A Zurigo, sulla luna

#Paradeplatz2018 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli. Ogni mese: 1) lettura di una poesia a Paradeplatz (Zurigo); 2) osservazione e ascolto; 3) scrittura.

Di fianco a noi siede un ragazzo olivastro.
Barba scura, maglietta nera e scarpe
da ginnastica. Sull’orecchio un brillante
pacchiano. Fissa il suo telefono, poi aggiusta
nelle orecchie gli auricolari. Solo quando si gira
mi accorgo che i suoi occhi sono più azzurri
del vento, senza macchie, e si spalancano
densi come nubi. La piazza riflessa è diventata
minuscola, ora, noi tutti siamo punti dispersi
che non ritrovo, che si sommano ad altri
nel profondo marino di depositi e secoli.

Finché si alza, ride forte e riparte. Anche lui
torna presto insignificante.

[YB]

*

Quando non ci vedi più, immagini tutto. Le cose che sono, quelle che sono state. Le cose che potrebbero essere. Ho negli occhi il paesaggio della mia infanzia – il deserto, le vie della città vecchia, i minareti – e ho nelle orecchie le voci di questa piazza. Ho nelle narici i suoi odori. La campana del tram risuona anche troppo vicina. Il negozio di tabacchi si protende fino a me, insieme alla bottega del fioraio, alla pasticceria, all’edicola con i giornali freschi di stampa. Raggiungo in fretta il marciapiede, prima che arrivi il prossimo tram. Muovo il bastone davanti ai piedi, esplorando l’asfalto. Percepisco i corpi che si scansano per lasciarmi passare.
Mi siedo. Sono stanco. Il cervello lavora per ricostruire lo spazio, immaginando la distanza fra le persone, i palazzi delle banche, il volto di una madre che spinge una carrozzina. Ma nello stesso tempo, con poca fatica, il cervello immagina mia madre: i suoi denti bianchi quando ride, il velo ciclamino dei giorni di festa, le sue mani che impastano la farina. Mia madre, morta da anni, scivola in mezzo a un gruppo di ragazzi in gita scolastica. Il cielo senza confini non è più remoto del piccione che beccheggia a pochi centimetri dalle mie scarpe. Che cosa scegliere?
Potrei vedermi da vecchio al mio paese. Potrei vedermi all’altro capo del mondo. Potrei vedere una donna bellissima sopra i tacchi che si muove, si ferma, si muove. Potrei vedere le labbra che pronunciano parole in tedesco, in inglese, in spagnolo, in italiano, in altre lingue che non conosco. Una donna chiacchiera in arabo al telefono. Rihla sa’ida, buon viaggio. E io resto sulla panchina, con i pensieri che fuggono. Sento una ragazza che dice a un’altra, in tedesco: hai visto che occhi, quello lì? Guarda come sono chiari! Capisco che stanno parlando di un uomo seduto accanto a me. Non so se sia vecchio, se sia giovane, se sia straniero. Lo sfioro delicatamente sul braccio. Lui si volta, mi guarda.
Occhi blu, silenziosi come il mare sognato, come il cielo ricordato, come il tempo della giovinezza e come i pomeriggi che non finiscono mai. Mormoro due parole di scusa e avverto il suo imbarazzo nell’accorgersi che sono cieco. Lui torna a voltarsi dall’altra parte. L’invisibile azzurro del suo sguardo resta con me, ancora per un po’, nel vasto incrocio di Paradeplatz.

[AF]

*

Indietreggiare può fare bene, ogni tanto. Ritornare sulle proprie idee, mostrarsi timidi, lasciare spazio a qualcun altro. Così, all’angolo di Paradeplatz, invece di avanzare sicuri con i nostri taccuini in direzione della solita panchina, indietreggiamo un passo dopo l’altro, fino a ritrovarci all’interno di una corte ricca di marmi, bancomat e boutiques. Qualche metro ancora e compare un bar lussuoso agghindato con qualche pallone, bandierine, finte zolle di finta erba e un trionfante calcio balilla a ricordare il comune gaudio (mezzo mal?) dei campionati del mondo in Russia. Giunge l’eco di frasi lontane, pronunciate a mezza voce dentro un cellulare. Intorno domina la perenne staticità delle pietre levigate. L’unico movimento è quello di una fontana che, sul fondo, lascia intravvedere alcune frasi che scorrono. Sono desideri apparentemente inesaudibili, espressi in più lingue: respirer sous l’eau, essere invisibile, auf einem Teppich fliegen, die Zeit anhalten, be wherever I want…

“Siamo quello che siamo”, si sente dire ogni tanto: “prendere o lasciare”. Invece siamo molto più spesso quello che non possiamo diventare e quello non siamo riusciti a fare. Poco male, la poesia che abbiamo portato con noi sembra proprio uscita da quella fontana e dal flusso di parole: è un’ottava dell’Ariosto, tratta dall’Orlando furioso, dall’episodio di Astolfo sulla Luna (alla ricerca del senno di Orlando).

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

La Luna: ecco dove finiscono i vani disegni e i vani desidèri che rincorriamo per tutta la vita, e che non di rado ci plasmano e ci trasformano. Non si contano, sono moltissimi, e infatti la più parte ingombran di quel loco. Un loco speciale, lassù. Luminoso nel cielo di notte e appena accennato nel cielo di giorno, quando il colore dell’aria non è troppo intenso.
Indietreggiare fino alla Luna: presto scompare Zurigo, poi la Svizzera e l’Europa, i territori si dissolvono nel blu, l’orologio non scorre, la gravità è relativa, spazio e tempo sono una cosa sola, noi ci siamo e non ci siamo.
«Luna!», dice mia figlia di un anno e mezzo indicando il cielo con il dito fragile e deciso. «Sì, è la Luna», rispondo ogni volta. E insieme spalanchiamo gli occhi.

[YB]

*

Altre cose viste: due ragazze che si scattano un selfie davanti ai bancomat; un cieco che entra da Sprüngli; ventinove fra uomini e donne che camminano con un bastone (compreso il cieco); due scolaresche; un uomo che si soffia il naso nella maglietta; un mozzicone di sigaro cubano in un vaso; una donna con un velo ciclamino; una madre che sprona i figli a camminare gridando, in italiano, «È laggiù la fontanella!»; tredici carrozzine; innumerevoli cravatte; nuvole; bandiere; un elefante a rovescio; due monaci buddisti con l’ombrello; un carretto a pedali che trasporta champagne; due donne che indossano abiti dello stesso colore del cielo; un candelabro; cani; sigarette; ciclisti; un uomo altissimo.

[AF]

PS: Ludovico Ariosto pubblicò per la prima volta il suo poema nel 1516. Abbiamo citato l’ottava 75 del canto XXXIV (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Einaudi, 1966; 2015).PPS: Scoprire che il tempo non scorre, e anzi non esiste in quanto tale, può dare qualche vertigine. Ma come dice Carlo Rovelli, «L’assenza del tempo non significa […] che tutto sia gelato e immoto. Significa che l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic-tac […]. È una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici. Il mondo è più come Napoli che come Singapore» (in L’ordine del tempo, Adelphi, 2017).

  

 

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Appunti sui falò (e la luna)

Nei giorni scorsi mi è capitato di trovarmi davanti a un falò sotto la luna. Tutto era com’è da sempre, fin dalla preistoria. Il buio dei prati e dei boschi, il profilo severo delle montagne. Ombre di uomini. Crepitio di fiamme. Voci di bambini spaventati. E insieme tutto era nuovo: telefoni protesi a filmare lo spettacolo, automobili parcheggiate lungo la strada, famiglie di villeggianti salite a prendere il fresco fra una vacanza al mare e il ritorno al lavoro nelle città riarse.
Dopo aver scattato anch’io la mia brava foto, ho ripensato a La luna e i falò, il romanzo scritto da Cesare Pavese tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949 (e pubblicato da Einaudi nell’aprile del 1950). A un certo punto il protagonista, tornato dall’America nelle Langhe del Piemonte, discute della luna e dei falò con l’amico d’infanzia rimasto al paese. Nuto, l’amico, non ha dubbi: i falò svegliano la terra, e anche nella luna bisogna crederci per forza. Piano piano anche il protagonista comincia a sentire il richiamo delle origini. “Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano”. […] Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo più di saperla.
Il senso ultimo della luna e dei falò rimane nascosto sia ai personaggi, sia ai lettori. È una conoscenza arcana, che non si può razionalizzare. Per il protagonista è qualcosa che bisogna avere nel sangue: che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnio di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.
Qual è allora il significato del mio falò? Qualcuno dice: serve a celebrare la Festa nazionale svizzera. Ma questo è solo un pretesto. E quel tizio che si affaccenda a sparare verso il cielo dei piccoli razzi, che fanno un gran botto e sparpagliano qualche scintilla, suscitando lamenti di cani e bambini? Quali sono le radici del suo gesto, che cosa lo induce a trafficare con il fuoco? Anche in questo caso, la parola “festeggiamenti” è una spiegazione vaga. La verità è che la civiltà umana è basata sulla combustione. Lo spiega bene l’autore tedesco Winfried Georg Sebald.
La carbonizzazione delle specie vegetali superiori, la combustione incessante di tutte le sostanze combustibili è ciò che dà impulso alla nostra espansione sulla Terra. Dalla prima torcia a vento sino alle lanterne a riflettore del Settecento e dalla luce di quelle lanterne sino al pallido scintillio delle lampade ad arco sulle autostrade del Belgio, tutto è combustione, e la combustione è il principio intrinseco di qualsiasi oggetto da noi prodotto. La fabbricazione di un amo, la fattura di una tazza di porcellana e la produzione di un programma televisivo si basano, in ultima analisi, su un eguale processo di combustione. Le macchine da noi ideate hanno, al pari dei nostri corpi e del nostro anelito, un cuore che brucia lentamente. L’intera civiltà umana non è stata altro, sin dall’inizio, che un ardere senza fiamma, d’ora in ora più intenso, di cui nessuno sa quanto potrà crescere e quando comincerà a declinare. Per il momento le nostre città continuano a essere illuminate, i fuochi vanno ancora estendendosi.
Inevitabilmente, in un futuro più o meno lontano, tornerà il buio. Allora il senso dei falò, pur rimanendo difficile da cogliere, si farà più urgente, più drammatico nel suo voler lasciare un segno. L’umanità da sempre lotta contro l’oscurità, con ogni mezzo. Fra l’altro, anche ciò che sto scrivendo è legato a una sorta di combustione: non solo quella che manda avanti il mio cuore e il mio cervello, ma soprattutto quella che permette l’esistenza del mio computer. Del resto, senza combustione voi non potreste leggere: la mia luna e il mio falò sarebbero rimasti chiusi dentro di me.
Finora mi sono soffermato sulla luce di fattura umana – il falò – senza parlare della luna, cioè del chiarore che resterà (almeno per un po’) anche quando le nostre città si spegneranno. Ma che si può dire della luna? Quella domanda sospesa sulle montagne, attraversata da lembi di nuvole, è nuova stanotte come lo era un milione e mezzo di anni fa, quando l’Homo erectus accendeva i primi fuochi. Magari è proprio la luna, con il suo enigma, con il suo cerchio perfetto, ad aver suscitato negli esseri umani il desiderio di sapere. I falò preistorici, insieme al bisogno di luce e di calore, esprimevano forse una risposta allo sguardo di quell’insondabile pupilla.
È così, per trattenere la luce o per cercarla, che nascono le opere d’arte. Bruciano nei millenni sempre diversi falò, sotto la stessa luna, e nascono musiche, racconti, poesie, dipinti, sculture. In questi giorni, nella Svizzera italiana è in corso il Locarno Festival. Mentre il mio falò si spegneva, aiutato da un improvviso acquazzone, riflettevo sulla combustione che si cela dietro i film, i riflettori, gli aperitivi, i giornalisti. In fondo non è poi tanto diversa dalla combustione che tra il 25 e il 20.000 avanti Cristo, nella grotta pirenaica di Pech-Merle, permise a sconosciuti pittori di fissare con linee e punti, prodigiosamente, l’aspetto di mammut, cavalli, bisonti, felini, orsi e cervi giganti.

PS: Le parole di Sebald provengono dal volume Die Ringe des Saturn. Eine englische Wallfahrt, pubblicato nel 1995 (tradotto da Ada Vigliani per Adelphi nel 2005 con il titolo Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra). L’immagine con i chevaux ponctués, i “cavalli a pois”, ritrae l’opera più celebre della grotta di Pech-Merle. Circa l’indecifrabilità della luna e dei falò nel romanzo di Pavese, riporto un’osservazione del critico Giovanni Pozzi, il quale riteneva che essi non siano allegorie, cioè non siano significanti ai quali è connesso un preciso significato, ma restino indizi, cioè evocatori allusivi di sensi e non indicatori di significati. L’osservazione proviene dal quaderno Un’analisi di testo narrativo (Pavese, La luna e i falò) all’indirizzo degli insegnanti ticinesi del settore medio, edito a Zurigo da Juris Druck nel 1977. Trovate qui il sito del Locarno Festival e qui quello della grotta di Pech-Merle.

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Winter moon

Qualche giorno fa è venuta un’amica a cena e ha portato un po’ di alghe in una bottiglia di plastica. Aveva con sé anche roba più commestibile – cioccolatini, vino bianco – ma io mi sono sentito subito attratto dalle alghe. Non erano da mangiare, non avevano proprietà curative e in generale non sembravano un granché: la bottiglia di PET lasciava intravedere filamenti verdi, giallastri o bruni. Ma nella loro banalità, emanavano un richiamo misterioso. Mentre ero intento nella contemplazione, mi hanno spiegato che quella minuscola cosa verde era una delle specie viventi più antiche del nostro pianeta.
image1-2 copia 4Un po’ come le felci, ho detto io. O come le lucertole, ha detto qualcun altro. No, no – ha spiegato la persona che aveva portato l’alga – questa è molto più vecchia. Ha circa 400 milioni di anni. Mi sono girato verso la mia amica. Sei sicura? Ha annuito. Era sicura, anno più anno meno. Allora ho guardato di nuovo la bottiglia. Mi sentivo quasi in soggezione. Si chiama Isoetes velata, ha aggiunto l’amica. Varietà sicula. L’alga, nel frattempo, se ne stava assorta nei suoi pensieri.
Abbiamo bevuto un aperitivo, abbiamo parlato, abbiamo mangiato una pizza. E intanto la piccola alga, matriarca di noi esseri viventi, approdata dal mare sconfinato dell’era paleozoica fino a una bottiglietta di PET riciclabile, se ne stava placida nell’acqua. Proprio come ha fatto per milioni di anni, mentre intorno a lei si frantumavano continenti, si sprigionavano vapori, ruotavano senza fine vaste correnti oceaniche, nascevano spugne, scorpioni, vermi, animali con cinque occhi, coralli e muschi e meduse e lunghi tenaci millepiedi e pesci con le pinne che annaspavano sul fango delle rive. La piccola alga era già vecchia nel periodo Triassico, aveva già visto tutto quando il mondo si stupiva per l’apparizione dei protorotirididi nel Carbonifero. Figuriamoci poi il Giurassico e il Cretaceo, figuriamoci le angiosperme con i loro fiori, ah, la bellezza dei fiori. Il gusto della pizza. I primi primati. Gli australopitechi. La bicicletta. Quel brutto ceffo dell’Homo abilis. L’arco e le frecce. Il tubo di scappamento, le sciarpe, i romanzi a puntate. Il coltellino svizzero. Internet, sì, nella seconda epoca del Quaternario è comparso anche internet. Ma prima ancora, è saltato fuori il polietilene tereftalato. E nel 1973 Nathaniel Wyeth ha inventato le bottiglie di PET.
image1-2A questo punto le vie della Isoetes e della bottiglia si sono incrociate, come succede in tutte le storie. E qualche ora dopo sono arrivato anch’io. Naturalmente, la Isoetes è una remota discendente delle sue antenate che popolavano i mari primordiali, ma è riuscita a invecchiare senza troppi cambiamenti. Ecco quindi un modo poco dispendioso per viaggiare nel tempo: mettersi davanti alla Isoetes velata (varietà sicula), fissare lo sguardo, cancellare tutto il resto – la pizza, la casa, la luce elettrica – e immaginare che quello stesso piccolo filamento avremmo potuto incrociarlo 400 milioni di anni fa, così come lo stiamo vedendo ora.
IMG_9781Lo studioso Renato Giovannoli precisa che l’ammissione della possibilità di un viaggio a ritroso nel tempo, nella scienza o nella fantascienza, avrebbe conseguenze devastanti sul piano cosmologico, e per lo stesso “tessuto logico” della realtà. Da sempre gli scienziati e gli scrittori si trovano alle prese con paradossi insormontabili; Giovannoli li analizza meticolosamente fino a intravedere una soluzione nella pluralità dei mondi. Ma si può tentare anche la strada dell’empatia e dell’immedesimazione. Il viaggio nel tempo non è reale? Certo, così parrebbe, ma chi dice che per qualche secondo, per un’infinitesima frazione di secondo, i miei occhi non abbiano scrutato davvero nelle profondità del Paleozoico?
70a3e084f90e85938540b60de2f51840Non c’è nemmeno bisogno di un’alga preistorica, basta una notte serena. Di recente mi è capitato di guidare la notte e di avvistare, sospesa sulle montagne, una falce di luna immensa, limpida e luminosa, come se fosse a pochi metri dalla terra. In questi casi, a volte, parcheggio la macchina e muovo qualche passo fuori dal ciglio della strada, inoltrandomi nei campi o nei boschi. Quando non vedo più tracce della civiltà contemporanea, mi fermo. Intorno a me ci sono arbusti, un masso di pietra, i rami spogli di un faggio. Allora, alzando gli occhi al cielo, guardo la luna.
In questo momento, che differenza c’è tra me e un mio antenato del XIX secolo? Che cosa mi distingue da un uomo del medioevo? La situazione – immobile, ai margini di un bosco, la luna sopra la testa – mi rende contemporaneo di Giulio Cesare, di Napoleone Bonaparte, di un contadino cinese dell’anno mille.
La luna ci accompagna fin dall’inizio. Passano le epoche, cambiano i popoli e la tecnologia, ma il gesto di alzare gli occhi ci lega inestricabilmente ai nostri progenitori. Siamo certi che davvero, per un secondo, non si crei un cortocircuito, una sovrapposizione di universi, siamo certi che per un istante io non possa trovarmi davvero in un’altra epoca? E se tornassi verso la strada e incontrassi solo una mulattiera? E se nessuno sapesse più niente delle automobili e dei computer?

La fantasticheria dura per un minuto, poi mi rendo conto che sono sempre io, soltanto io, Andrea Fazioli, con tutta la mia inevitabile andreafaziolitudine, e che questa è ineluttabilmente una sera di marzo del 2017. Aveva ragione Eraclito l’Oscuro, quando nel 500 avanti Cristo ammoniva: Non scenderai due volte nello stesso fiume. La nostra umanità ci vincola al tempo, siamo inchiodati alla nostra identità, al qui e ora di questa epoca, e sentiamo il tempo che lentamente muta e consuma tutto ciò che conosciamo, compresi noi stessi. Nemmeno la luna è più la stessa luna che guardavano Giulio Cesare o il contadino cinese dell’anno mille. Così dice Borges in una breve lirica: C’è tanta solitudine in quell’oro. / La luna delle notti non è la luna / che vide il primo Adamo. I lunghi secoli / della veglia umana l’hanno colmata / di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio. Lassù non ci sono mondi fantastici, ampolle di senno perduto o conigli giganti, ma ci siamo noi, le nostre sofferenze, le speranze che nei millenni si sono accese in ogni singolo uomo e in ogni singola donna che almeno per un istante, nel corso di una vita, abbia alzato gli occhi verso la luna. Guardiamola. È il nostro specchio.
image1-2 copia 3Nonostante le catene del qui e ora, è forte nell’uomo la tentazione di correre più in fretta del tempo, o di fermarlo per poterlo assaporare. Perciò sono nate mille storie di fantascienza, mille sogni paradossali. È così fin dal Big Bang, quando l’universo è sbucato dal nulla ed è subito caduto nel tempo, è così fin dall’attimo del nostro concepimento, che è come un big bang personale. Tuttavia, possiamo incontrare una distorsione del tempo quando meno ce l’aspettiamo. A me è successo tre volte in questi giorni: prima con l’alga preistorica, poi con la luna invernale sulle montagne e infine – insospettabilmente – facendo la spesa. Infatti anche alla luce artificiale di un grande magazzino potete vivere un’esperienza di crono-distorsione. Basta che all’improvviso, nel settore dei dolci, vi troviate davanti una fila di panettoni, un mucchio di frittelle di Carnevale e un coniglio di cioccolato che vi scruta con i suoi occhietti folli. Allora di sicuro vi fermerete. Natale, Carnevale, Pasqua. Con un soprassalto interiore, vi chiederete: ma che giorno è? Basta poco. Pochissimo. E state già viaggiando nel tempo.

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PS: Il brano Winter moon venne inciso dal saxofonista Art Pepper nel 1980 per l’album omonimo, pubblicato dalla Galaxy nel 1981. Pepper, nato nel 1925, sarebbe morto l’anno successivo. Aveva sempre desiderato suonare con un’orchestra di archi, e fu lieto di poterlo fare in un periodo tranquillo della sua carriera: negli ultimi anni, pur segnato dalle ferite della droga, del carcere e dell’internamento terapeutico, era tornato a lavorare con una certa serenità. Il suo suono è sempre elegante, con un rintocco doloroso. Le note lunghe dei violini tratteggiano l’oscurità del cielo invernale; le vibrazioni del basso costruiscono la struttura su cui, come un fantasma lirico, si arrampica il contralto di Pepper, su, su, fino a disegnare il contorno della luna. Insieme a lui Stanley Cowell (piano), Howard Roberts (chitarra), Cecil McBee (contrabbasso), Carl Burnett (batteria) e gli archi diretti da Bill Holman, che è pure l’arrangiatore del brano, composto da Hoagy Carmichael negli anni Cinquanta.

PPS: A chi ama la fantascienza consiglio caldamente la lettura dell’opera di Renato Giovannoli, intitolata La scienza della fantascienza e pubblicata in edizione riveduta e aggiornata da Bompiani nel 2015 (la prima edizione risale al 1991). Ho citato anche il frammento 91a di Eraclito (lo trovate in I frammenti, Marcos y Marcos 1989) e la lirica La luna di Jorge Luis Borges, tratta da La moneda de hierro, una raccolta del 1976 (in Tutte le opere, Mondadori 1985). Ecco il testo originale: Hay tanta soledad en ese oro. / La luna de las noches no es la luna / que vio el primer Adam. Los largos siglos / de la vigilia humana la han colmado / de antiguo llanto. Mirala. Es tu espejo.
Il dipinto è di René Magritte: Le maître d’école (1954).

PPPS: Grazie ad Alice per l’Isoetes velata (varietà sicula).

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La luna sottoterra

Pensando al carnevale mi ricordo, come se fosse un sogno, di una notte stravolta, rumorosa, e della luna che suonava il sax nel buio di un sottopassaggio. Certo, non era facile trovarla. Le ore correvano piene di grida, scoppi, risate, voli di coriandoli. La città era chiusa in una gabbia. La folla premeva da tutte le parti: maschere, pazzoidi, agenti della sicurezza. Ma dentro quel caos, ad ascoltare bene, c’era il filo di una musica. Bastava seguirlo. Allontanarsi dalla ressa. Superati i lampioni e un cortile deserto, ecco le scale del sottopassaggio. Laggiù, nella penombra, c’era la luna che suonava il sax. E sapete una cosa? Quella luna ero io.
IMG_0034Non è una metafora o roba del genere. Ero proprio io. Nel terzo episodio della web-serie Notte noir c’è una scena in cui il protagonista, durante il carnevale, incontra un ragazzo mascherato da mezzaluna, che si è rintanato a suonare sottoterra. L’episodio, come gli altri sette, è stato girato da Fabio Pellegrinelli; insieme a Marco Pagani, ho scritto la sceneggiatura. Ma poiché la serie è stata prodotta con un forte spirito di gruppo, ognuno dava una mano come poteva. Perciò, pur non avendo nulla dell’attore, mi sono ritrovato un ruolo da comparsa: indossata una luna di cartapesta, ho suonato il sax per qualche secondo nel gelo di una notte di febbraio.
Era il 2014. Scrivere in pochi mesi una serie per il web, ambientata nella Svizzera italiana, è stata un’esperienza preziosa. Con Marco Pagani ci siamo messi giorno dopo giorno al computer, accanto a un camino acceso, e abbiamo provato a far parlare i personaggi. In seguito, ho imparato molte cose anche dalle visite sul set: regista, tecnici e operatori erano tutti professionisti, e lavoravano a questa web-serie perché credevano nel progetto. Ho ammirato la fantasia con cui hanno inventato soluzioni creative impensabili: potete immaginare i mille problemi di una troupe che, nei giorni più freddi dell’anno, ha la bizzarra idea di girare un film ambientato durante il carnevale.

Ecco la presentazione “ufficiale” della web-serie:
Bruno Cesconi, un uomo di mezza età, taciturno, un po’ ruvido, ha perso sua moglie Erika in un incidente stradale. Lavora in una cava di granito, nel nord del Canton Ticino, e dopo la morte di Erika, non ce la fa più a stare a casa da solo. Allora diventa volontario di Nez Rouge, l’associazione che fornisce un servizio a chi, per un motivo o per l’altro, la sera non se la sente di guidare la propria automobile. Nel corso di un lungo inverno di pioggia e di neve, Cesconi scarrozza su e giù per la Svizzera italiana un popolo notturno e bizzarro, composto da ubriaconi, ragazzine sognanti, drogati, lavoratori assonnati, individui patetici o inquietanti. Una sera, scopre per caso qualcosa di sorprendente sulla morte di Erika. Da quel momento comincia un’indagine personale che lo porterà a interrogarsi su di sé e sulla propria capacità di amare.

Oggi, di quei giorni, mi ricordo il gran freddo e l’urgenza creativa. Fabio Pellegrinelli, Marco Pagani, Mauro Boscarato, Adriano Schrade, Edoardo Gemma, Ilaria Antonietti, Davide Briccola, il protagonista Franco Ravera, Emiliano Brioschi, Sara Bertelà e tutti gli altri attori, i ragazzi della Rec, ognuno ha lavorato per dare forma e sostanza a un frammento di realtà notturna. Una piccola storia, a tratti ironica a tratti dolorosa, un racconto noir ma anche una fantasticheria stralunata. La serie ha poi ottenuto premi e riconoscimenti, è stata proiettata al cinema e alla tivù, ma io più che riguardarla preferisco ricordarmela come l’ho vissuta.
Da allora, per me, attraversare un sottopassaggio non è più un gesto scontato. Niente è impossibile. Arriva sempre il momento giusto per tutto: basta aspettare. Anche la luna, quando è bella piena, matura, può cascarti fra le braccia…

PS: La fotografia è stata scattata durante le riprese. Il primo video è la puntata numero uno della serie (le altre sono disponibili qui); l’altro è il backstage. La scena della luna si trova nella puntata numero tre.
La citazione finale di questo articolo proviene da La voce della luna, l’ultimo film di Federico Fellini (girato nel 1990).
Di seguito, per concludere, un’altra fotografia scattata durante le riprese della “scena lunare”: l’occhio attento del regista sorveglia i movimenti delle dita sulla tastiera del sax…
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