La terrazza a vela

Un passero saltellava tra i merli del castello. / Nel cantiere vicino, una gru girò lentamente / e poi volò via. Quando mi sono imbattuto in questa breve poesia di Bruno Munari, ho sentito distintamente una specie di sssquish… è il suono che fa il mondo di ogni giorno quando, per un istante, un altro mondo si sovrappone, più impalpabile, più strano. È vero che spesso il mondo ci sembra uno, soltanto uno, inesorabilmente. Ma allora com’è possibile che ci siano merli e merli, una gru e un’altra gru?
Un’amica mi ha inviato una vignetta di Schulz in cui Charlie Brown, sentendosi molto giù, chiede alla perfida Lucy – nelle vesti di psichiatra – che cosa si possa fare quando non ci si sente a posto, quando la vita sembra tagliarti fuori. Lucy lo porta in cima alla collina e gli dice: Vedi l’orizzonte laggiù? Vedi quanto è grande questo mondo? Vedi quanto spazio c’è per tutti? Poi, dopo una pausa: Hai mai visto degli altri mondi? No, risponde Charlie Brown. E Lucy: Per quello che ne sai, questo è l’unico mondo che c’è, giusto? Charlie Brown: Giusto. Lucy: Non hai altri mondi in cui vivere… giusto? Charlie Brown: Giusto. Lucy: Sei nato per vivere in questo mondo… giusto? Charlie Brown: Giusto. Allora Lucy grida la sua risposta a squarciagola, come solo lei sa fare, facendo ruzzolare il povero Charlie Brown: BE’, ALLORA VIVICI! Alla fine, da brava psichiatra, Lucy esige da Charlie Brown cinque cents di compenso. Ma ha davvero ragione? Siamo davvero confinati nel mondo che riusciamo ad avvistare dalla collina, per quanto alta sia la nostra personale collina e per quanto poderosa sia la nostra vista?
Ogni atto creativo consiste nella ricerca di un altro mondo. Questo vale per chi racconta una storia, ma anche per chi dipinge, per chi compone una musica, per chi s’impegni in qualsiasi gesto artistico o scientifico (penso ai matematici, agli inventori). Non solo. Credo che la tensione verso altri mondi si manifesti pure in quei momenti in cui il pensiero scava nella profondità della nostra anima, cercando di capire chi siamo, oppure si rivolge con empatia e immaginazione verso gli altri, per comprenderli, per partecipare alla loro vita. Ogni innamoramento è creativo, ed è la ricerca di un altro mondo. Ogni attimo di felicità o di tristezza affina la nostra percezione: ci permette di udire l’eco di uno sssquish e d’intravedere il balenio degli universi che si affollano, invisibili, intorno alla nostra collina.
Certo, questi sbalzi sono pericolosi. Possono suscitare un sentimento di sentirsi-tagliato-fuori, come accade a Charlie Brown; o peggio ancora, possono indurre uno stato di schizofrenia, di alienazione, di depressione. Credo che la saggezza sia trovare l’equilibrio fra il qui e l’altrove, senza cancellare nessuno dei due poli. Non è facile, però. Nel momento in cui avvertiamo gli altri mondi, smettiamo di sentirci al sicuro. A volte per fortuna tutto si risolve con un sorriso, come nella poesia di Bruno Munari. A volte, addirittura, lo sssquish consente di trasformare con la fantasia gli oggetti comuni che abbiamo intorno.
Per esempio, conosco una casa che ha una terrazza di legno proprio davanti alla porta. Per evitare di sedersi a picco sotto il sole, è possibile coprire la terrazza con un telo di colore bianco. Sarà per la posizione, in alto sopra una valle, sarà per i pali che ricordano gli alberi di una barca, sarà per il telo che sembra una vela… insomma, certe volte – in piedi sulla terrazza – ho la sensazione di stare sulla prua di una nave: invece di prati, contemplo oceani. L’effetto aumenta nelle giornate di vento, quando la vela si gonfia e i cavi, tendendosi, emettono lo stesso cigolio che udivano i marinai di Cristoforo Colombo, di Magellano, di Vasco da Gama. Allora, per qualche secondo, mi sembra di sentire muoversi sotto di me le assi di legno, mentre il sole che scintilla sui vetri delle automobili diventa un riflesso di luce sulla cresta delle onde.


Non vorrei ridurre la percezione di un altrove a una sorta di gioco. Ma è vero che, insieme al pericolo dell’alienazione, la creatività (ossia la tensione verso altri mondi) porta con sé un aspetto ludico. Direi che in questo caso la metafora del viaggio funziona bene: viaggiare è svelare altri mondi, anche restando fermi. Diceva la scrittrice Cristina Campo che percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E aggiungeva: ma che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?

PS: La poesia di Munari si trova in Verbale scritto (Corraini 2008; prima edizione Il Melangolo 1992). La frase di Campo proviene dal saggio Una rosa, in Gli imperdonabili (Adelphi 2008). La vignetta di Schulz l’ho ricevuta con un messaggio, quindi non saprei indicarne di preciso la fonte (ma di sicuro c’è qualche possibilità di trovarla sfogliando quest’opera in dodici volumi: Charles Schulz, Snoopy e la sua gang. Tutte le strisce dei Peanuts 1960-2000, Mondadori 2007). La canzone di Francesco De Gregori, un buon accompagnamento per ogni tipo di viaggio, è tratta dall’album Viva l’Italia (RCA 1979).

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Il respiro e la voce

Quando ascolto la musica di John Coltrane, mi sembra di cogliere una fatica e una meraviglia. Fatica: lo sforzo e l’incessante sfida tecnica; meraviglia: la dolcezza di certi passaggi, l’incanto dell’ingranaggio armonico e melodico. Mi chiedo allora se fatica e meraviglia non siano i due poli da cui nasce ogni forma artistica, compresa la letteratura.
In effetti, il mio primo ricordo è la fatica. Da bambino, come succede a molti mancini, formavo le lettere al contrario e creavo grovigli invece di parole: lo slancio di ciò che volevo dire era frenato da quelle aste, da quelle arcane linee ricurve.
Ancora oggi c’è una frizione nel momento in cui ciò che avverto dentro di me, come potenzialità indefinita, trova un modo di espressione, uno solo, con tutti i suoi limiti. Quello che appare sulla pagina è sempre diverso da quello che avevo in mente: prima di tutto perché ciò che scrivo esiste, mentre ciò che penso è come una vela che passa in lontananza. Dare voce ai personaggi, costruire una storia mi suscita meraviglia: in fondo né la storia né i personaggi mi appartengono; semplicemente, li ho trovati lungo la via.
Ascoltare Coltrane è diventato un modo d’interrogarmi sul mio lavoro. All’inizio non me ne rendevo conto: ero soltanto stupito da quel saxofono insieme impetuoso e limpido, fluviale, serio, sempre teso alla ricerca di qualcosa. Ero studente e vivevo a Zurigo quando, per caso, mi trovai ad ascoltare A love supreme (Impulse 1964). Si tratta della sua opera forse più celebre: una suite divisa in quattro parti (Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Psalm), che è allo stesso tempo Canzona di ringraziamento (come l’avrebbe definita Beethoven), professione di fede, autentica dichiarazione di gioia spirituale, applicazione delle ricerche di Coltrane nel campo della modalità e molto altro ancora (così Carlo Boccadoro nel suo Jazz, Einaudi 2005). A emozionarmi era soprattutto la parte finale, Psalm. Nella mia ignoranza musicale, mi colpiva soprattutto il suono, dolente, misterioso, e le frasi ripetute sopra il rimbombo dei timpani, gli accordi del pianoforte, il lungo strascinio dei piatti. Anni dopo, leggendo qualche libro su Coltrane e in particolare su A love supreme, scoprii che in Psalm il saxofonista suonò avendo in mente un testo scritto da lui stesso, riportato nel libretto del disco. Sotto la musica, insomma, si nascondevano le parole, e la musica le portava oltre, espandeva il loro significato.

John Coltrane ebbe una vita breve. Nato il 23 settembre 1926, morì a quarantun anni il 17 luglio 1967. I suoi primi dischi come leader uscirono nel 1957: negli ultimi dieci anni di vita continuò a esplorare strade impervie, in una continua, bruciante evoluzione, sorprendendo – e talvolta sconcertando – il suo pubblico. Lui stesso, in un’intervista, definì il suo metodo di lavoro: Parto da un punto e vado il più lontano possibile. La musica di Coltrane (insieme a quella di molti altri) è per me un’esortazione a percorrere strade nuove, nel mio lavoro e nella mia vita. Questo non significa lasciarsi tutto alle spalle, ma cercare la novità anche nel fluire dell’abitudine. Come scrive il critico musicale Xavier Daverat, la ripetizione coltraniana è un fenomeno di memoria diretto verso l’avvenire. Si tratta di essere pronti a vivere la fatica, senza abbandonare la meraviglia. Lo stesso Coltrane diceva: Essere un musicista è un’esperienza davvero unica. Ti permette di andare molto, molto a fondo. La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono: la mia fede, il mio sapere, la mia essenza. E aggiungeva: Voglio parlare all’anima delle persone.

Di sicuro, Coltrane parlò all’anima di molte persone con la melodia commovente di Alabama, registrata il 18 novembre 1963 nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs (New Jersey). Poco più di un mese prima, il 15 settembre, il Ku Klux Klan aveva perpetrato un attentato in una chiesa battista a Birmingham, in Alabama, ed erano rimaste uccise quattro bambine.
Il brano Alabama si trova nell’album Coltrane Live at Birdland (Impulse 1963). Nelle note di copertina, lo scrittore Amiri Baraka (pseudonimo di LeRoi Jones) cita una frase dello stesso Coltrane secondo cui il pezzo rappresenta musicalmente qualcosa che ho visto laggiù e che da dentro di me si è trasferito nella musica. È impressionante sentire il lamento del sax sopra la batteria che cresce sullo sfondo come un fenomeno naturale… un tuono che si rinforza, nubi di tempesta o nubi di guerra nella giungla (Amiri Baraka). Protesta, canto, preghiera: s’intuisce il respiro spezzato dalla sofferenza, lo stupore di un uomo davanti all’assurdità del male. Ma il respiro diventa musica. Il respiro diventa bellezza. Il soffio risale dai polmoni, percorre il tubo del saxofono e piange per quelle bambine, piange per lo strazio di tutti gli attentati. Anche per quelli di oggi; Coltrane non poteva saperlo, ma nel suo pianto risuona il dolore per ogni violenza, per ogni bomba scagliata dall’odio. E in quel pianto l’umanità resiste, anche in mezzo al caos, e afferma una speranza. Il respiro diventa voce.

PS: La versione video di Alabama proviene da uno spettacolo televisivo statunitense del dicembre 1963. I musicisti sono gli stessi dell’album: John Coltrane al sax tenore, MCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria. Fra l’altro, è lo stesso quartetto che registrò A love supreme.

PPS: Senza far riferimento a Coltrane, ho parlato qui della mia personale esperienza di saxofonista (agguerrito, ma principiante…). La musica di Coltrane, insieme a quella di altri musicisti jazz, è una delle fonti d’ispirazione per il mio romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016). In particolare, ho parlato qui del brano In a sentimental mood (inciso da Coltrane nel 1962 con Duke Ellington).

PPPS: Ringrazio Lina per il saggio di scrittura. Le dichiarazioni di Coltrane provengono da vari libri: “Je pars d’un point et je vais le plus loin possible”. Entretiens avec Michel Delorme suivis d’une lettre à Don DeMichael (Éditions de l’éclat 2012); Coltrane secondo Coltrane. Tutte le interviste (2010, a cura di Chris DeVito; l’edizione italiana, stampata nel 2012, è a cura di Francesco Martinelli per EDT); Lewis Porter, Blue Train. La vita e la musica di John Coltrane (1998, traduzione italiana di Adelaide Cioni nel 2006 per Minimum Fax); Ashley Kahn, A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane (2002, traduzione italiana di Fabio Zucchella nel 2004 per Il Saggiatore; da questo volume ho preso alcune delle fotografie che vedete sopra). Ho citato anche Xavier Daverat, Tombeau de John Coltrane (Parenthèses 2012). Per chi volesse approfondire l’influenza di Coltrane sugli altri musicisti, può essere utile il dossier speciale John Coltrane 50 ans après, apparso sul numero 696 di “Jazz Magazine” (luglio 2017).

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Sweet bird

Quando lavoro alla radio, alla Rete2 della RSI, mi sveglio alle quattro. Mi lavo, mi vesto, bevo un bicchiere di tè freddo e mangio un frutto. Poi prendo la macchina e guido da Bellinzona a Lugano, nel buio delle mattine invernali o, com’è accaduto la settimana scorsa, nel blu misterioso e lucente che precede il crepuscolo. A volte tutto è limpido, silenzioso, a volte invece si scatena un temporale, magari mentre salgo verso il Ceneri; in quei momenti, nell’abitacolo battutto dalla pioggia, mi pare di essere solo al mondo. Poi arrivano i fari di qualche automobile a ricordarmi che su questa terra esistono altri esseri umani, come me aggrappati a un volante e diretti da qualche parte sotto il diluvio.


Ancora non ho pronunciato una parola. Lascio la macchina nel parcheggio della radio e mi dirigo verso lo studio (dove leggerò i quotidiani prima di cominciare la diretta). Se non piove, mi fermo per un istante ad ascoltare le ultime notizie così come vengono trasmesse da un nugolo di uccelli nel folto degli alberi. I trilli, i pigolii, le melodie ripetute, i gorgheggi e i fischi s’intrecciano fra loro, tessendo la trama di un discorso incomprensibile (per me), ma non per questo meno vero.


Di fatto la voce degli uccelli esprime una verità sul mondo pari a quella che esprimerà il primo notiziario del mattino. Per me, che passo in pochi minuti dal mondo del canto a quello delle news, è importante ascoltare entrambi i discorsi. È il cinguettio fra gli alberi a dirmi che 1) sta sorgendo un’altra alba: questo merita di essere annunciato, perché le albe non sono infinite e non vanno sprecate; 2) se sono qui e ora è per un motivo: non devo smettere di cercare una voce che rappresenti nello stesso tempo le mie domande, le mie risposte, la mia tristezza o la mia meraviglia davanti alla realtà; 3) il silenzio e la musica sono la fonte da cui sgorgano le parole: non c’è frase scritta o pronunciata al microfono che sia efficace, se prima non si è confrontata con questo mondo aereo e ancora privo di sillabe umane. Per riassumere:
1) annuncio (An);
2) espressione dell’interiorità (EI);
3) attesa della parola (AP).
Queste tre funzioni vanno poste in relazione con ciò che succede alla radio. Di colpo, il campo sonoro ornitico, più o meno immutato da cento milioni di anni, lascia il posto al fattore umano. Ecco quindi 1) l’inesausta attualità dei giornali, i loro titoli, gli editoriali che segno con un evidenziatore giallo; 2) l’irruzione del mondo: scorrono i flussi delle notizie d’agenzia, appare sullo schermo la scaletta dei brani musicali, arrivano i notiziari e i bollettini meteo; 3) il tempo sminuzzato della diretta: conto i secondi che mancano alla sigla, parlo con il tecnico-regista che mi aiuta a tenere il ritmo, la mia voce entra nel microfono e si diffonde in luoghi che non vedrò mai. Per riassumere:
1) attualità (At);
2) espressione del mondo (EM);
3) diffusione della parola (DP).
Credo che le funzioni degli uccelli abbiano lo scopo di produrre una curva di equazione cartesiana in un piano munito di sistema di riferimento con assi perpendicolari. Così ogni elemento radiofonico risulta da una funzione ornitica.
f(An) = At
f(EI) = EM
f(AP) = DP
Non sto a disegnare il grafico: è la forma di una mattinata di lavoro, vissuta nella tensione fra silenzio e parola. Prima il silenzio, il canto degli uccelli, il fruscio delle pagine dei giornali, in un crescendo d’immersione nel mondo. Poi le mie parole, tese verso ascoltatori invisibili. La ferita dei notiziari: titoli inesorabili (La guerra ed ora anche il colera: è allarme-epidemia nello Jemen, in ginocchio per gli scontri e per la situazione sanitaria: oltre 200mila i casi conclamati); statistiche sui migranti che dietro le cifre celano lo strazio di chi fugge (Il governo italiano lancia l’allarme: situazione insostenibile, nelle ultime ore oltre 12mila arrivi, dal 1 gennaio +13,43%); un neonato a Londra che sopravvive attaccato a un respiratore, mentre intorno infuria la polemica (La Corte di Strasburgo sul piccolo Charlie: si può staccare la spina). Nel corso della mattinata le notizie si alternano alle canzoni, alle rubriche, alle interviste.
Quando torno nel parcheggio, dopo la riunione di redazione, sento di nuovo gli uccelli. Sullo sfondo c’è anche il ronzio di un motore: qualcuno da qualche parte sta tagliando l’erba.

 

Mi rimane impresso questo sotterraneo e un po’ assurdo collegamento fra il canto degli uccelli e le voci della radio.
Nel pomeriggio recupero un vecchio saggio di Edward Neill: Musica, tecnica ed estetica nel canto degli uccelli (Zanibon 1975). L’autore trova affascinante l’ipotesi che l’uomo primordiale abbia potuto trarre ispirazione dal canto degli uccelli in generale per modulare le sue prime manifestazioni canore, e, in particolare, che per costruire il proprio rudimentale sistema melodico si sia rifatto a strutture aventi un carattere intervallico come quelle del Tordo eremita (Hylocichla guttata). Neill mostra poi alcune trascrizioni musicali elaborate da un certo dottor Szöke (nel cui nome mi sembra di cogliere l’eco di un colpo di becco ben assestato).
Penso al mio lavoro: come scrittore, ma anche alla radio o nell’insegnamento. Di certo, per essere efficaci le parole devono nutrirsi di silenzio, di musica. E il canto degli uccelli racchiude un nocciolo antico di melodia che, come dice il saxofonista brasiliano Ivo Perelman, stupisce per la sua coerenza: non sono stati a scuola, nessuno ha detto loro di cantare in quel modo, non sono nemmeno coscienti di farlo. Eppure, cantano. E qualcosa di quel suono primordiale si ritrova in ogni musicista, in ogni poeta.
Il mattino seguente, mentre vado alla radio, ascolto il brano Sweet bird, composto da Joni Mitchell e riproposto da Herbie Hancock nell’album River: the Joni letters (Verve 2007). Mi pare che nella musica risuoni la semplicità di un canto ancestrale. Specialmente nelle improvvisazioni al sax di Wayne Shorter, che a volte imita la cadenza degli uccelli (a 1.50, a 2.30, a 5.30, a 6.37) e che alla fine diventa un soffio. Ma pure nel fischio che affiora qui e là (per esempio a 0.30, a 0.39, a 4.09), come se un volatile invisibile accostasse la sua voce a quella di Hancock al piano, di Shorter al sax, di Dave Holland al basso, di Vinnie Colaiuta alla batteria e di Lionel Loueke alla chitarra.

Arrivo alla radio. Entro nel mondo delle parole, come ogni giorno, e cerco di conservare nell’anima un ricordo di melodia. Questa bellezza si esprime sia come riflesso malinconico, sia come speranza che – dietro il male che tracima dalle notizie – resista la capacità di affermare la parte generosa del mondo. Le parole feriscono ma, quando sono pronunciate nel modo e nel momento giusto, possono anche guarire.

PS: L’osservazione di Ivo Perelman proviene dal numero 688 della rivista “Jazz Magazine” (ottobre 2016). Anche Perelman, nelle sue improvvisazioni libere, imita talvolta il canto degli uccelli; si vedano per esempio i due album con Karl Berger: Rêverie (Leo Records 2014) e The Hitchhicker (Leo Records 2016).

PPS: Per chi fosse interessato all’intervento aviario nella musica umana, è simpatico il duetto che il pianista Misha Mengelberg registrò insieme a Eeko, il pappagallo di sua moglie: a volte, si ha quasi l’impressione che Eeko sappia swingare… Il brano si trova nell’album Epistrophy (ICM 1972). Lo metto anche qui come omaggio a Mengelberg, morto il 3 marzo di quest’anno a 82 anni.

PPPS: Infine, ecco il Tordo eremita di cui parlano Edward Neill e il dottor Szöke. Mi sembra che, nel profondo della sua solitudine, sappia trovare un modo per colmare il fossato tra sé e il mondo, con uno dei canti più umanamente melodici che esistano: secondo Neill le emissioni vocali di questo uccello che vive prevalentemente in Nord-America sono strutturate in modo assai simile a quello che caratterizza la nostra musica diatonica e pentatonica. Neill precisa inoltre che i Tordi eremiti sono asociali nel senso in cui lo sono gli artisti che possono creare solo se in compagnia di sé stessi. Non posso fare a meno di citare almeno un’opera del dottor Szöke: P. Szöke, W. W. H. Gunn, M. Filip, The Musical Microcosm of the Hermit Trush, in “Studia Musicologica Academiae Scientiarum Hungaricae”, 11, Budapest 1969.

PPPPS: Per essere precisi, il silenzio mattutino che mi accompagna dal risveglio fino al luogo di lavoro non è interrotto soltanto dal cinguettio degli uccelli. C’è anche quel momento, inevitabile, in cui la mia automobile mi avvisa perentoriamente che non ho ancora allacciato la cintura…

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Macadam

A volte basta poco per scivolare nella giungla. Ti alzi il mattino, bevi un caffè, esci per andare al lavoro. Ti trovi in coda insieme ad altre automobili, nel pulsare della pioggia, con l’acqua che riga i vetri e con i segnali che spiccano nell’aria grigia. Superi un cartellone che annuncia – o minaccia – una festa delle fragole, un altro che promette sconti per l’acquisto di tosaerba e mobili da giardino. Il verde delle montagne appare più cupo, percorso da veli di nuvole. Sul ciglio della strada, un vecchio in impermeabile aspetta alle strisce pedonali. Ti fermi per lasciarlo passare, lui ti guarda e rivela uno sguardo azzurro chiaro, fermo come un cielo d’estate. Subito ricomincia il flusso del traffico. Ma per un secondo, dentro quegli occhi, hai visto uno squarcio di fuga, una possibilità di evasione.
Quello sguardo incrociato per caso mi fa venire in mente un brano di Paolo Conte. Parla di un vecchio sparring partner, un uomo che s’intuisce segnato dalle ferite della vita e, per tanti aspetti, poco affidabile. All’inizio della canzone, una donna lo giudica un macaco senza storia, poiché gli manca la memoria / in fondo ai guanti bui. Nel ritmo avvolgente, nell’eleganza sinuosa delle frasi musicali si cela tutto il segreto di questo misterioso sparring partner: Ma il suo sguardo è una veranda… / tempo al tempo e lo vedrai / che si addentra nella giungla…

Sono occasioni che vanno colte all’istante. Collego l’iPod agli altoparlanti e ascolto Sparring partner, mentre intorno le strade, i palazzi, i fari delle altre macchine sfumano in un principio di giungla, e non ho visto mai / una calma più tigrata / più segreta di così. Alla fine si tratta di inoltrarsi nell’ignoto, anche se in maniera un po’ sgangherata: prendi il primo pullman, via, tutto il resto è già poesia.
Ciò che mi ha sempre affascinato, in questo e in altri brani di Conte, è la capacità d’impastare il quotidiano con l’immaginario esotico. Faccio un esempio. Il macadam (con l’accento sull’ultima “a”) è un tipo di pavimentazione stradale fatto di pietrisco compresso. Creato dall’ingegnere scozzese John McAdam nel 1820 e diffuso in tutta Europa fino al XX secolo, venne poi sostituito dal catrame, che è più resistente; ma ancora oggi viene impiegato per le strade di campagna poco trafficate o per i vialetti nei giardini pubblici. Senza dubbio, tuttavia, l’aspetto più interessante del macadam è proprio il nome, con quella risonanza che pare uscita da un romanzo di avventura. Infatti, nella canzone di Conte, il vecchio sparring partner stava lì nel suo sorriso / a guardar passare i tram… / Vecchia pista da elefanti / stesa sopra al macadàm.
Ci vuole poco, a volte, perché una strada senza sorprese si tramuti in una pista da elefanti. Naturalmente occorre qualcosa, una miccia che muova l’immaginazione. Un vecchio con gli occhi azzurri, intravisto alle strisce pedonali? Non solo: ieri mattina ho avuto anche la fortuna d’incrociare un pachiderma (per giunta di colore giallo). Ho impiegato qualche secondo per accorgermene: davanti a me c’era un grosso autocarro di una ditta di trasporti che ha per marchio proprio un elefante. Dietro l’oscillare dei tergicristalli, si è manifestato all’improvviso come un simbolo, un richiamo di vita selvaggia.
È un’illusione? Sarebbe meglio restare ben ancorati nel presente, nelle telefonate di lavoro, nelle cose da fare? Non so se questo indugio in ciò che non esiste sia del tutto positivo. Ma per me sarebbe difficile rinunciare a questo mondo alternativo, che appare in filigrana dietro il mondo reale. La sfida è trovare un’intersezione fra l’universo dei tosaerba e del traffico e quello degli elefanti e degli sparring partner.
In un certo senso, si tratta di cucire addosso alle circostanze un vestito che le renda diverse da ciò che sono. Un qualsiasi uomo anziano con gli occhi azzurri diventa un inquietante sparring partner, al tempo stesso macaco senza storia e meravigliosa veranda. Di sicuro questa traslazione fantastica deforma la consistenza reale delle cose; però almeno rileva che, dietro la normale trafila dell’esistenza, c’è un nocciolo che resta inspiegabile. Se il sentiero (anzi, la pista da elefanti) della nostra vita è tutto sommato prevedibile, uguale a tante altre vite, ogni tanto succede uno scarto, una frizione minuscola che suscita domande e desideri. Dice una fulminea poesia di Cesare Viviani: Perdersi in una volta dell’animo, / nel groviglio di storie / altrui, di tutti, di ognuno. Questa è la vera giungla.
Tornato a casa, esco sul balcone e mi trovo davanti ancora lo stesso grigio, la stessa pioggia. Mi porto fuori un pompelmo, lo appoggio sulla ringhiera. Di colpo, la sostanza luminosa del frutto irradia il suo splendore nel parcheggio. Il Citrus paradisi (questo il nome scientifico) apre uno spiraglio di esotismo. Non c’è nemmeno bisogno di mangiarlo; basta guardarlo, annusarlo, pronunciarne il nome: pompelmo, dall’olandese pompelmoes (pompel, “grosso”, e limoes, “limone”), a sua volta derivato dal tamil pampalimasu.
Pompelmo e macadam: che altro serve per smarrirsi nella giungla?

PS: Il brano Sparring partner venne pubblicato nell’album Paolo Conte (CGD 1984). La versione che ho ascoltato in automobile, e che ho proposto qui, è stata incisa dal vivo all’Arena di Verona nel 2005 e si trova nel disco Live Arena di Verona (Warner 2005). La lirica di Cesare Viviani è tratta da Osare dire (Einaudi 2016). Il dipinto qui sopra è di Henry Rousseau (1844-1910): s’intitola Tigre nella giungla in tempesta, risale al 1891 ed è esposto alla National Gallery di Londra. Il pompelmo proviene dalla Florida. Normalmente il frutto è giallo come un elefante, ma questa è una variante rosa, oggi molto diffusa e comparsa per la prima volta in seguito a una mutazione spontanea avvenuta in Texas nel 1929.

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Le piogge d’aprile

IMG_0181In questi giorni le mie corde vocali sono affaticate. La mia voce è sparita, poi è tornata ma è roca, fragile. Così cerco di seguire i consigli del medico: quando posso, me sto zitto. Sospetto che tale indicazione abbia una valenza che superi l’aspetto strettamente fisiologico. Mentre siedo in balcone, circondato da questa luce primaverile così tagliente, mi chiedo se il silenzio non abbia qualcosa da dirmi. Penso che, al di là di ogni tentazione morale, l’insegnamento del silenzio consista nel suo non essere silenzioso. Infatti dopo un po’ vengo raggiunto dal fruscio della fontana, dallo stormire del vento nei rami di una betulla, da una lontana conversazione femminile, dall’eco di una moto, dal richiamo di un uccello… Nell’attimo in cui sembrano negarlo, questi piccoli suoni abitano il silenzio e mi aiutano a percepirlo.
IMG_0179Mi viene in mente che fra pochi giorni si festeggia la Pasqua. Così come il Natale, anche questa festa è strettamente legata al silenzio. Se nello stupore natalizio può insinuarsi una certa dolcezza, qui si tratta dello sgomento davanti alla tomba. Non importa se siamo cristiani oppure no; la crudezza inesorabile della morte la conosciamo tutti. Possiamo credere oppure no alla resurrezione, a quella speranza mattutina, ma di certo conosciamo bene l’angoscia pomeridiana, lo strazio della fine. Non è forse vero che, minuto dopo minuto, il tempo della nostra vita ci crocifigge? Mutano le stagioni, si rinnova la luce delle primavere, ed eccomi qui seduto sul mio balcone, senza parole. I bambini giocano nel cortile, uomini e donne passano nell’aiuola qui sotto con il cane, aspettano che il cane faccia la cacca, raccolgono con cura gli escrementi, li gettano nelle apposite cassette. E mi consuma la tristezza, perché non riesco più a comprendere, a condividere queste grida, questa luce di primavera – ah, ma è un piacere star fuori in queste giornate! – questa cura nel ripulire la terra dagli stronzi di cane. Forse, se di colpo venisse a piovere sarebbe più facile: gente che corre, finestre che si chiudono, il tamburellio contro i vetri.
Ma dove sono andate quelle piogge d’aprile / che in mezz’ora lavavano un’anima o una strada / e lucidavano in fretta un pensiero o un cortile / bucando la terra dura e nuova come una spada? Dalla memoria risale una canzone di Guccini che mi ricorda estati senza fine / senza sapere la parola “nostalgia”, mi parla di stagioni smisurate quando ogni giorno figurava gli anni a venire / e dove a ogni autunno quando finiva l’estate / ritrovavi la voglia precisa di ripartire.

Forse il problema è questo. Forse si tratta di momenti svuotati, dell’affollarsi di ombre: che ci potrai fare di quelle energie finite, / di tutte quelle frasi storiche da dopocena; / consumato per sempre il tempo di sole e ferite, / basta vivere appena, basta vivere appena… A volte non è facile mantenere la forza pura del desiderio, quel desiderio inconscio di arrivare più in fondo / per essere più vero. In generale, la stanchezza e la mancanza di slancio misurano una distanza fra me e il mondo, tanto che il perimetro del balcone diventa un fossato invalicabile. In questi momenti lo schiaffo improvviso di una pioggia d’aprile corrisponde a ciò che Guccini chiama un’occasione ladra, un infinito o un ponte per ricominciare.
IMG_0180Credo che il ponte, se c’è, non possa che portarci verso il mattino. Mi piace pensare che, nella canzone di Guccini, a costruire questo ponte sia il sax di Antonio Marangolo. Sarà colpa delle mie corde vocali infiammate, ma ho l’impressione che il ponte debba nascere dal silenzio, sbocciando all’improvviso così come sgorga un assolo di sax alla fine di una strofa. Anch’io non posso fare altro che provare la mia voce, aspettando le parole giuste. Per me scrivere significa proprio tracciare un ponte. Tento di animare i miei personaggi per riflettermi dentro di loro, per muoverli al di là del fossato. Non so se questo basti, e mi rendo conto che forse la scrittura non può essere un ponte davvero solido. Ma di certo è un principio: nel gesto di cercare le parole, di raccoglierle con cura (come se fossero escrementi di cane) c’è di sicuro un’ombra di desiderio. Non si può raccontare una storia senza credere, sia pure in maniera inconscia, che la vita possa cominciare di nuovo, anche quando tutto sembra perso nel buio pomeridiano. Mi sembra di aver colto qualcosa del genere in una lirica di Melania Panico.

Se il silenzio potesse parlare
farebbe crollare palazzi
o restaurerebbe
portoni infestati da tarli.
Ma il silenzio non può
parlare
e i palazzi resistono
e i portoni dei palazzi
sopportano la pioggia
restando muti
fino al prossimo
mattino.

Chissà, magari in qualche modo il silenzio può restaurare anche me (e le mie corde vocali), magari a un certo punto anche sul mio balcone pioverà. In questi giorni di primavera sono più sensibile alla presenza del male: le mie ferite, quelle di chi mi sta accanto, la sofferenza che dilania il mondo, tra solitudini, malattie, innocenti massacrati e vite che bruciano senza che nessuno se ne accorga, nel corso di un tranquillo, banale pomeriggio di aprile. Auguro a me e ai lettori di questo blog, comunque siano messi di fronte alla Pasqua, il coraggio di non cedere alla disperazione. Bisogna avere fiducia e tentare di avvertire, dietro lo schermo del pomeriggio, il silenzio pieno di meraviglia del prossimo mattino.

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PS: La canzone di Francesco Guccini si chiama Le piogge d’aprile ed è tratta dall’album Signora Bovary (EMI 1987). Melania Panico è una poetessa nata nel 1985 a Napoli; la sua raccolta Campionature di fragilità è stata pubblicata da La Vita Felice nel 2015. La poesia che dà il titolo al libro finisce con due versi che, in un certo senso, sono anche un augurio: Il peso da dare alle cose / lo scriviamo ad occhi aperti. Il resto ve lo lascio scoprire da soli.

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