Baci e abbracci!

CARTOLINE (LUGLIO)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 25
Da Imladris (Gran Burrone), Terra di mezzo
È strano scriverti da qui. Tutto è silenzio malgrado i suoni, che sembrano fondersi con lo spazio e il tempo. L’armonia è in ogni cosa e la Natura va scritta con la “n” maiuscola, e significa beninteso molto di più di quanto riusciamo a immaginare. C’è qualcosa di ciclico e al tempo stesso immobile. Non si può che stare bene, penserai, in questa pace sospesa, ma continuiamo a muoverci irrequieti e nervosi. Parliamo poco, perché c’è poco da dire, ma sentiamo che questa «Casa Accogliente» appartiene a qualcun altro. I nostri sguardi continuano in segreto a guardare verso sud, verso le Montagne Nebbiose. Certo è un peccato non godersi questo luogo unico. Forse siamo troppo, dannatamente vivi per riuscirci.

CARTOLINA NUMERO 26
Da Paradeplatz, Zurigo, Svizzera

Baci e abbracci da Paradeplatz! Non è la prima volta che ci fermiamo da queste parti. Abbiamo infatti costruito due case, una per uno, e ci piacerebbe tirare su un albergo. Ma chi lo sa? Da un minuto all’altro un colpo di dadi potrebbe condurci altrove, magari sul tram numero 13, capolinea Frankental. Oppure direttamente in prigione senza passare dallo Start.

CARTOLINA NUMERO 27
Da un pozzo nel deserto
Aman iman, dicono i Tuareg. L’acqua è la vita. Dopo un lungo viaggio abbiamo avvistato un segno, qualcosa che in lontananza sembrava enorme – una torre altissima – e che da vicino era un cumulo di sassi intorno a un pozzo. Aman iman: a pensarci, era davvero qualcosa di enorme. I Tuareg raccontano la storia di due viaggiatori che arrivano a un pozzo parzialmente ostruito. Uno dei due, impaziente, abbevera il dromedario, riempie la borraccia e riparte. L’altro si ferma, rimuove le pietre, riesce a calarsi nel pozzo. Dopo qualche metro trova dell’acqua più buona di quella che affiorava alla superficie. Ma c’è un ingombro di materiali. A questo punto, l’uomo s’interroga: devo accontentarmi di questo rivolo o devo scavare ancora, rischiando e faticando, per cercare un’acqua più fresca, più abbondante, più pura? Per un po’ siamo rimasti, tentando di scavare, di scrivere più a fondo. Ma il viaggio deve proseguire: nuovi giorni di polvere e di piste scavate nell’arsura. Abbiamo infine raggiunto una grande oasi, dove crescevano legumi, cereali, arance e pompelmi. Una cascata riempiva un bacino di pietra e il miracolo dell’acqua faceva fiorire la vita intorno. Dopo qualche giorno, ancora, siamo ripartiti. Abbiamo camminato nell’assenza, nella sete, nel desiderio, fino a un altro cumulo di sassi intorno a poche stille d’acqua. Assägaru änuwän: è sempre il pozzo il luogo del ritorno.

CARTOLINA NUMERO 28
Da Chicago, Illinois, Stati Uniti
I grattacieli, il blues e l’area metropolitana di quasi dieci milioni di abitanti rivelano quello che ci si può attendere a Chicago. È una gioia, un trionfo per le guide turistiche che celebrano la Windy City e le sue highlights: l’architettura, i concerti, la sopraelevata del Loop, i musei, la deep-dish pizza, per non parlare di uno degli skyline più famosi e mozzafiato del mondo. Poi però ci siamo persi negli andirivieni della metropolitana e ci siamo ritrovati in riva al lago Michigan, noi, avvezzi ai laghi prealpini che s’incuneano sì fin dentro le viscere della Terra, ma alla luce del sole offrono piccoli e rassicuranti specchi d’acqua. Il Michigan invece è più vasto del cielo: se rimani a guardarlo per un po’ assorbe tutto. Anche il nostro fugace e infinitesimo riflesso.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20 e qui dalla 21 alla 24.

PPS: La cartolina numero 25 fa riferimento alla geografia creata dallo scrittore britannico John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), autore fra l’altro dei celebri Lo hobbit e Il Signore degli Anelli. La cartolina è un’immagine realizzata dallo stesso Tolkien.

PPPS: La cartolina numero 26 invece fa riferimento alla versione svizzera del gioco Monopoly: “Zürich Paradeplatz” è la destinazione più prestigiosa (e più costosa).

PPPPS: La fotografia della cartolina numero 27 ritrae la cascata di Timia, nel massiccio dell’Aïr, in Niger. Ringraziamo Kane Annour Ibrahim per l’immagine e per l’ispirazione. Ricordiamo che lo stesso Ibrahim ha scritto insieme a Elisa Cozzarini il libro Il deserto negli occhi (nuovadimensione 2013), in cui racconta la sua vita e il suo viaggio dal Sahara all’Europa.

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Tony Camonte

Ogni giorno vivo momenti di solitudine. Può capitare mentre guido, in mezzo al flusso delle altre automobili. Oppure mentre cammino, mentre la sera aspetto che il sonno mi raggiunga. Mentre scrivo, chiuso nel mio studio. O perfino durante una conversazione: mi distraggo, fuggo con la mente per qualche secondo… di colpo, mi pare di essere un viaggiatore perso nel cuore del deserto.
Desert-B7X-800x600A volte mi raggiunge una solitudine più pericolosa, più strisciante. Il dubbio di non riuscire a comunicare come vorrei, il sospetto che i legami umani non riescano a vincere la differenza, la singolarità insanabile che mi separa dal mondo.
Di recente mi è capitato di guardare qualche film degli anni Trenta, tra cui Scarface, girato da Howard Hawks nel 1932. È un titolo che molti conoscono per l’omonimo rifacimento del 1983. Nella versione più moderna, diretta di Brian De Palma, Al Pacino è bravo nell’interpretare il mafioso che vuole conquistare il mondo; ma l’originale, con Paul Muni nel ruolo del gangster Tony Camonte, è più efficace nel dire quanto possa essere straziante e pericolosa la solitudine.
scarface-20Il protagonista si trova più volte a contemplare dalla finestra la scritta di un’agenzia di viaggi: THE WORLD IS YOURS. Nelle varie scene, queste parole assumono ora un valore profetico, ora un tono amaro di sconfitta. In fondo, Tony Camonte ha sentimenti molto semplici, non dissimili da quelli che tutti abbiamo provato da bambini: vuole possedere le cose che gli piacciono, i bei vestiti, le automobili, le ragazze, la stima degli amici e della famiglia. Secondo alcuni critici, addirittura, la gestualità e le espressioni di Muni fanno pensare a una scimmia o all’uomo di Neandertal, e nella sua passione per gli oggetti di lusso ritrovano qualcosa dell’attrazione del selvaggio per le perline colorate. Leonardo Gandini, in un saggio sul film, parla di un conflitto essenzialmente primitivo, brutalmente concreto nelle premesse, negli sviluppi e negli esiti.
In realtà, quel conflitto ce lo portiamo dentro tutti: la nostra parte più viscerale, più istintiva, vorrebbe possedere ciò che desidera, o nella migliore delle ipotesi vorrebbe perdersi in ciò che ama, fino a smarrire la propria identità. È un modo di reagire alla solitudine, ma è destinato a condurre a una solitudine più profonda, a far crescere il deserto interiore così come quello esteriore.

Fin dalla prima scena (a partire da 0.52), il film incanta gli spettatori e mostra quanto sia letale l’isolamento. È l’alba. Un inserviente sta spazzando i resti di una festa al Costillo Café: stelle filanti che avviluppano i tavoli, decorazioni, perfino un indumento femminile. Sono andati via tutti: soltanto il padrone, il gangster Big Louis Costillo, è ancora seduto a un tavolo insieme a qualche sgherro. Promette che organizzerà una festa ancora più grande, perché Big Louis è arrivato in alto; ormai ha tutto: una casa, un’automobile, una ragazza. Rimasto solo, il gangster va a telefonare. Allora vediamo avvicinarsi l’ombra di un individuo, che si sovrappone alla croce del telaio di una finestra. L’uomo-ombra sta fischiettando un motivo (che tornerà nel film). Si avvicina a Big Louis e lo ammazza con un colpo di pistola. Poi avvolge l’arma in un fazzoletto, la getta vicino al cadavere e se ne va. L’inserviente arriva e vede il cadavere. Senza scomporsi, si toglie il grembiule e indossa la giacca, prima di lasciare il locale. Il tutto è filmato in una sola lunga sequenza. Subito dopo, i giornali parlano di una gang war, una guerra fra bande.

Il film è girato con grande perizia narrativa, anche grazie all’abilità dello sceneggiatore Ben Hecht, nonostante i paletti imposti dalla censura. Le prime e le ultime scene sono più distese. Le scene centrali, invece, seguono un montaggio serrato e pongono sempre fuori campo la violenza e i suoi effetti. È famosa, per esempio, quella che secondo il regista François Truffaut, è la più bella inquadratura della storia del cinema. Un gangster nemico di Camonte, interpretato da Boris Karloff, sta giocando a bowling. Per lanciare una boccia fa un piegamento delle gambe, ma non si raddrizza più perché una raffica di mitra pone fine al suo movimento: la cinepresa riprende la sfera che rovescia tutti i birilli meno uno, che gira a lungo su sé stesso prima di cadere. Specifica Truffaut: Non di letteratura si tratta; forse è danza, forse poesia, sicuramente cinema.
1468679918-006-scarface-theredlistIl ritmo delle scene centrali rispecchia in qualche modo l’arma che domina molte sequenze: la voce lacerante del mitra – per gli spettatori del 1932, ancora in parte abituati al cinema muto – era uno strappo sonoro che scuoteva la narrazione. Hawks racconta essenzialmente con le immagini, esprimendo il carattere dei personaggi con i loro gesti prima che con i dialoghi. C’è poi il segno della X che appare, sotto forma di cicatrice, nel volto del protagonista. Un’ombra, un’insegna stradale, un’inferriata, una croce tracciata con la penna, una travatura, un fascio di luce: la X torna di continuo nel film, come emblema del mistero e come suggello del destino di Tony Camonte.
 Seduto sul divano, guardo questo vecchio film in bianco e nero e rifletto sul bene, sul male, su quanto basti poco perché un uomo si perda. Sbagliavano, i censori che volevano obbligare Hawks a inserire contenuti moraleggianti: la forza del film sta nella sobrietà e nell’efficacia con cui mette in scena un individuo che lotta disperatamente per non essere solo, finendo per esserlo sempre di più. Tony Camonte diventa più ricco, più statunitense, perde l’accento da immigrato, ma brucia nella sua brama di possesso ogni rapporto umano.
Naturalmente, la mia solitudine è differente. Sono consapevole di essere inserito in una serie di relazioni famigliari, di amicizia e di lavoro. Ma secondo me nessuno è mai al sicuro dall’isolamento, e nessuno può sperare di ripararsi in eterno nel rifugio di un legame, di qualunque tipo esso sia; o almeno, per me è così. Casomai, i legami vanno fatti crescere, vanno difesi da tutto ciò che, nella vita, ci allontana dagli altri e ci isola nel deserto.

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PS: Ben Hecht scrisse la sceneggiatura di Scarface in soli dodici giorni, ispirandosi in parte a casi di cronaca: per esempio, l’uccisione di Big Louis Costillo ricorda quella di Big Jim Colosimo, avvenuta nel 1920 per mano di Al Capone proprio in una cabina telefonica. Lo stesso Al Capone, sebbene nel 1931 avesse definito i “gangster movies” come terrible kid stuff (schifezze per ragazzini) mandò alcuni uomini sul set di Scarface, con l’incarico di riferirgli sui contenuti delle riprese.

PPS: Ecco i titoli degli altri “gangster movies” che ho visto in queste ultime settimane: Little Caesar (Mervyn LeRoy, 1931) The public enemy (William Wellman, 1931), Angels with dirty faces (Michael Curtiz, 1938). Le parole di Leonardo Gandini provengono da Howard Hawks. Scarface (Lindau 1988; riedito nel 2007). La citazione di Truffaut, ripresa anche da Gandini, si trova nel libro Les films de ma vie (Flammarion 1975); in italiano I film della mia vita (Marsilio 2003).

PPPS: Alcune parti di questo articolo provengono da un pezzo che ho scritto per la rivista Cinemany, dove sviluppo l’analisi del film in maniera più ampia.

PPPPS: Domenica 5 febbraio al cineforum “Ippopotami in vacanza”, in via Lucino 79 a Breganzona (vicino a Lugano), verrà proiettato il film Il padrino (The Godfather, Francis Ford Coppola, 1972), che si può considerare una sorta di “erede” dei  “gangster movies”. L’ingresso è libero e gratuito.

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Watermelon man

C’è qualcosa di misterioso, nelle giornate storte. Non arrivano solo per una serie di eventi negativi, ma hanno una loro consistenza particolare. Per esempio ci sono giorni in cui, fin dal mattino, sono incapace di scrivere: pesano i giudizi negativi, la tristezza, il sospetto strisciante che la mia ricerca sia vana. E tutto prende un sapore amarognolo, una forma paludosa. Vorrei conoscere la formula chimica di queste giornate, il loro segreto. Come combatterle? Quando arriva l’estate, una delle mie strategie è fare ricorso all’uomo delle angurie.
image1Nel South Side di Chicago, negli anni Quaranta, lo si sentiva arrivare da lontano, con il suo carretto trainato dai cavalli. Le strade erano pavimentate da ciottoli e il clackety-clack clackety-clack del carretto era inconfondibile. Il pianista Herbie Hancock, cresciuto a Chicago, se ne rammentò nel 1962: aveva 22 anni e desiderava comporre qualcosa che affondasse le radici nella sua esperienza. L’uomo delle angurie – watermelon man – era il personaggio più caratteristico della sua infanzia: Hancock trasformò il clackety clack in un ritmo caratteristico. Mancava però una melodia. Forse avrebbe potuto usare la cantilena del venditore? Watey-mee-low! Red, ripe, watey mee-low! Ma il richiamo, per quanto fosse ritmico, non era abbastanza melodico. Hancock ripensò allora alle donne sedute in veranda, che quando lo sentivano arrivare gridavano: Hey-eyyy, watermelon man! Eccola, quella era la melodia! Hancock scrisse dunque un arrangiamento funky, con la melodia cadenzata su un pattern ritmico ispirato al rumore delle ruote nei ciottoli, e lo intitolò Watermelon man. Fra l’altro, questa scelta da parte di un giovane musicista rovesciava anche il luogo comune che associava il watermelon man alla caricatura del negretto – per usare le parole dello stesso Hancock – con le treccine, gli occhioni bianchi e i denti luccicanti. La sincerità del ricordo, l’autenticità di quel frammento di una storia intima e nello stesso tempo collettiva, era il miglior antidoto a ogni forma di pregiudizio razziale.
IMG_4305Il brano ebbe un certo successo. È un blues in sedici battute, con un’estensione per quattro battute della frase finale del blues regolare in dodici. Alla fine del 1962, Hancock aveva un ingaggio con il percussionista cubano Mongo Santamaria. Una sera, durante l’intervallo di un concerto in un locale, così per caso, fece sentire Watermelon man a Santamaria. Il percussionista cominciò a muovere la testa. Continua, gli disse, poi si mise alle congas e attaccò un ritmo chiamato guajira. Era perfetto. Gli altri musicisti attaccarono a suonare, i clienti si alzarono dai tavoli e presero a ballare. Da quella jam improvvisata lì per lì, nacque la versione latina di Watermelon man. Pubblicata nel 1963 da Mongo Santamaria, fu un enorme successo.
Nel 1973 la canzone conobbe una nuova giovinezza quando il batterista Harvey Mason propose a Hancock di riarrangiarla, per renderla ancora più funky. Il percussionista Bill Summers, un altro membro del gruppo, ebbe l’idea di usare alcuni elementi dello hindewhu, uno stile musicale dei pigmei Babenzélé. Riempì d’acqua una bottiglia di birra e s’inventò un ritmo a tre note, la prima e la terza cantata, la seconda prodotta soffiando sulla bocca della bottiglia (sempre con la bottiglia, sovraincise poi alcune contromelodie).
image2Perché questa lunga rassegna storica su Watermelon man? Perché l’arrivo dell’uomo delle angurie, con il suo carrettino, non è più solo un evento confinato alla Chicago degli anni Quaranta. Lo possiamo sentire anche oggi, oltre il suono del traffico e gli squilli di cellulare, oltre la patina delle giornate storte. È un grido della quotidianità, un richiamo da quartiere popolare che ha saputo diventare musica e incidersi nei cuori di più generazioni.
L’impasto chimico delle giornate storte è potente. Hai voglia di pensare che tutto passerà, che ciò che scrivi non è inutile, che i fallimenti sono occasioni da cogliere, ci sono momenti in cui la palude prende il sopravvento. Allora, per rimettervi in moto, provate tendere l’orecchio, pronti ad afferrare il clackety-clack dell’uomo delle angurie.
A seconda dei momenti, potete scegliere la versione più opportuna.
1) L’incisione originale del 1962 è appropriata per un ascolto serale. Ci devono essere ombre nella stanza, ed è meglio che siate seduti comodi. Le braccia distese, le dita chiuse intorno a un bicchiere dal vetro spesso. Dopo un po’, senza volerlo, il piede comincerà a battere il tempo, come mosso da una volontà propria.

2) La versione di Mongo Santamaria è adatta alle mattine estive, magari ascoltata in macchina a un volume più alto del necessario. Ma funziona anche all’ora dell’aperitivo, mentre qualcuno sta arrostendo qualcosa sulla griglia e dal prato arrivano grida di ragazzi, con il rumore di un tosaerba sullo sfondo.

3) La versione del 1973 è più elusiva, più lenta ed esotica. È ideale se doveste svegliarvi nel cuore della notte, senza più sonno. Anche questa funziona in macchina; non in autostrada, però. Può suonare bene in una strada di campagna, piena di curve, con il buio profondo del bosco che circonda il vostro viaggio.

Perché Watermelon man mi aiuta a combattere le giornate storte? Perché c’è qualcosa di irrimediabilmente fiducioso in quel richiamo, in quel ritmo inesorabile. Ma anche perché per un attimo mi guarisce dall’ascolto di me stesso, delle mie esitazioni. In questo senso, Herbie Hancock mi dà una lezione importante: per scrivere bene, bisogna imparare a togliersi di mezzo. Lo ripete anche nella sua autobiografia Possibilities (pubblicata in italiano da Minimum Fax nel 2015). Improvvisare significa esplorare ciò che non sai. Significa entrare in una stanza buia nella quale non riconosci nulla. Significa lasciarti guidare dall’istinto più che dalla mente. È un obiettivo al quale continuo a lavorare ogni giorno: imparare a togliermi di mezzo. Non è facile, ma quando ci si riesce è magia vera.

PS: Ecco un video dove Herbie Hancock, prima di suonare Watermelon man, spiega la genesi del brano. Sono più o meno le stesse cose che ho scritto sopra, prendendole in parte proprio dal video e in parte dall’autobiografia. (Si noti come Hancock usi un pianoforte di marca “Fazioli”… anche questo è un segno!)

PPS: L’immagine del prete che addenta l’anguria è di Giovannino Guareschi. L’ho tratta dalla copertina del volume Lo spumarino pallido (Rizzoli, 1988). Non c’entra niente con il watermelon di Chicago: questa è un’anguria (o un cocomero) della Bassa parmense… ma senza dubbio, anche Guareschi è un ottimo antidoto contro le giornate storte.

PPPS: Per completezza, aggiungo che Watermelon man è stato negli anni interpretato da molti artisti di generi assai differenti. Non sto a elencare jazzisti: sarebbero troppi (mi limito a indicare di sfuggita la versione di Errol Garner nel 1968). Nel mondo del blues, segnalo Buddy Guy, Albert King e Little Walter. Nel 1963, Jon Hendricks scrisse delle parole, così come fecero anche altri cantanti. Nel suo libro Gli standard. Una guida al repertorio (EDT), Ted Gioia racconta che il brano fu perfino adottato come sigla dalle ATA Airlines. E aggiunge: È davvero strano che in una carriera così fortunata il pezzo più famoso sia venuto dal primo brano del primissimo disco che Hancock incise da leader, quando ancora era un giovane pianista sconosciuto di Chicago. Misteri della vita (e della musica).
Per chi ancora avesse qualche minuto, ecco una versione con Miles Davis, in un concerto tenuto a Parigi nel luglio 1991, poco prima della morte di Miles.

Fra l’altro, Hancock racconta – sempre nella sua autobiografia – di aver fatto uno scherzo a Davis durante l’interpretazione di Watermelon man: impostò la tastiera portatile in maniera che suonasse come la tromba sordinata dello stesso Davis (fra le risate dei musicisti, dal minuto 1.06). L’idea può piacere o non piacere, ma di certo dimostra come l’uomo delle angurie abbia sempre in serbo una sorpresa…

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