Montefusco

Era un giorno d’estate. Me ne stavo davanti al computer, nella penombra della mia stanza, e cercavo di mettermi nei panni di Teresa Manganiello, una contadina vissuta nel XIX secolo in Irpinia (nell’attuale provincia di Avellino). C’era da colmare una distanza geografica e psicologica: io uomo, lei donna; io scrittore, lei analfabeta; io con i miei guai ordinari, lei proclamata beata dalla Chiesa cattolica nel 2010. In più, non sapevo niente dell’Irpinia. Che fare? L’unica era non pensarci e mettermi a scrivere, giocando proprio sulla distanza, sulla lontananza che paradossalmente può creare legami invisibili e profondi. Come dice Attilio Bertolucci in una sua lirica, talvolta l’assenza può diventare una più acuta presenza.
img_7194Ho raccontato qui (e anche qui) come per avventura mi sia trovato a scrivere La beata analfabeta, il romanzo uscito da poco per le edizioni San Paolo. Anche dopo la pubblicazione, tuttavia, per me i luoghi di Teresa erano rimasti un territorio appartenente all’immaginazione. Finché, pochi giorni fa, sono andato a presentare il libro nel cuore dell’Irpinia, a Montefusco.
Mi emoziona sempre scoprire un luogo sconosciuto, vicino o lontano; e l’emozione è più intensa quando ho letto una storia che si svolge proprio lì. Ma è ancora più strano arrivare per la prima volta in un posto dove – senza esserci mai stato – ho ambientato un intero romanzo.
img_8413Naturalmente mi ero documentato: ho visto video e fotografie, ho letto libri e incarti, mi sono avvalso dell’aiuto di chi conosce quella zona. Volevo essere preciso nei dettagli. Ho cercato di suscitare nella mia testa gli odori, i sapori, anche la durezza della terra. In un certo senso, ho disegnato il paesaggio di una “mia” Irpinia, che non corrisponde per forza a quella reale. Tuttavia, appena arrivato, avevo la sensazione che ogni cosa coincidesse, che tutto fosse fin troppo ovvio: le colline, i vigneti, le gallerie, le insegne ai bordi della via. Dov’erano i miei personaggi? Dov’era Teresa? Non che mi aspettassi d’incontrarli per strada, ma avrei voluto sentirne almeno l’atmosfera. Proprio come mi succede quando, in un bistrot di Parigi, pur senza vederlo, percepisco la presenza massiccia del commissario Maigret, il fumo del suo tabacco Caporal. Invece l’Irpinia era soltanto l’Irpinia, senza punti di fuga.
img_8431Ma come capita nei viaggi, la realtà aspetta soltanto che siamo distratti per coglierci di sorpresa. Mentre salivo verso Montefusco, osservando il paese che appariva da lontano come una nave rovesciata, ho intuito che il paesaggio mi stava aprendo le braccia. E lassù, finalmente, guardando i tetti che digradavano verso la campagna sterminata, ho trovato il mio punto di fuga: il paesaggio era come l’avevo descritto e, nello stesso tempo, era misterioso.
img_8430L’ascesa verso Montefusco non era un percorso solo fisico, ma una ricognizione lungo le asperità del mio immaginario. Il cielo nuvoloso, le colline grigie che sfumavano in lontananza, la mole azzurra degli Appennini: un tempo e uno spazio inconoscibili si mescolavano alle coordinate geografiche, nell’ultima luce del giorno. Ogni frammento di realtà, finalmente, era “atmosfera”: la luce, i lampioni, il taglio austero degli edifici. I miei personaggi si erano mossi fra quelle sensazioni. Compreso il narratore, il giovane Matteo Maggi, un insegnante disoccupato che si trova a dover scrivere un saggio su Teresa Manganiello.

Le vie di Montefusco salivano a strappi, con tagli improvvisi, curve, piccole aperture segrete, angoli nascosti fra la parete di un palazzo e una piccola automobile parcheggiata chissà come di traverso. Palazzo Ruggiero, san Giovanni del Vaglio, via Pirro de Luca, la Torre civica persa nella nebbia… le strade che avevo imparato a conoscere prendevano un aspetto diverso, come se fossimo fuori dal tempo o, in ogni caso, fuori dalla quotidianità. Il corso, il palazzo baronale, ogni cosa aveva un aspetto inquietante. Un arco gotico sopra un vicolo diventava di colpo un passaggio verso una dimensione sconosciuta. E allora ogni parola, nel momento in cui risuonava, era pericolosa.

img_8404Elena Di Renzo, una delle protagoniste, a un certo punto cita un pensiero di Friedrich Hölderlin: Tutto è intimo. Questo vale per l’avventura dell’animo di Teresa, che senza muoversi dalla sua fattoria seppe raggiungere profondità spirituali straordinarie. Ma vale anche per Matteo, per la stessa Elena. Ognuno, a suo modo, impara che cosa significhi l’accoglienza: le cose ci accadono davvero solo quando le lasciamo entrare nella nostra sfera più intima.
Anche per me, a Montefusco e a Pietradefusi, tutto era insieme intimo e segreto. La serata di presentazione del romanzo mi ha colto di sorpresa, proprio come aveva fatto la visione di Montefusco. Ho ascoltato le analisi dei critici, ho parlato con lettrici e lettori, e mi sono posto nuove domande sul mio libro, sui miei personaggi. Poi la sera, tornato in albergo, mentre dalla mia finestra contemplavo un Babbo Natale luminoso che puntava verso l’alto (più o meno in direzione di Montefusco), ho pensato che in fondo uno scrittore non capisce mai davvero i suoi personaggi. Ed è proprio questo il bello della scrittura.

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PS: I versi di Bertolucci provengono dalla lirica Assenza, tratta dal suo primo volume, intitolato Sirio (pubblicato dal poeta diciottenne nel 1934, ora nelle Opere edite da Mondadori). Ecco il testo completo: Assenza, / più acuta presenza. / Vago pensier di te / vaghi ricordi / turbano l’ora calma / e il dolce sole. / Dolente il petto / ti porta, / come una pietra / leggera.

PPS: Voglio esprimere un grande ringraziamento alla scrittrice Antonietta Gnerre, che mi ha aiutato nella scrittura e che conosce Teresa Manganiello fin da bambina (ecco qui un suo intenso articolo dove parla sia dell’Irpinia, nelle circostanze drammatiche del terremoto, sia di Teresa). Ringrazio anche, per le belle parole sul romanzo, Rita Pacilio e Cosimo Caputo. Son grato pure a padre Antonio Salvatore, a suor Concetta Emanuela Zaccaria, a Teresa Lombardo, a Saverio Bellofatto, a Pietro Luciano, a Fiorenzo Troisi e a Melania Panico, per la loro accoglienza e per la loro gentilezza. Un pensiero a Fausto Baldassarre e a Pino Tordiglione, le cui opere mi sono state di aiuto. Non posso citare qui tutti i presenti a Montefusco, ma a tutti esprimo la mia gratitudine; in particolare, ringrazio i membri dell’Associazione Premio Prata e la giuria del premio Anfiteatro D’Argento.

PPPS: Dopo Milano e Montefusco, si parlerà del romanzo La beata analfabeta pure in Svizzera, nel corso di una serata con Luca Doninelli. L’incontro, durante il quale Doninelli parlerà anche del suo romanzo Le cose semplici (Bompiani), si terrà lunedì 12 dicembre alle 20.30, nell’Aula magna delle Scuole elementari di Massagno.

PPPPS: La prima fotografia, che rappresenta Montefusco, è di Antonietta Gnerre. È fuori stagione… ma il paese si vede bene. Le altre, invece, sono state scattate durante il viaggio.

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Vulcani

Accanto alle vie affollate, se ci si ferma a guardare, ci sono sempre isole di vuoto. Anche nelle grandi città, nei luoghi più caotici. Sabato scorso ero a Milano: alle dieci di sera, mi sono trovato in mezzo alla folla che popola i Navigli; ma è bastata una deviazione, pochi metri in una strada oscura, ed eccomi in una via che pareva rubata a un villaggio. Mi sono fermato a respirare. Dopo un po’, anche quella zona desolata ha mostrato di essere viva.
img_7388Per prima cosa un neonato ha cominciato a piangere. I genitori, che stavano spingendo la carrozzina, si sono chinati sulla bimba, chiamandola per nome, cercando di placarla. Poi la madre, con gesti misurati, esperti, ha indossato un’apposita imbracatura e ha collocato la figlia contro il suo corpo, sotto il cappotto. Quasi istantaneamente la bambina ha smesso di piangere. La scena è avvenuta vicino a un lampione, mentre io stavo dall’altra parte della strada. Ho alzato gli occhi e ho visto, nel muro di un caseggiato, il riquadro luminoso di una finestra: c’era una stanza da bagno con un boiler, una parete piastrellata e uno specchio. Davanti allo specchio, una ragazzina fra gli undici e i tredici anni si stava lavando i denti; nello stesso tempo ascoltava musica con gli auricolari del telefono, accennando qualche movimento di danza. A un certo punto si è messa a cantare: usava lo spazzolino come se fosse un microfono e sperimentava nello specchio qualche espressione da rock star.
img_7469Ho ripreso a camminare. Mentre tornavo alla mia automobile, ripensavo alla scena. Come se ci fosse la mano di un regista, in pochi secondi si era dispiegato davanti ai miei occhi un piccolo universo al femminile: la bimba che strilla, il sorriso della giovane madre, i suoi gesti sapienti, e infine la ragazzina che si lascia trascinare dalla musica, sognando forse di essere su un palcoscenico (ma ignara di me, il suo unico spettatore).
Le manifestazioni dell’animo femminile, per quanto uno passi la vita a studiarle, conservano sempre un lembo di ignoto. Tutto è misterioso: lo strillo e la paura della bimba, la tenerezza della madre, la vitalità della ragazza che canta nello spazzolino. Quest’ultimo caso, in particolare, è forse un esempio di come lo spirito femminile sia capace di trasfigurare la realtà. Anche nelle situazioni più impensate o più banalmente quotidiane, una delle maggiori forze della femminilità mi pare proprio questa profonda capacità immaginativa, questa tensione a cambiare le cose senza il fracasso di gesta roboanti, ma con una adesione potente alla propria intimità.
img_7451Spinto da questi pensieri, ho ripreso in mano un saggio di Grazia Livi: Da una stanza all’altra. Woolf, Austen, Dickinson, Percoto, Mansfield, Nin. Sei maniere diverse di affrontare il conflitto fra vita quotidiana e vocazione alla scrittura. Edito da Garzanti nel 1984, il libro racconta sei figure femminili, mettendo l’accento sulla loro diversità rispetto all’ambiente nel quale vivevano. Si parte da Virginia Woolf e dal suo desiderio di una stanza tutta per sé, in cui riflettere, lavorare, soprattutto desiderare, desiderare sempre il vero, attenderlo laboriosamente, distillare poche parole. Secondo Grazia Livi, dentro ognuna di queste donna preme il bisogno di far confluire tutto ciò che accade al centro della propria persona. Il bisogno di essere vigile, assorta, silenziosa, riunita. Il bisogno di stare in disparte, per preservare la sua crescita, per far germogliare il seme.
Per queste autrici la difficoltà era anche sociale e culturale. Ma neppure oggi è facile accedere a questa stanza privata; se lo fosse in senso materiale, resterebbero i legami invisibili, l’eterna connessione in cui siamo immersi. Questo vale non solo per chi scrive. Credo che ogni persona, in certe circostanze, senta l’esigenza di una stanza tutta per sé e di qualcuno con cui, nei tempi e nei modi appropriati, condividere questo spazio di riflessione, di creatività.
dsc_7585È chiaro che per una come Emily Dickinson (1830-86) non doveva essere semplice trovare persone (anime, avrebbe detto lei) con cui avere una corrispondenza di pensieri e sentimenti. Lei stessa se ne accorgeva, captando qualche perplessità nelle conversazioni. Io sono colei a cui tutti dicono: cosa? Pochi riuscirono a intravedere che cosa si nascondesse sotto quel silenzioso vulcano. Scrisse in una delle sue millesettecentosettantacinque poesie (scoperte dopo la sua morte): Sul mio vulcano cresce l’erba: / luogo contemplativo / parrebbe a tutti, adatto / al nido di un uccello. / Come dentro lingueggi rosso il fuoco, / come precaria sia la zolla / se lo svelassi, subito il terrore / invaderebbe la mia solitudine. (Ecco qui il testo originale). In generale, l’immagine del vulcano si addice anche ad altre scrittrici. Prendiamo Jane Austen (1775-1817), di cui Grazia Livi descrive bene non solo il primo impeto creativo giovanile (di cui parlerò un’altra volta) ma anche il lavoro in età più matura, in mezzo a mille distrazioni.

La sua caratteristica, agli occhi dei nipoti, è l’amabilità. Solo a volte, entrando all’improvviso nel salottino, zia Jane appare diversa. Se ne sta al tavolino assorta, accigliata, quasi fosse intenta a un segreto. «Che stai facendo, zia?» chiede Fanny. «Nulla, nulla. Pensavo.» La creatività, che scorre serena sulla carta nel silenzio di certi mattini, non è un fatto comunicabile, è un fatto personalissimo. Non solo. È una scelta vivificante, che appartiene alla sfera interiore, alla sfera dell’equilibrio. Spiegarla è impossibile. Inoltre lei, essendo nubile, non ha alcun diritto di pronunziare la parola “io” ad alta voce. «Zia, si può giocare insieme? O vuoi che ritorni più tardi?» «Ma no, cara, resta, resta.» Si è già tolti gli occhiali, li ripone dentro l’astuccio di raso. «Ti do noia? Stavi forse scrivendo?» insiste Fanny affettuosamente. «Figurati! Neanche per sogno» e Jane, sorridente, è già in piedi, dopo aver fatto scivolare un foglio sotto la carta asciugante.

La metafora del vulcano si addice bene a queste autrici, ma può essere utile anche per avvicinare persone più elusive, lontane da ogni manifestazione artistica. Di recente ho studiato la figura di Teresa Manganiello (1849-76), di cui mi sono trovato a raccontare la storia nel volume La beata analfabeta.
la-beata-analfabetaNon è stato facile scriverne, perché la sua fu una vita nascosta, un vulcano di cui a prima vista era difficile scorgere il fuoco. Di certo Teresa aveva una sensibilità religiosa, una tensione spirituale e una capacità mistica che la rendevano diversa dalle sue coetanee. Contadina, povera, analfabeta, in che modo avrà saputo gestire la sua singolarità? In che modo avrà conciliato le esigenze della vita quotidiana con lo slancio creativo? Si può essere creativi pure senza conoscere l’alfabeto; e Teresa, così ho immaginato nel romanzo, deve avere avvertito fin da bambina un misterioso divario: Le sue amiche le danno una spinta, la invitano a correre più forte. Teresa le segue, e ride con loro, ma sente dentro di lei la ferita della differenza. Sono nate nello stesso anno, hanno visto le stesse cose e hanno più o meno gli stessi parenti. Com’è possibile che Teresa si senta così sola?
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Vorrei concludere parlandovi di un’altra figura femminile, un altro vulcano che, in qualche modo, riuscì a illuminare il cielo con la sua musica: Mary Lou Williams (1910-81). In un mondo fortemente maschile, com’era la musica jazz agli inizi del Novecento, riuscì a emergere come pianista, come compositrice e come arrangiatrice. Con grande apertura mentale e versatilità, seppe poi rinnovarsi di continuo, passando da uno stile all’altro, dallo swing di Andy Kirk, Earl Hines e Benny Goodman al bop di Dizzy Gillespie fino al free jazz di Cecil Taylor. Oltre ad avere in qualche modo influenzato alcuni grandi musicisti (Thelonius Monk, per dirne uno), ne aiutò molti in difficoltà per problemi di alcol e droga. Duke Ellington diceva che era perpetually contemporary, sempre attuale, e la definì in questo modo: She is like a soul on soul (come l’anima all’ennesima potenza). Il critico Enrico Bettinello scrive che spesso si è usata la parola anima per parlare di Mary Lou Williams. E si capisce perché: basta ascoltare due minuti di un qualunque blues, registrato da Mary Lou Williams un anno prima di morire…

Mi piace immaginare che questo blues esprima uno slancio verso la libertà, la creatività, la forza dell’immaginazione: questa musica, in qualche modo, è uscita da una stanza tutta per sé. E chissà, magari quella ragazzina, in quella via oscura di Milano, con il suo spazzolino-microfono, apprezzerebbe il tocco deciso e il fraseggio soulful di Mary Lou Williams.

PS: Del romanzo La beata analfabeta, e quindi anche di Teresa Manganiello, avevo già parlato qui.

PPS: Le citazioni di Virginia Woolf, Emily Dickinson e Jane Austen provengono dal volume di Grazia Livi, di cui ho già dato le indicazioni bibliografiche (e di cui riparlerò prima o poi). La lirica di Emily Dickinson la trovate anche, con una traduzione diversa, in Poesie (Mondadori 1995). Il saggio di Virginia Woolf intitolato A Room of One’s Own (“Una stanza tutta per sé”) fu pubblicato per la prima volta il 24 ottobre 1929. La citazione di Duke Ellington è tratta dalla sua autobiografia Music Is My Mistress (uscita nel 1973; pubblicata in italiano da Minimum fax con il titolo La musica è la mia signora nel 2007 e poi nel 2014). La frase di Enrico Bettinello proviene da Storie di jazz (Arcana 2015). Di Mary Lou Williams, per cominciare, non è male l’antologia Mary Lou Williams 1951-53 (Classics 2006): il suono è un po’ disturbato, ma l’anima è inconfondibile.

PPPS: L’immagine di Mary Lou Williams proviene da internet. Grazie a Martina per la foto del vulcano.

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Elogio degli invisibili

Che cosa accade a un romanzo, dopo che l’hai scritto? Se viene pubblicato, se qualcuno lo legge, vuol dire che la tua presenza non è più necessaria. Ma dove vanno a finire quei personaggi, quel mondo che era così intimamente tuo? E tu, che hai trovato questa storia e hai provato a narrarla, tu – autore – hai ancora il diritto di aggirarti nel “tuo” mondo?

Di recente mi è capitato di prendere in mano una copia del mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda). Ho sfogliato qualche pagina: mi parevano le parole di un altro. Allora Mario, il suo tormento, il suono del sax fra i mobili di Dolcecasa, i tatuaggi di Lisa, Contini che si aggira nei boschi… tutto questo non è più roba mia? Di sicuro, è ancora radicata dentro di me la domanda su che cosa sia il fallimento, su come si manifesti nella nostra vita.
img_7161Mi è tornata in mente una lirica di Walt Whitman, che avevo letto anni fa. Il titolo è A quelli che hanno fallito. Ecco la traduzione (qui l’originale): A quelli che avevano alte aspirazioni, e hanno fallito, / ai militi ignoti caduti in prima fila, combattendo, / ai macchinisti tranquilli e fedeli – ai viaggiatori troppo 
ardenti – ai piloti nelle loro navi, / ai numerosi sublimi canti o dipinti mai riconosciuti –
 vorrei erigere un monumento tutto coperto
 d’alloro, / alto, più alto di ogni altro – / a quanti furono falciati
 prima del tempo, / posseduti da uno strano spirito di fuoco,
 spenti da una morte precoce.
Queste parole, in maniera curiosa, mi hanno restituito L’arte del fallimento. Da sempre la mia attenzione è attratta dai militi ignoti, da quelli che sono posseduti (e bruciati) da uno strano spirito di fuoco. Non sono per forza vicende epiche: tracce di storie perdute s’insinuano pure tra i frammenti della quotidianità. Nel romanzo, Mario non riesce a trattenere uno sfogo.

«Una volta sono passato davanti alla casa di un mio compagno delle medie. Cioè, la casa dei suoi genitori: lui si è bruciato il cervello con le droghe a vent’anni, ora ne dimostra cinquanta e gira per la città parlando da solo. Un altro compagno invece ha due bambini, organizza le feste di compleanno dei figli e applaude ai loro saggi musicali. Perché? Che cosa è successo a quei due, che erano nella stessa classe?»
Mario riprese fiato. Il silenzio intorno era irreale. Pareva che Lisa non respirasse nemmeno.
«Chi li vede mai tutti gli sbandati, quelli rimasti indietro, quelli che si sono schiantati, gli sfigati, quelli che a quindici o a venticinque anni hanno avuto il loro momento di gloria e adesso fanno finta che sia tutto normale? Guarda, il mondo è pieno di falliti che non si riprendono.»

I fallimenti sono ovunque: nella cronaca, nei luoghi di lavoro, nello sport. In un breve capitolo di Addio al calcio (Einaudi 2010), Valerio Magrelli riassume la vicenda di Claudio Valigi: nato nel 1962, centrocampista brillante, all’inizio degli anni Ottanta era conteso da varie squadre di Serie A. Acquistato dalla Roma, partecipò alla vittoria dello scudetto 1982-83. L’allenatore Niels Liedholm lo soprannominò “erede di Falcão”, per una somiglianza nello stile con il campione brasiliano. Da quel momento, non seppe mantenere le aspettative: passò al Perugia, al Padova, giocò a Messina, Benevento, Mantova, finché abbandonò l’attività agonistica. Claudio Valigi – commenta Magrelli – è il nostro milite ignoto. Rappresenta le decine di migliaia di ragazzi caduti sul percorso della gloria senza arrivare a ottenerla.
img_7156Non sempre, tuttavia, l’invisibilità è sinonimo di fallimento. Certo, il percorso professionale di Valigi sembra una sconfitta. Ma che cosa ne sappiamo noi del suo destino, della sua coscienza, del suo modo di stare al mondo? Ci sono smarrimenti inevitabili, che non sono il prologo di una vittoria né un insegnamento di saggezza; ma che, semplicemente, ci rendono noi stessi. E non è poco.
Se c’è una speranza, secondo me, essa proviene dagli “invisibili”. Sono quelle figure che si muovono nel profondo della vita reale, lontani dagli specchi mediatici e dal tam-tam impazzito dei social network. Magari ci sono tanto prossimi che li diamo per scontati: un collega, un insegnante, un vicino di casa. I loro segni distintivi sono la discrezione, la pazienza, la serenità. Non sono per forza nostri amici intimi, ma si rivelano nei momenti drammatici. Per una persona inquieta, come me, la presenza di queste figure è un appiglio: un pro-memoria, perché il caos non prevalga.
image1Tempo fa ho cenato in una casa dove, sopra il camino, c’erano alcuni pezzi di pietra che parevano frammenti di un dipinto. Mi hanno spiegato che nei paraggi era crollata una cappella votiva, una fra le tante che punteggiano i sentieri di montagna, senza particolare valore artistico. Prima che sgomberassero le macerie, qualcuno era riuscito a salvare qualche residuo. Di chi sono quegli occhi, quella bocca scampati al crollo dell’affresco? Nessuno può dirlo: il “santo invisibile” se ne sta fermo sulla mensola, chiuso nel suo silenzio. Anzi, in un certo senso – contro ogni previsione – si è mosso. Da un paese di montagna è atterrato qui, sul mio blog, dove continua a fare ciò che faceva da sempre: guardarci.
Ho incrociato di recente il percorso di un’altra figura religiosa, stavolta provvista di nome e cognome: si tratta di Teresa Manganiello (1849-76), vissuta a Montefusco, in Irpinia, e proclamata beata nel 2010. Non sapevo niente di lei, finché un anno fa mi proposero di scrivere la sua storia per le edizioni San Paolo. Il libro avrebbe fatto parte di una nuova collana, “Vite esagerate”, il cui intento era di raccontare persone legate alla fede, ma di farlo in maniera laica, non agiografica, con un’attenzione agli aspetti umani delle vicende.
img_7169All’inizio ero scettico, non avendo esperienza di questo tipo di narrazione. Mi spiegarono che era questa l’idea: un approccio personale a una figura già raccontata (pure in un film della RAI) e già studiata dagli specialisti. Con un pizzico di follia, accettai. Era una bella sfida, anche perché il percorso di Teresa è intrigante: morì ad appena ventisette anni, dopo una vita senza scossoni, sempre in un piccolo paese di campagna. Com’è possibile che sia sfuggita all’oblio, che qualcuno si ricordi di lei? Eppure c’è perfino un ordine religioso nato dal suo esempio: le suore francescane immacolatine, presenti in tutto il mondo. Sebbene non abbia compiuto azioni clamorose, aveva un carisma che seppe affascinare prima i suoi compaesani e poi molti altri, fra cui anche dotti e sapienti. La cultura non proviene solo dall’alfabeto: Teresa non sapeva né leggere né scrivere, ma aveva sviluppato una conoscenza approfondita delle piante e delle erbe medicinali, che usava per curare i poveri, i prigionieri, gli invisibili derelitti che non mancavano nella sua epoca, così come nella nostra.
img_7194Ho potuto avvalermi dellaiuto di Antonietta Gnerre, poetessa e giornalista che vive in Irpinia e che ha scritto la postfazione del romanzo. Grazie ai suoi preziosi consigli, ho viaggiato idealmente fra le vie di Montefusco, cercando di risalire il tempo e di identificarmi – io, scrittore del XXI secolo – con una contadina analfabeta di duecento anni fa. Il romanzo si trova in libreria; sulla quarta di copertina c’è questa frase: Teresa Manganiello è un’anomalia. Non è figlia del suo tempo, non è il prodotto di un’educazione e di una cultura. È un imprevisto, un mistero che si è manifestato un giorno qualunque.

PS: La lirica di Whitman risale al 1888-89 e proviene da Sands at Seventy (“Granelli di sabbia dei settant’anni”), nel volume Foglie d’erba, con la traduzione di Alessandro Quattrone (Demetra 1997). Il romanzo La beata analfabeta verrà presentato a Milano lunedì 10 ottobre, alle 18, nella Libreria San Paolo di via Pattari 6. Sarà presente anche il curatore della collana, Davide Rondoni (trovate qui il suo breve commento).

PPS: La fotografia di Whitman proviene da internet; quella di Montefusco è di Antonietta Gnerre (è scattata da un luogo dove probabilmente Teresa passava spesso, nelle sue escursioni alla ricerca di erbe curative).

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