’enigma della luna

Sono quattro e mezzo del mattino e sto guidando alla periferia della mia città. L’autostrada è deserta. Penso che mancano pochi giorni a Natale e mi dico: dovrai ricordarti di scrivere qualcosa per il tuo blog. È un periodo in cui le parole arrivano con fatica. Non è un problema d’ispirazione. Anzi, nella mia mente è tutto pronto, tutto predisposto al viaggio. Le indicazioni sono chiare, come i segnali stradali e i semafori che cambiano colore apposta per me in questo mattino di metà dicembre. Forse è fin troppo facile? Per raccontare una storia bisogna perdersi in qualche zona di buio, altrimenti non c’è gusto (né per chi scrive, né per chi legge). Ma dentro il buio, a quali segnali affidarsi? Non voglio altre frecce, progetti, direzioni pianificate a tavolino. A rispondermi, sopra il chiacchiericcio dei lampioni, è una luna magnifica, rotonda come una O di meraviglia. L’enigma della luna è la risposta a ogni pagina bianca.
Perché tante stelle, perché la luna, si chiedeva Leopardi e mille poeti prima di lui, a partire da quando l’essere umano ebbe coscienza di essere tale. La risposta è nella domanda: la luna serve a chiedersi la ragione della luna stessa. Così come il Natale, comunque lo si voglia intendere, pone una domanda sulle ragioni della luce. Perché l’inverno diminuisce? Perché la speranza, ancora, nonostante tutto? La domanda è inesauribile per tutti. Lo era per i nostri progenitori, lo è per chi festeggiava il Dies natalis solis invicti e per chi celebra il Natale cristiano. Chi crede non esaurisce il mistero della Ragione del mondo che si fa neonato, chi non crede non abbandona lo stupore di fronte alla promessa di un’altra primavera, di un’altra estate che è già qui, dentro questo nero di notte e di asfalto.

Tutto questo per spiegare il motivo per cui quest’anno non ho preparato niente sul Natale, tranne queste due parole improvvisate nel pomeriggio della vigilia.
Quest’anno in compenso Yari Bernasconi & Andrea Fazioli hanno scritto una piccola storia natalizia: lo trovate qui. I due avevano perpetrato una faccenda simile già l’anno scorso, con una plaquette intitolata Manca poco a Natale (Gabriele Capelli), da cui estraggo un frammento che pongo come suggello e come augurio.

E poi ricordati, se puoi, di questa nebbia
silenziosa, che avanza fra gli usci e le finestre,
appanna i vetri ancora addormentati
dietro verdi persiane: non si è accorta
di te, che sei già sveglio ma con occhi
diversi, fissi sul vecchio triciclo, la ruggine
delle ruote e dei freni. Anche questo
può essere Natale: un Natale
che tace e che non sibila.

Alle lettrici e ai lettori di questo blog giunga l’augurio di buon Natale, sia da parte mia sia da parte di Yari Bernasconi & Andrea Fazioli. A presto!

PS: Sempre di YB & AF, in febbraio uscirà un volumetto per Gabriele Capelli. S’intitola Non importa dove ed è una piccola rassegna di cartoline.

PPS: Il racconto Guglielmo nella steppa fa parte del progetto “Un Natale di storie a Mendrisio”. Trovate tutte le informazioni su tale progetto (e sul libro che lo accompagna) a questo indirizzo.

PPPS: Nella rubrica “Colpo critico”, una volta al mese pubblico sul settimanale “Azione” un articolo dedicato ai giochi da tavolo e di ruolo. È appena uscito uno speciale natalizio, che trovate qui.

PPPPS: Le parole escono a fatica, ma piano piano si compongono. Se tutto va bene, nel mese di gennaio o febbraio dovrei concludere due lavori che mi tengono impegnato da anni. Poi forse tornerò a dedicarmi a questo blog con maggiore assiduità.

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Il castello e

Oggi sono troppo stanco per scrivere.
Ci provo, in effetti lo sto facendo, ma l’Andrea che scrive è poco più di un gesto. È la schiena che cerca una posizione, sono le dita che premono sulla tastiera. È sempre così: una lettera dopo l’altra. Ecco, ho già scritto cinquanta parole, senza contare gli articoli. Non è difficile. Basta non pensarci.
Stamattina presto ero in onda alla radio, e per quattro ore non ho parlato con nessuno (tranne un rapido saluto all’addetta alla sicurezza). O almeno, questa è la mia impressione: un lungo passaggio silenzioso. In realtà ho parlato, naturalmente. Ho posato l’indice sul pulsante rosso del microfono e ho parlato. Ho anche intervistato degli esseri umani. Ma parlare nel microfono mi sembra solo un’altra forma di silenzio, più ambigua, più elusiva. E ora? Continuo a tacere e continuo a premere tasti. E fuoriescono parole, molto più di cinquanta, non sto a contarle.
Ma insisto: è solo un modo per tacere. La scrittura per me è ascolto, piuttosto che espressione. Naturalmente finisco per dire qualcosa, ma per riuscirci devo prestare attenzione a ciò che si muove intorno a me, dimenticandomi. Poi devo paragonare i suoni, le meraviglie, le ferite del mondo a ciò che d’inesprimibile accade dentro di me. Insomma, scrivere è un modo per essere attenti. È come quando a scuola prendevo appunti non tanto per rileggerli in futuro, quanto soprattutto per non addormentarmi durante la lezione.
Nessun racconto dice mai l’ultima parola. Nemmeno quelli con un finale perfetto. È dopo, nel silenzio, che i personaggi compiono il loro destino, all’insaputa di chi scrive e di chi legge. Ci pensavo proprio stamattina, sempre alla radio, quando parlavo di Franz Kafka. (Lo so, non si dovrebbe parlare di Kafka prima delle otto del mattino, ma proprio oggi si celebrano i cento anni dalla morte.)

A lungo ho avuto una certa ritrosia nel leggere Kafka. Ero frenato dall’aggettivo: “kafkiano”, con tutto il suo strascico di compiaciuta erudizione. Ma poi ho pensato che non è colpa di Kafka se l’hanno aggettivato. Ora lo leggo spesso, soprattutto i racconti brevi e gli aforismi. In particolare apprezzo i frammenti incompiuti. Come questo, per esempio: «Chiesi a un viandante che trovai sulla strada maestra se dietro i sette mari ci fossero i sette deserti e dietro a quelli le sette montagne, sulla settima montagna il castello e».
Perché Kafka si è fermato dopo quella “e”? Aveva perso il conto? Oppure la frase non gli piaceva? Però non l’ha cancellata, l’ha soltanto lasciata in sospeso. Forse qualcuno l’ha interrotto mentre stava scrivendo. Forse aveva finito l’inchiostro. Comunque sia, quel frammento incompiuto mi pare uno dei più belli, circondato di silenzio. «Il castello e». Non c’è altro da dire, perché dopo la “e” tutti stiamo già visitando il nostro castello, che è nostro e insieme di Kafka. Siamo soli e in compagnia, scriviamo e restiamo in silenzio, diciamo senza dire.
È per questo che amiamo la letteratura.

PS: Il testo di Kafka proviene dalla sezione “Frammenti” in F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1972. La fotografia ritrae un castello e.

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Sweet bird

Quando lavoro alla radio, alla Rete2 della RSI, mi sveglio alle quattro. Mi lavo, mi vesto, bevo un bicchiere di tè freddo e mangio un frutto. Poi prendo la macchina e guido da Bellinzona a Lugano, nel buio delle mattine invernali o, com’è accaduto la settimana scorsa, nel blu misterioso e lucente che precede il crepuscolo. A volte tutto è limpido, silenzioso, a volte invece si scatena un temporale, magari mentre salgo verso il Ceneri; in quei momenti, nell’abitacolo battutto dalla pioggia, mi pare di essere solo al mondo. Poi arrivano i fari di qualche automobile a ricordarmi che su questa terra esistono altri esseri umani, come me aggrappati a un volante e diretti da qualche parte sotto il diluvio.


Ancora non ho pronunciato una parola. Lascio la macchina nel parcheggio della radio e mi dirigo verso lo studio (dove leggerò i quotidiani prima di cominciare la diretta). Se non piove, mi fermo per un istante ad ascoltare le ultime notizie così come vengono trasmesse da un nugolo di uccelli nel folto degli alberi. I trilli, i pigolii, le melodie ripetute, i gorgheggi e i fischi s’intrecciano fra loro, tessendo la trama di un discorso incomprensibile (per me), ma non per questo meno vero.


Di fatto la voce degli uccelli esprime una verità sul mondo pari a quella che esprimerà il primo notiziario del mattino. Per me, che passo in pochi minuti dal mondo del canto a quello delle news, è importante ascoltare entrambi i discorsi. È il cinguettio fra gli alberi a dirmi che 1) sta sorgendo un’altra alba: questo merita di essere annunciato, perché le albe non sono infinite e non vanno sprecate; 2) se sono qui e ora è per un motivo: non devo smettere di cercare una voce che rappresenti nello stesso tempo le mie domande, le mie risposte, la mia tristezza o la mia meraviglia davanti alla realtà; 3) il silenzio e la musica sono la fonte da cui sgorgano le parole: non c’è frase scritta o pronunciata al microfono che sia efficace, se prima non si è confrontata con questo mondo aereo e ancora privo di sillabe umane. Per riassumere:
1) annuncio (An);
2) espressione dell’interiorità (EI);
3) attesa della parola (AP).
Queste tre funzioni vanno poste in relazione con ciò che succede alla radio. Di colpo, il campo sonoro ornitico, più o meno immutato da cento milioni di anni, lascia il posto al fattore umano. Ecco quindi 1) l’inesausta attualità dei giornali, i loro titoli, gli editoriali che segno con un evidenziatore giallo; 2) l’irruzione del mondo: scorrono i flussi delle notizie d’agenzia, appare sullo schermo la scaletta dei brani musicali, arrivano i notiziari e i bollettini meteo; 3) il tempo sminuzzato della diretta: conto i secondi che mancano alla sigla, parlo con il tecnico-regista che mi aiuta a tenere il ritmo, la mia voce entra nel microfono e si diffonde in luoghi che non vedrò mai. Per riassumere:
1) attualità (At);
2) espressione del mondo (EM);
3) diffusione della parola (DP).
Credo che le funzioni degli uccelli abbiano lo scopo di produrre una curva di equazione cartesiana in un piano munito di sistema di riferimento con assi perpendicolari. Così ogni elemento radiofonico risulta da una funzione ornitica.
f(An) = At
f(EI) = EM
f(AP) = DP
Non sto a disegnare il grafico: è la forma di una mattinata di lavoro, vissuta nella tensione fra silenzio e parola. Prima il silenzio, il canto degli uccelli, il fruscio delle pagine dei giornali, in un crescendo d’immersione nel mondo. Poi le mie parole, tese verso ascoltatori invisibili. La ferita dei notiziari: titoli inesorabili (La guerra ed ora anche il colera: è allarme-epidemia nello Jemen, in ginocchio per gli scontri e per la situazione sanitaria: oltre 200mila i casi conclamati); statistiche sui migranti che dietro le cifre celano lo strazio di chi fugge (Il governo italiano lancia l’allarme: situazione insostenibile, nelle ultime ore oltre 12mila arrivi, dal 1 gennaio +13,43%); un neonato a Londra che sopravvive attaccato a un respiratore, mentre intorno infuria la polemica (La Corte di Strasburgo sul piccolo Charlie: si può staccare la spina). Nel corso della mattinata le notizie si alternano alle canzoni, alle rubriche, alle interviste.
Quando torno nel parcheggio, dopo la riunione di redazione, sento di nuovo gli uccelli. Sullo sfondo c’è anche il ronzio di un motore: qualcuno da qualche parte sta tagliando l’erba.

 

Mi rimane impresso questo sotterraneo e un po’ assurdo collegamento fra il canto degli uccelli e le voci della radio.
Nel pomeriggio recupero un vecchio saggio di Edward Neill: Musica, tecnica ed estetica nel canto degli uccelli (Zanibon 1975). L’autore trova affascinante l’ipotesi che l’uomo primordiale abbia potuto trarre ispirazione dal canto degli uccelli in generale per modulare le sue prime manifestazioni canore, e, in particolare, che per costruire il proprio rudimentale sistema melodico si sia rifatto a strutture aventi un carattere intervallico come quelle del Tordo eremita (Hylocichla guttata). Neill mostra poi alcune trascrizioni musicali elaborate da un certo dottor Szöke (nel cui nome mi sembra di cogliere l’eco di un colpo di becco ben assestato).
Penso al mio lavoro: come scrittore, ma anche alla radio o nell’insegnamento. Di certo, per essere efficaci le parole devono nutrirsi di silenzio, di musica. E il canto degli uccelli racchiude un nocciolo antico di melodia che, come dice il saxofonista brasiliano Ivo Perelman, stupisce per la sua coerenza: non sono stati a scuola, nessuno ha detto loro di cantare in quel modo, non sono nemmeno coscienti di farlo. Eppure, cantano. E qualcosa di quel suono primordiale si ritrova in ogni musicista, in ogni poeta.
Il mattino seguente, mentre vado alla radio, ascolto il brano Sweet bird, composto da Joni Mitchell e riproposto da Herbie Hancock nell’album River: the Joni letters (Verve 2007). Mi pare che nella musica risuoni la semplicità di un canto ancestrale. Specialmente nelle improvvisazioni al sax di Wayne Shorter, che a volte imita la cadenza degli uccelli (a 1.50, a 2.30, a 5.30, a 6.37) e che alla fine diventa un soffio. Ma pure nel fischio che affiora qui e là (per esempio a 0.30, a 0.39, a 4.09), come se un volatile invisibile accostasse la sua voce a quella di Hancock al piano, di Shorter al sax, di Dave Holland al basso, di Vinnie Colaiuta alla batteria e di Lionel Loueke alla chitarra.

Arrivo alla radio. Entro nel mondo delle parole, come ogni giorno, e cerco di conservare nell’anima un ricordo di melodia. Questa bellezza si esprime sia come riflesso malinconico, sia come speranza che – dietro il male che tracima dalle notizie – resista la capacità di affermare la parte generosa del mondo. Le parole feriscono ma, quando sono pronunciate nel modo e nel momento giusto, possono anche guarire.

PS: L’osservazione di Ivo Perelman proviene dal numero 688 della rivista “Jazz Magazine” (ottobre 2016). Anche Perelman, nelle sue improvvisazioni libere, imita talvolta il canto degli uccelli; si vedano per esempio i due album con Karl Berger: Rêverie (Leo Records 2014) e The Hitchhicker (Leo Records 2016).

PPS: Per chi fosse interessato all’intervento aviario nella musica umana, è simpatico il duetto che il pianista Misha Mengelberg registrò insieme a Eeko, il pappagallo di sua moglie: a volte, si ha quasi l’impressione che Eeko sappia swingare… Il brano si trova nell’album Epistrophy (ICM 1972). Lo metto anche qui come omaggio a Mengelberg, morto il 3 marzo di quest’anno a 82 anni.

PPPS: Infine, ecco il Tordo eremita di cui parlano Edward Neill e il dottor Szöke. Mi sembra che, nel profondo della sua solitudine, sappia trovare un modo per colmare il fossato tra sé e il mondo, con uno dei canti più umanamente melodici che esistano: secondo Neill le emissioni vocali di questo uccello che vive prevalentemente in Nord-America sono strutturate in modo assai simile a quello che caratterizza la nostra musica diatonica e pentatonica. Neill precisa inoltre che i Tordi eremiti sono asociali nel senso in cui lo sono gli artisti che possono creare solo se in compagnia di sé stessi. Non posso fare a meno di citare almeno un’opera del dottor Szöke: P. Szöke, W. W. H. Gunn, M. Filip, The Musical Microcosm of the Hermit Trush, in “Studia Musicologica Academiae Scientiarum Hungaricae”, 11, Budapest 1969.

PPPPS: Per essere precisi, il silenzio mattutino che mi accompagna dal risveglio fino al luogo di lavoro non è interrotto soltanto dal cinguettio degli uccelli. C’è anche quel momento, inevitabile, in cui la mia automobile mi avvisa perentoriamente che non ho ancora allacciato la cintura…

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Il cavallo e l’anatra

Rodolfo Abella è nato nel 1954 e vive in un villaggio nella Cordigliera delle Ande. Una delle sue attività favorite è camminare lungo il letto dei torrenti, osservando il legname trascinato e levigato dalla corrente. In un ramo, in una scheggia di corteccia o in una radice contorta, Abella legge un frammento di una forma compiuta. Allora raccoglie i pezzi di legno e li porta a casa. Poi li accosta e li assembla, finché diventano ciò che aveva intravisto mentre camminava nel ruscello.
fullsizerenderUn paio di settimane fa, a Losanna, sono entrato nel Musée de l’Art Brut e mi sono imbattuto in un cavallo costruito da Abella nel 1995. Ciò che più mi ha sorpreso non è tanto la perizia compositiva, quanto la capacità di vedere e comunicare un cavallo, contro ogni logica evidente, usando un alfabeto nascosto e apparentemente caotico. L’incontro con il cavallo deve aver suscitato in me un desiderio di comunicazione incontrollato, perché qualche ora dopo – in un negozio del centro – ho comprato un richiamo per anatre. Avrei voluto provarlo già a Losanna, ma non ho avuto modo di incontrare anatre; ho aspettato così la settimana dopo quando, ai Giardini inglesi di Monaco, in Baviera, ho tentato di conversare con qualche palmipede ai bordi di un laghetto.
image1Il tentativo è in parte riuscito: le anatre hanno tutte nuotato verso di me, ignorando chi a poca distanza tentava di adescarle offrendo loro briciole di pane. Tuttavia, dentro di me ha preso forma la consapevolezza che il dialogo era soltanto un’apparenza, un lanciare segnali senza sapere codificarli. Io restavo irrimediabilmente me stesso, mentre le anatre restavano anatre, senza un’intersezione nei nostri modi di vedere e spiegare il mondo.


Ho riflettuto sulla condizione degli artisti. Mi sono chiesto se affrontare un’opera d’arte non sia come parlare a un’anatra: intuisco la presenza di un messaggio, ma non so appropriarmene. Sempre a Monaco, nella Pinacoteca di Arte Moderna, ho visto un’installazione che metteva in scena un tavolo apparecchiato per la prima colazione. C’erano tazze, piattini, teiere di raffinata ceramica… ma sulla tovaglia erano proiettate immagini che rappresentavano la profondità degli abissi marini. È tutto qui; non ricordo neppure il nome dell’artista. Comunque, mi sembra che quella voragine nella quotidianità esprima anche il mio modo di essere, sebbene non trovi le parole per precisare questa sensazione.
copia-di-fullsizerenderNello stesso museo, mi sono trovato in una sala dov’era allestita l’opera La fine del Ventesimo secolo di Joseph Beuys (1921-86). Costruita nel 1983, consiste in un insieme di 44 pietre di 48x150x40 centimetri, tutte ammassate in una stanza. Ogni pietra ha un foro nel quale è inserito una sorta di tappo, fatto dello stesso materiale delle pietre. Mentre ero lì, si sono timidamente affacciate due visitatrici francesi di una certa età. Hanno cominciato a discutere fra di loro, chiedendosi la ragione dei fori e dei tappi. Alla fine hanno provato a chiedere a un custode che, con aria annoiata, se ne stava in piedi sulla soglia. Ma nemmeno lui sapeva spiegare il senso di quel bouchon inserito in ogni pietra. Del resto, non aveva l’aria di uno che conoscesse l’autore o l’opera; con la barba di un paio di giorni, le borse sotto gli occhi e i capelli un po’ spettinati, sembrava semplicemente aspettare la fine del turno. Ha però ascoltato con pazienza le domande delle due signore e poi, con un mezzo sorriso, ha detto loro (in francese): Di sicuro, nell’arte non esistono coincidenze. Mi ha stupito questa fiducia nella presenza di un significato, nonostante l’incapacità di coglierlo.
Nello stesso museo ho incontrato altre opere misteriose. Per fare solo un esempio, la fotografia
An eviction (1988-2004) di Jeff Wall, un artista nato nel 1946. In un quartiere residenziale di Vancouver, la polizia opera uno sfratto, con violenza, mentre intorno la vita procede come sempre.
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Non so spiegarmi tutto questo, anche se in un certo senso mi rappresenta. Non so comunicare con le anatre né so intravedere una logica in ciò che mi accade intorno: a differenza di Abella, insomma, non riesco a costruire il cavallo. Durante il viaggio a Monaco, mi è capitato di pensarci mentre dalla cima di una torre, al tramonto, osservavo i movimenti della folla: se uno spariva inghiottito dall’oscurità della metropolitana, c’era una ragione; se altri due si fermavano a parlare e poi si separavano, c’era una ragione; se un terzo sostava da solo accanto a un cestino dell’immondizia, c’era una ragione. Ma per me, dall’alto, tutto era incomprensibile.
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L’incapacità di riuscire a esprimere il proprio sentire non è soltanto una difficoltà artistica, ma può consistere in un malessere che spinge nello stesso tempo verso il silenzio e verso l’esigenza insopprimibile di trovare le parole. Nei dintorni di Monaco, ho visitato il memoriale del Campo di concentramento di Dachau; e davanti ai pannelli, nelle baracche, nel flusso di turisti, mi sono riecheggiate nella mente le parole di Elie Wiesel: Dire l’indicibile, comunicare con la parola ciò che sfida la parola. Mantenere vivo il ricordo di un mondo scomparso nella cenere. Conferire un senso umano a un evento che, per la sua dimensione di crudeltà, si situa oltre l’umano. Offrire ai nostri figli la possibilità, se non la necessità di non rinunciare alla speranza.
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La tensione verso il significato raggiunge di rado tali vertici, nati da un’esperienza che sta appunto oltre l’umano. Ma per tutti gli artisti e gli scrittori questa tensione è sempre qualcosa che smuove, che genera parole (quando va bene) o angoscia (quando l’atto di linguaggio pare privo di efficacia). Anche per me, nel mio piccolo, l’incapacità di trovare una corrispondenza è spesso drammatica. In un suo breve saggio, Giuseppe Pontiggia mette l’accento proprio su questa difficoltà: Non crediamo più nella parola giusta, ma conosciamo per esperienza quella sbagliata. Ne siamo sommersi. Ritrovare l’energia biologica della parola è una sfida che vale la pena sia raccolta. Perché ciò avvenga, è necessario trovare il modo di passare dall’esperienza dell’anatra a quella del cavallo. Conclude infatti lo stesso Pontiggia: Non si scrive né per sé, né per gli altri. Si scrive per quel sé che coincide con gli altri.

PS: Le parole di Elie Wiesel provengono da La notte (La Giuntina 1980; l’edizione originale in francese risale al 1958). Il saggio di Pontiggia, intitolato “Linneo e il romanzo contemporaneo”, si trova in L’isola volante (Mondadori 1996). Le fotografie delle opere d’arte sono in parte scattate dal vivo, in parte tratte dalle cartoline acquistate nei musei. Ringrazio Ilaria per le immagini di Monaco (quella più in basso rappresenta le scale della Alte Pinakotheke).

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Kiringa

Sarà la pigrizia primaverile, sarà la mutevolezza del clima. Ma arrivano giornate in cui ti sorprendi a desiderare di essere altrove. Dall’altra parte del mondo, lontano da ogni congegno tecnologico e dall’esercito di mail e messaggi che ogni giorno ti mette sotto assedio. Ti dici: me ne andrei volentieri in un’isola sperduta della Papuasia. In questi casi, la cosa migliore è trovare qualcuno che ci sia andato davvero… e non oggi – in un’epoca di aeroplani ed eterna connessione – ma nel 1871, quando i viaggi erano ancora viaggi.
Copia di FullSizeRenderHo letto di recente un libro di Nikolaj Miklucho Maklaj: Amicizia coi selvaggi. Viaggi nella Nuova Guinea. Il titolo, oggi difficilmente proponibile, mostra l’età del volume: pubblicato dall’Istituto Geografico De Agostini nel 1963, si trova solo nel mercato dell’usato. (Il titolo dell’originale russo è semplicemente: Путешествия). Maklaj (1846-1888) ebbe una vita difficile e avventurosa. Biologo e antropologo, nei suoi lunghi viaggi non si limitava a esplorare terre nuove, ma andava alla ricerca degli uomini. Con una delicatezza e un rispetto all’epoca non usuali, seppe avvicinare  gli indigeni della Nuova Guinea, che cercò di aiutare e difendere in ogni modo. Soprattutto, non si limitò a studiarli da lontano: con loro condivise anni di vita, stringendo rapporti di amicizia.
FullSizeRender copia 2Il 19 settembre 1871 la corvetta russa Vitiaz giunse nel Golfo dell’Astrolabio, sulla costa nord-orientale della Nuova Guinea. Dopo qualche giorno la nave ripartì e sull’isola, insieme a due aiutanti, rimase soltanto Maklaj. Nel suo diario, con stile sempre piano e avvincente, Maklaj descrive le tappe del suo avvicinamento agli indigeni. A quell’epoca i papuasi non avevano praticamente mai visto un uomo bianco ed erano a tutti gli effetti uomini dell’età della pietra. Maklaj invece era uno scienziato colto del XIX secolo. Ma in nessun momento egli disprezza o sottovaluta gli indigeni. Anzi, non esita a seguire le loro stesse usanze, come quando dopo la morte di una donna si tinge la fronte di nero in segno di lutto per esprimere le sue condoglianze al marito, oppure quando trova le parole e le azioni giuste per spiegare agli indigeni che anche lui è un essere umano, che può morire e soffrire (ma dicci, gli avevano chiesto, anche tu muori come tutti noi?).
Le differenze culturali erano immense. Però talvolta Maklaj trova, in maniera sorprendente, qualche inaspettata affinità: Passando accanto all’ultima capanna vidi una bambina che girava tra le mani una cordicella annodata ai capi. Mi fermai per osservarla. Con un sorriso compiaciuto la bambina ripeté il giochetto con la cordicella. Era lo stesso che fanno i nostri bambini d’Europa.
Copia di image1Maklaj e i suoi aiutanti passarono un anno e quindici mesi nell’isola prima di avvistare una nave. Uno degli aiutanti era morto di malattia e l’altro era in condizioni pietose. Maklaj invece era vivo, seppure provato dal lungo soggiorno nel luogo selvaggio (fra l’altro, aveva esaurito la scorta di chinino per curare la febbre). A malincuore ripartì con la nave, portandosi dietro i suoi reperti scientifici. Quattro anni dopo, trovò un’altra nave che lo riportasse sull’isola. Gli indigeni lo accolsero festanti: avevano conservato tutte le sue cose, perché sapevano che sarebbe tornato.
Con i vezzi di uno scienziato ottocentesco, Maklaj è meticoloso nell’annotare una vita meticolosa: ogni giorno misura la temperatura dell’aria e dell’acqua, insieme ad altri rilievi, raccoglie campioni di fauna e di flora, osserva con attenzione gli indigeni e cerca d’imparare il loro linguaggio. Questo è il punto che più m’interessa. Pensate: appena sbarcato Maklaj non comprendeva nemmeno una parola. E imparare una lingua, in quelle condizioni, non era certo facile.
Solo oggi, cioè cinque mesi dopo il mio arrivo, ho conosciuto le parole papuasiche che significano: “mattino”, “sera”; non sono ancora riuscito a conoscere la parola “notte”. […] È difficile farsi comprendere se la parola che si vuol sapere non è la semplice denominazione di un oggetto. Per esempio, come spiegare che si desidera conoscere la parola “bene”? A un certo punto, Maklaj credeva di avere imparato la parola “bene”: kas. Quando indicava qualcosa di bello o funzionale, diceva kas; e gli indigeni con entusiasmo ripetevano kas. Soltanto dopo tre mesi scoprì che kas in lingua papuasica voleva dire “tabacco”. Il guaio era che gli indigeni, per gentilezza, avevano l’abitudine di ripetere sempre le sue parole, pensando che si esprimesse nella sua lingua. Kas per loro era “tabacco”, ma chissà, forse nella lingua di Maklaj significava un’altra cosa… nel dubbio, lo ripetevano allegramente. Ancor più comica la storia della parola “kiringa” che gli indigeni usavano assai spesso quando parlavano con me. Io pensavo che significasse “donna”. Solo qualche giorno fa, cioè dopo quattro mesi, ho saputo che non si trattava di una parola papuasica, mentre Tuj e gli altri indigeni hanno potuto convincersi che non si trattava della parola russa che essi credevano.
FullSizeRenderAppena ho letto queste frasi, la parola kiringa mi si è stampata nella mente, e credo che non la dimenticherò. È una parola che non vuol dire niente, né in russo né in papuasico. Ma per mesi Maklaj e gli indigeni la usarono per comunicare fra di loro, riuscendo in qualche modo a comprendersi. Quanto spesso, anche esprimendoci nella nostra lingua madre, abbiamo l’impressione che le parole non corrispondano all’essenza delle cose? Quanto spesso il significato ci appare immensamente più vasto del significante? Eppure, a volte, una sola parola – che per giunta non esiste – può avvicinare gli uomini più di mille discorsi intelligenti, più di mille articoli sui giornali o sui blog, più di milioni di “A cosa stai pensando?” su Facebook.
La verità è che la comunicazione ha bisogno di tempo. Per approfondire il significato di una sola parola ci vogliono mesi – come nel caso di kiringa – o forse non basta una vita intera. Per contro, anche se usate in maniera imperfetta, le parole hanno una potenza miracolosa: creano ponti, uniscono le persone. Non soltanto legano Maklaj agli indigeni, ma anche Maklaj a me e a voi, e quindi gli indigeni a tutti noi. Insomma: quella parola, risuonata tanti anni fa in una luminosa isola dei mari del sud, torna a vivere qui, nel mio piccolo blog. In questi giorni, fra l’altro, cerco di usarla il più possibile con parenti e amici…
image1Siamo stanchi? Un po’ esauriti dalla frenesia delle giornate primaverili? Non è necessario partire per la Papuasia. Basta osservare le persone intorno a noi, cercare di cogliere i riti sociali, le usanze, le modalità di linguaggio: siamo tutti “selvaggi”, in un certo senso, e ci si può improvvisare antropologi anche a due passi da casa. Ma soprattutto, quando vi sentite giù di corda, provate a seguire il mio consiglio. Nella vostra prossima conversazione, con chiunque stiate parlando, usate la parola kiringa. Il vostro interlocutore non la conosce? Voi stessi non sapete che cosa significa? Non importa. Del resto, ufficialmente la parola non esiste; ma qualche modo, vedrete, qualcosa succederà. Ecco, è questo che mi consola. Qui come in Nuova Guinea, nel 1871 come oggi, le parole hanno ancora la forza di smuovere i pensieri, di farci viaggiare. Soprattutto, di suscitare domande.
Perciò, in conclusione, che altro dire?
Via, lo sapete già… non me lo fate ripetere!

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