Sweet bird

Quando lavoro alla radio, alla Rete2 della RSI, mi sveglio alle quattro. Mi lavo, mi vesto, bevo un bicchiere di tè freddo e mangio un frutto. Poi prendo la macchina e guido da Bellinzona a Lugano, nel buio delle mattine invernali o, com’è accaduto la settimana scorsa, nel blu misterioso e lucente che precede il crepuscolo. A volte tutto è limpido, silenzioso, a volte invece si scatena un temporale, magari mentre salgo verso il Ceneri; in quei momenti, nell’abitacolo battutto dalla pioggia, mi pare di essere solo al mondo. Poi arrivano i fari di qualche automobile a ricordarmi che su questa terra esistono altri esseri umani, come me aggrappati a un volante e diretti da qualche parte sotto il diluvio.


Ancora non ho pronunciato una parola. Lascio la macchina nel parcheggio della radio e mi dirigo verso lo studio (dove leggerò i quotidiani prima di cominciare la diretta). Se non piove, mi fermo per un istante ad ascoltare le ultime notizie così come vengono trasmesse da un nugolo di uccelli nel folto degli alberi. I trilli, i pigolii, le melodie ripetute, i gorgheggi e i fischi s’intrecciano fra loro, tessendo la trama di un discorso incomprensibile (per me), ma non per questo meno vero.


Di fatto la voce degli uccelli esprime una verità sul mondo pari a quella che esprimerà il primo notiziario del mattino. Per me, che passo in pochi minuti dal mondo del canto a quello delle news, è importante ascoltare entrambi i discorsi. È il cinguettio fra gli alberi a dirmi che 1) sta sorgendo un’altra alba: questo merita di essere annunciato, perché le albe non sono infinite e non vanno sprecate; 2) se sono qui e ora è per un motivo: non devo smettere di cercare una voce che rappresenti nello stesso tempo le mie domande, le mie risposte, la mia tristezza o la mia meraviglia davanti alla realtà; 3) il silenzio e la musica sono la fonte da cui sgorgano le parole: non c’è frase scritta o pronunciata al microfono che sia efficace, se prima non si è confrontata con questo mondo aereo e ancora privo di sillabe umane. Per riassumere:
1) annuncio (An);
2) espressione dell’interiorità (EI);
3) attesa della parola (AP).
Queste tre funzioni vanno poste in relazione con ciò che succede alla radio. Di colpo, il campo sonoro ornitico, più o meno immutato da cento milioni di anni, lascia il posto al fattore umano. Ecco quindi 1) l’inesausta attualità dei giornali, i loro titoli, gli editoriali che segno con un evidenziatore giallo; 2) l’irruzione del mondo: scorrono i flussi delle notizie d’agenzia, appare sullo schermo la scaletta dei brani musicali, arrivano i notiziari e i bollettini meteo; 3) il tempo sminuzzato della diretta: conto i secondi che mancano alla sigla, parlo con il tecnico-regista che mi aiuta a tenere il ritmo, la mia voce entra nel microfono e si diffonde in luoghi che non vedrò mai. Per riassumere:
1) attualità (At);
2) espressione del mondo (EM);
3) diffusione della parola (DP).
Credo che le funzioni degli uccelli abbiano lo scopo di produrre una curva di equazione cartesiana in un piano munito di sistema di riferimento con assi perpendicolari. Così ogni elemento radiofonico risulta da una funzione ornitica.
f(An) = At
f(EI) = EM
f(AP) = DP
Non sto a disegnare il grafico: è la forma di una mattinata di lavoro, vissuta nella tensione fra silenzio e parola. Prima il silenzio, il canto degli uccelli, il fruscio delle pagine dei giornali, in un crescendo d’immersione nel mondo. Poi le mie parole, tese verso ascoltatori invisibili. La ferita dei notiziari: titoli inesorabili (La guerra ed ora anche il colera: è allarme-epidemia nello Jemen, in ginocchio per gli scontri e per la situazione sanitaria: oltre 200mila i casi conclamati); statistiche sui migranti che dietro le cifre celano lo strazio di chi fugge (Il governo italiano lancia l’allarme: situazione insostenibile, nelle ultime ore oltre 12mila arrivi, dal 1 gennaio +13,43%); un neonato a Londra che sopravvive attaccato a un respiratore, mentre intorno infuria la polemica (La Corte di Strasburgo sul piccolo Charlie: si può staccare la spina). Nel corso della mattinata le notizie si alternano alle canzoni, alle rubriche, alle interviste.
Quando torno nel parcheggio, dopo la riunione di redazione, sento di nuovo gli uccelli. Sullo sfondo c’è anche il ronzio di un motore: qualcuno da qualche parte sta tagliando l’erba.

 

Mi rimane impresso questo sotterraneo e un po’ assurdo collegamento fra il canto degli uccelli e le voci della radio.
Nel pomeriggio recupero un vecchio saggio di Edward Neill: Musica, tecnica ed estetica nel canto degli uccelli (Zanibon 1975). L’autore trova affascinante l’ipotesi che l’uomo primordiale abbia potuto trarre ispirazione dal canto degli uccelli in generale per modulare le sue prime manifestazioni canore, e, in particolare, che per costruire il proprio rudimentale sistema melodico si sia rifatto a strutture aventi un carattere intervallico come quelle del Tordo eremita (Hylocichla guttata). Neill mostra poi alcune trascrizioni musicali elaborate da un certo dottor Szöke (nel cui nome mi sembra di cogliere l’eco di un colpo di becco ben assestato).
Penso al mio lavoro: come scrittore, ma anche alla radio o nell’insegnamento. Di certo, per essere efficaci le parole devono nutrirsi di silenzio, di musica. E il canto degli uccelli racchiude un nocciolo antico di melodia che, come dice il saxofonista brasiliano Ivo Perelman, stupisce per la sua coerenza: non sono stati a scuola, nessuno ha detto loro di cantare in quel modo, non sono nemmeno coscienti di farlo. Eppure, cantano. E qualcosa di quel suono primordiale si ritrova in ogni musicista, in ogni poeta.
Il mattino seguente, mentre vado alla radio, ascolto il brano Sweet bird, composto da Joni Mitchell e riproposto da Herbie Hancock nell’album River: the Joni letters (Verve 2007). Mi pare che nella musica risuoni la semplicità di un canto ancestrale. Specialmente nelle improvvisazioni al sax di Wayne Shorter, che a volte imita la cadenza degli uccelli (a 1.50, a 2.30, a 5.30, a 6.37) e che alla fine diventa un soffio. Ma pure nel fischio che affiora qui e là (per esempio a 0.30, a 0.39, a 4.09), come se un volatile invisibile accostasse la sua voce a quella di Hancock al piano, di Shorter al sax, di Dave Holland al basso, di Vinnie Colaiuta alla batteria e di Lionel Loueke alla chitarra.

Arrivo alla radio. Entro nel mondo delle parole, come ogni giorno, e cerco di conservare nell’anima un ricordo di melodia. Questa bellezza si esprime sia come riflesso malinconico, sia come speranza che – dietro il male che tracima dalle notizie – resista la capacità di affermare la parte generosa del mondo. Le parole feriscono ma, quando sono pronunciate nel modo e nel momento giusto, possono anche guarire.

PS: L’osservazione di Ivo Perelman proviene dal numero 688 della rivista “Jazz Magazine” (ottobre 2016). Anche Perelman, nelle sue improvvisazioni libere, imita talvolta il canto degli uccelli; si vedano per esempio i due album con Karl Berger: Rêverie (Leo Records 2014) e The Hitchhicker (Leo Records 2016).

PPS: Per chi fosse interessato all’intervento aviario nella musica umana, è simpatico il duetto che il pianista Misha Mengelberg registrò insieme a Eeko, il pappagallo di sua moglie: a volte, si ha quasi l’impressione che Eeko sappia swingare… Il brano si trova nell’album Epistrophy (ICM 1972). Lo metto anche qui come omaggio a Mengelberg, morto il 3 marzo di quest’anno a 82 anni.

PPPS: Infine, ecco il Tordo eremita di cui parlano Edward Neill e il dottor Szöke. Mi sembra che, nel profondo della sua solitudine, sappia trovare un modo per colmare il fossato tra sé e il mondo, con uno dei canti più umanamente melodici che esistano: secondo Neill le emissioni vocali di questo uccello che vive prevalentemente in Nord-America sono strutturate in modo assai simile a quello che caratterizza la nostra musica diatonica e pentatonica. Neill precisa inoltre che i Tordi eremiti sono asociali nel senso in cui lo sono gli artisti che possono creare solo se in compagnia di sé stessi. Non posso fare a meno di citare almeno un’opera del dottor Szöke: P. Szöke, W. W. H. Gunn, M. Filip, The Musical Microcosm of the Hermit Trush, in “Studia Musicologica Academiae Scientiarum Hungaricae”, 11, Budapest 1969.

PPPPS: Per essere precisi, il silenzio mattutino che mi accompagna dal risveglio fino al luogo di lavoro non è interrotto soltanto dal cinguettio degli uccelli. C’è anche quel momento, inevitabile, in cui la mia automobile mi avvisa perentoriamente che non ho ancora allacciato la cintura…

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Il cavallo e l’anatra

Rodolfo Abella è nato nel 1954 e vive in un villaggio nella Cordigliera delle Ande. Una delle sue attività favorite è camminare lungo il letto dei torrenti, osservando il legname trascinato e levigato dalla corrente. In un ramo, in una scheggia di corteccia o in una radice contorta, Abella legge un frammento di una forma compiuta. Allora raccoglie i pezzi di legno e li porta a casa. Poi li accosta e li assembla, finché diventano ciò che aveva intravisto mentre camminava nel ruscello.
fullsizerenderUn paio di settimane fa, a Losanna, sono entrato nel Musée de l’Art Brut e mi sono imbattuto in un cavallo costruito da Abella nel 1995. Ciò che più mi ha sorpreso non è tanto la perizia compositiva, quanto la capacità di vedere e comunicare un cavallo, contro ogni logica evidente, usando un alfabeto nascosto e apparentemente caotico. L’incontro con il cavallo deve aver suscitato in me un desiderio di comunicazione incontrollato, perché qualche ora dopo – in un negozio del centro – ho comprato un richiamo per anatre. Avrei voluto provarlo già a Losanna, ma non ho avuto modo di incontrare anatre; ho aspettato così la settimana dopo quando, ai Giardini inglesi di Monaco, in Baviera, ho tentato di conversare con qualche palmipede ai bordi di un laghetto.
image1Il tentativo è in parte riuscito: le anatre hanno tutte nuotato verso di me, ignorando chi a poca distanza tentava di adescarle offrendo loro briciole di pane. Tuttavia, dentro di me ha preso forma la consapevolezza che il dialogo era soltanto un’apparenza, un lanciare segnali senza sapere codificarli. Io restavo irrimediabilmente me stesso, mentre le anatre restavano anatre, senza un’intersezione nei nostri modi di vedere e spiegare il mondo.


Ho riflettuto sulla condizione degli artisti. Mi sono chiesto se affrontare un’opera d’arte non sia come parlare a un’anatra: intuisco la presenza di un messaggio, ma non so appropriarmene. Sempre a Monaco, nella Pinacoteca di Arte Moderna, ho visto un’installazione che metteva in scena un tavolo apparecchiato per la prima colazione. C’erano tazze, piattini, teiere di raffinata ceramica… ma sulla tovaglia erano proiettate immagini che rappresentavano la profondità degli abissi marini. È tutto qui; non ricordo neppure il nome dell’artista. Comunque, mi sembra che quella voragine nella quotidianità esprima anche il mio modo di essere, sebbene non trovi le parole per precisare questa sensazione.
copia-di-fullsizerenderNello stesso museo, mi sono trovato in una sala dov’era allestita l’opera La fine del Ventesimo secolo di Joseph Beuys (1921-86). Costruita nel 1983, consiste in un insieme di 44 pietre di 48x150x40 centimetri, tutte ammassate in una stanza. Ogni pietra ha un foro nel quale è inserito una sorta di tappo, fatto dello stesso materiale delle pietre. Mentre ero lì, si sono timidamente affacciate due visitatrici francesi di una certa età. Hanno cominciato a discutere fra di loro, chiedendosi la ragione dei fori e dei tappi. Alla fine hanno provato a chiedere a un custode che, con aria annoiata, se ne stava in piedi sulla soglia. Ma nemmeno lui sapeva spiegare il senso di quel bouchon inserito in ogni pietra. Del resto, non aveva l’aria di uno che conoscesse l’autore o l’opera; con la barba di un paio di giorni, le borse sotto gli occhi e i capelli un po’ spettinati, sembrava semplicemente aspettare la fine del turno. Ha però ascoltato con pazienza le domande delle due signore e poi, con un mezzo sorriso, ha detto loro (in francese): Di sicuro, nell’arte non esistono coincidenze. Mi ha stupito questa fiducia nella presenza di un significato, nonostante l’incapacità di coglierlo.
Nello stesso museo ho incontrato altre opere misteriose. Per fare solo un esempio, la fotografia
An eviction (1988-2004) di Jeff Wall, un artista nato nel 1946. In un quartiere residenziale di Vancouver, la polizia opera uno sfratto, con violenza, mentre intorno la vita procede come sempre.
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Non so spiegarmi tutto questo, anche se in un certo senso mi rappresenta. Non so comunicare con le anatre né so intravedere una logica in ciò che mi accade intorno: a differenza di Abella, insomma, non riesco a costruire il cavallo. Durante il viaggio a Monaco, mi è capitato di pensarci mentre dalla cima di una torre, al tramonto, osservavo i movimenti della folla: se uno spariva inghiottito dall’oscurità della metropolitana, c’era una ragione; se altri due si fermavano a parlare e poi si separavano, c’era una ragione; se un terzo sostava da solo accanto a un cestino dell’immondizia, c’era una ragione. Ma per me, dall’alto, tutto era incomprensibile.
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L’incapacità di riuscire a esprimere il proprio sentire non è soltanto una difficoltà artistica, ma può consistere in un malessere che spinge nello stesso tempo verso il silenzio e verso l’esigenza insopprimibile di trovare le parole. Nei dintorni di Monaco, ho visitato il memoriale del Campo di concentramento di Dachau; e davanti ai pannelli, nelle baracche, nel flusso di turisti, mi sono riecheggiate nella mente le parole di Elie Wiesel: Dire l’indicibile, comunicare con la parola ciò che sfida la parola. Mantenere vivo il ricordo di un mondo scomparso nella cenere. Conferire un senso umano a un evento che, per la sua dimensione di crudeltà, si situa oltre l’umano. Offrire ai nostri figli la possibilità, se non la necessità di non rinunciare alla speranza.
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La tensione verso il significato raggiunge di rado tali vertici, nati da un’esperienza che sta appunto oltre l’umano. Ma per tutti gli artisti e gli scrittori questa tensione è sempre qualcosa che smuove, che genera parole (quando va bene) o angoscia (quando l’atto di linguaggio pare privo di efficacia). Anche per me, nel mio piccolo, l’incapacità di trovare una corrispondenza è spesso drammatica. In un suo breve saggio, Giuseppe Pontiggia mette l’accento proprio su questa difficoltà: Non crediamo più nella parola giusta, ma conosciamo per esperienza quella sbagliata. Ne siamo sommersi. Ritrovare l’energia biologica della parola è una sfida che vale la pena sia raccolta. Perché ciò avvenga, è necessario trovare il modo di passare dall’esperienza dell’anatra a quella del cavallo. Conclude infatti lo stesso Pontiggia: Non si scrive né per sé, né per gli altri. Si scrive per quel sé che coincide con gli altri.

PS: Le parole di Elie Wiesel provengono da La notte (La Giuntina 1980; l’edizione originale in francese risale al 1958). Il saggio di Pontiggia, intitolato “Linneo e il romanzo contemporaneo”, si trova in L’isola volante (Mondadori 1996). Le fotografie delle opere d’arte sono in parte scattate dal vivo, in parte tratte dalle cartoline acquistate nei musei. Ringrazio Ilaria per le immagini di Monaco (quella più in basso rappresenta le scale della Alte Pinakotheke).

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Kiringa

Sarà la pigrizia primaverile, sarà la mutevolezza del clima. Ma arrivano giornate in cui ti sorprendi a desiderare di essere altrove. Dall’altra parte del mondo, lontano da ogni congegno tecnologico e dall’esercito di mail e messaggi che ogni giorno ti mette sotto assedio. Ti dici: me ne andrei volentieri in un’isola sperduta della Papuasia. In questi casi, la cosa migliore è trovare qualcuno che ci sia andato davvero… e non oggi – in un’epoca di aeroplani ed eterna connessione – ma nel 1871, quando i viaggi erano ancora viaggi.
Copia di FullSizeRenderHo letto di recente un libro di Nikolaj Miklucho Maklaj: Amicizia coi selvaggi. Viaggi nella Nuova Guinea. Il titolo, oggi difficilmente proponibile, mostra l’età del volume: pubblicato dall’Istituto Geografico De Agostini nel 1963, si trova solo nel mercato dell’usato. (Il titolo dell’originale russo è semplicemente: Путешествия). Maklaj (1846-1888) ebbe una vita difficile e avventurosa. Biologo e antropologo, nei suoi lunghi viaggi non si limitava a esplorare terre nuove, ma andava alla ricerca degli uomini. Con una delicatezza e un rispetto all’epoca non usuali, seppe avvicinare  gli indigeni della Nuova Guinea, che cercò di aiutare e difendere in ogni modo. Soprattutto, non si limitò a studiarli da lontano: con loro condivise anni di vita, stringendo rapporti di amicizia.
FullSizeRender copia 2Il 19 settembre 1871 la corvetta russa Vitiaz giunse nel Golfo dell’Astrolabio, sulla costa nord-orientale della Nuova Guinea. Dopo qualche giorno la nave ripartì e sull’isola, insieme a due aiutanti, rimase soltanto Maklaj. Nel suo diario, con stile sempre piano e avvincente, Maklaj descrive le tappe del suo avvicinamento agli indigeni. A quell’epoca i papuasi non avevano praticamente mai visto un uomo bianco ed erano a tutti gli effetti uomini dell’età della pietra. Maklaj invece era uno scienziato colto del XIX secolo. Ma in nessun momento egli disprezza o sottovaluta gli indigeni. Anzi, non esita a seguire le loro stesse usanze, come quando dopo la morte di una donna si tinge la fronte di nero in segno di lutto per esprimere le sue condoglianze al marito, oppure quando trova le parole e le azioni giuste per spiegare agli indigeni che anche lui è un essere umano, che può morire e soffrire (ma dicci, gli avevano chiesto, anche tu muori come tutti noi?).
Le differenze culturali erano immense. Però talvolta Maklaj trova, in maniera sorprendente, qualche inaspettata affinità: Passando accanto all’ultima capanna vidi una bambina che girava tra le mani una cordicella annodata ai capi. Mi fermai per osservarla. Con un sorriso compiaciuto la bambina ripeté il giochetto con la cordicella. Era lo stesso che fanno i nostri bambini d’Europa.
Copia di image1Maklaj e i suoi aiutanti passarono un anno e quindici mesi nell’isola prima di avvistare una nave. Uno degli aiutanti era morto di malattia e l’altro era in condizioni pietose. Maklaj invece era vivo, seppure provato dal lungo soggiorno nel luogo selvaggio (fra l’altro, aveva esaurito la scorta di chinino per curare la febbre). A malincuore ripartì con la nave, portandosi dietro i suoi reperti scientifici. Quattro anni dopo, trovò un’altra nave che lo riportasse sull’isola. Gli indigeni lo accolsero festanti: avevano conservato tutte le sue cose, perché sapevano che sarebbe tornato.
Con i vezzi di uno scienziato ottocentesco, Maklaj è meticoloso nell’annotare una vita meticolosa: ogni giorno misura la temperatura dell’aria e dell’acqua, insieme ad altri rilievi, raccoglie campioni di fauna e di flora, osserva con attenzione gli indigeni e cerca d’imparare il loro linguaggio. Questo è il punto che più m’interessa. Pensate: appena sbarcato Maklaj non comprendeva nemmeno una parola. E imparare una lingua, in quelle condizioni, non era certo facile.
Solo oggi, cioè cinque mesi dopo il mio arrivo, ho conosciuto le parole papuasiche che significano: “mattino”, “sera”; non sono ancora riuscito a conoscere la parola “notte”. […] È difficile farsi comprendere se la parola che si vuol sapere non è la semplice denominazione di un oggetto. Per esempio, come spiegare che si desidera conoscere la parola “bene”? A un certo punto, Maklaj credeva di avere imparato la parola “bene”: kas. Quando indicava qualcosa di bello o funzionale, diceva kas; e gli indigeni con entusiasmo ripetevano kas. Soltanto dopo tre mesi scoprì che kas in lingua papuasica voleva dire “tabacco”. Il guaio era che gli indigeni, per gentilezza, avevano l’abitudine di ripetere sempre le sue parole, pensando che si esprimesse nella sua lingua. Kas per loro era “tabacco”, ma chissà, forse nella lingua di Maklaj significava un’altra cosa… nel dubbio, lo ripetevano allegramente. Ancor più comica la storia della parola “kiringa” che gli indigeni usavano assai spesso quando parlavano con me. Io pensavo che significasse “donna”. Solo qualche giorno fa, cioè dopo quattro mesi, ho saputo che non si trattava di una parola papuasica, mentre Tuj e gli altri indigeni hanno potuto convincersi che non si trattava della parola russa che essi credevano.
FullSizeRenderAppena ho letto queste frasi, la parola kiringa mi si è stampata nella mente, e credo che non la dimenticherò. È una parola che non vuol dire niente, né in russo né in papuasico. Ma per mesi Maklaj e gli indigeni la usarono per comunicare fra di loro, riuscendo in qualche modo a comprendersi. Quanto spesso, anche esprimendoci nella nostra lingua madre, abbiamo l’impressione che le parole non corrispondano all’essenza delle cose? Quanto spesso il significato ci appare immensamente più vasto del significante? Eppure, a volte, una sola parola – che per giunta non esiste – può avvicinare gli uomini più di mille discorsi intelligenti, più di mille articoli sui giornali o sui blog, più di milioni di “A cosa stai pensando?” su Facebook.
La verità è che la comunicazione ha bisogno di tempo. Per approfondire il significato di una sola parola ci vogliono mesi – come nel caso di kiringa – o forse non basta una vita intera. Per contro, anche se usate in maniera imperfetta, le parole hanno una potenza miracolosa: creano ponti, uniscono le persone. Non soltanto legano Maklaj agli indigeni, ma anche Maklaj a me e a voi, e quindi gli indigeni a tutti noi. Insomma: quella parola, risuonata tanti anni fa in una luminosa isola dei mari del sud, torna a vivere qui, nel mio piccolo blog. In questi giorni, fra l’altro, cerco di usarla il più possibile con parenti e amici…
image1Siamo stanchi? Un po’ esauriti dalla frenesia delle giornate primaverili? Non è necessario partire per la Papuasia. Basta osservare le persone intorno a noi, cercare di cogliere i riti sociali, le usanze, le modalità di linguaggio: siamo tutti “selvaggi”, in un certo senso, e ci si può improvvisare antropologi anche a due passi da casa. Ma soprattutto, quando vi sentite giù di corda, provate a seguire il mio consiglio. Nella vostra prossima conversazione, con chiunque stiate parlando, usate la parola kiringa. Il vostro interlocutore non la conosce? Voi stessi non sapete che cosa significa? Non importa. Del resto, ufficialmente la parola non esiste; ma qualche modo, vedrete, qualcosa succederà. Ecco, è questo che mi consola. Qui come in Nuova Guinea, nel 1871 come oggi, le parole hanno ancora la forza di smuovere i pensieri, di farci viaggiare. Soprattutto, di suscitare domande.
Perciò, in conclusione, che altro dire?
Via, lo sapete già… non me lo fate ripetere!

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Buji

Un giorno di primavera del 1686, in Giappone, un certo Matsuo Munefusa (detto Bashô) passò accanto a uno stagno e vide una rana che si tuffava nell’acqua. Un evento abbastanza banale. Ma Bashô ne rimase in qualche modo colpito e decise di buttare giù due righe. Anzi, diciassette sillabe: furu ike ya / kawazu tobikomu / mizu no oto. Per chi non sa il giapponese: Vecchia palude – / Una rana si tuffa. / Rumore d’acqua. Pensate alla forza di questo piccolo haiku. Sono passati trecento anni… lo stagno si sarà prosciugato e dissolto, lo scheletro del poeta è ormai polvere (e anche quello della rana). Eppure ancora oggi noi, che non sappiamo niente del Giappone del XVII secolo, possiamo chiudere gli occhi e vediamo tutto precisamente: la rana, lo stagno, il balzo e – pluf! – l’immersione.
Copia di FullSizeRenderQuella che avete letto sopra è una mia traduzione, ma in italiano se ne contano parecchie decine. In inglese sono più di cento; e sui tre piccoli versi di questo haiku sono stati scritti interi volumi di saggistica. Sono così tante parole che uno potrebbe perdere di vista l’essenziale, cioè la rana. La letteratura è qualcosa di potente nella misura in cui sa essere concreta, lasciando che il poeta – con tutte le sue riflessioni e le sue visioni – si celi nel gesto di un piccolo anfibio: il suono, le onde nello stagno, una canna che oscilla per qualche secondo.
L’haiku di Bashô muove l’immaginazione proprio perché è semplice. L’abate Sengai (1750-1837) si divertì a ricamarci sopra possibili variazioni. Eccone tre: Stagno antico – / Bashô si tuffa, / rumore d’acqua; Stagno antico – / Splash! / Chi si è tuffato…; Se ci fosse uno stagno, / mi tufferei, / e Bashô ascolterebbe.
FullSizeRenderOgni tanto mi capita di lavorare sugli haiku. È un esercizio che propongo spesso nei laboratori di scrittura, dando regole precise all’interno delle quali muoversi (si sa che le regole stimolano lo slancio creativo). In particolare, insisto sulla precisione della trasposizione metrica dal giapponese all’italiano. L’haiku deve quindi essere composto da un quinario, un settenario e un quinario. Qualche esempio in ordine sparso: Bevo un caffè / con dentro un po’ di sole / e un cielo azzurro; Mentre sorrido / penso che non dovrei – / Cerco di smettere; Torno a Zurigo. / Sul fiume si addormentano / anatre nere; A volte guardo / le canne di bambù / e penso ad altro; La volpe va / nel folto dell’estate – / Ma chi la vede?.
Con poche sillabe volatili è possibile esprimere pozzi profondi di emozioni, paure, tensioni, desideri. Sempre restando ancorati alla concretezza. Pensate per esempio alla vita umana, alla sua fragilità. Quanti poeti hanno espresso questo sentimento, quanti come Leopardi hanno chiesto alla natura umana or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant’alto senti? In uno dei suoi scritti, anche Sengai riflette sull’argomento, con fulminea e amarognola ironia: Vivere o morire / (tutto dipende dal cucchiaio del dottore).
FullSizeRenderNel disegno, la curva perfezione del cucchiaio contrasta con l’improvvisa percezione di precarietà. Come dire: basta davvero poco per spegnere una vita, però guardate che belle sillabe, che cucchiaio elegante sappiamo disegnare, noi così piccoli, così fugaci.
In questi giorni sono preso da mille faccende: impegni legati al romanzo L’arte del fallimento, problemi di lavoro, malanni di stagione e altri piccoli guai, tutti quei piccoli guai che sono lo scheletro della nostra esistenza. Riflettere sugli haiku è un modo per creare pause: momenti in cui cerco di non fare niente, perché le idee possano correre come acqua fra i sassi.
FullSizeRenderSengai scrisse due ideogrammi al proposito. Si leggono buji in giapponese e wushi in cinese. Che cosa significano? Difficile dirlo con precisione: “non-attività”, “non lavoro”, “non-evento”, “tutto va bene” o, allargando il senso, “essere liberi da ansie e timori”. Gli esperti discutono sulla traduzione esatta. Per me si tratta di quel piccolo intervallo vuoto dal momento in cui la rana spicca il balzo al momento in cui s’immerge nello stagno. È uno spazio di attesa, di contemplazione, di apertura nei confronti del mondo. Può durare un secondo ma anche, con un po’ d’impegno, qualche minuto. O addirittura, a pensarci bene, trecento anni…

PS: Un’opera di riferimento in italiano sull’haiku di Bashô è La rana di Bashô, scritto da Paolo Pagli e pubblicato dalle edizioni ETS nel 2006. Vi si trovano numerose traduzioni in italiano, dalle più recenti fino a quella di Mario Chini del 1904: Campagne basse e nude, / una morta palude / il rumore dell’onda / che – plumf – s’apre, si chiude / a ogni rana che affonda. I disegni e i testi del maestro Sengai si trovano in Poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, scritto nel 1971 e pubblicato in italiano da Guanda nel 1988 e poi nel 2012. Per chi volesse cimentarsi nella scrittura di haiku, il testo fondamentale (purtroppo solo in francese) è il Petit manuel pour écrire des haïku, scritto da Philippe Costa e pubblicato nel 2000 dalle Editions Philippe Picquier.

PPS: Il ritratto della rana (preso dal libro di Pagli) è composto da Hoji e risale al 1814. Le altre immagini provengono tutte dal libro di Sengai: la prima rappresenta le tre variazioni su Bashô la seconda è il testo sul cucchiaio del dottore e la terza significa buji… qualunque cosa ciò voglia dire.

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