Plazuela

Ma quel Gheddafi ne ha ammazzata di gente! Il vecchio, seduto su una panchina all’ombra, scuote il capo. Con i dittatori va sempre a finire così, gli risponde un altro che ha vissuto per anni in Sudamerica e certe cose le conosce. Intorno alla piazzetta s’intrecciano vari argomenti di conversazione: i dittatori, Valentino Rossi, la famiglia (mio nipote fa l’ingegnere e c’ha una paga da lavapiatti!), i tempi che cambiano, le banche (“la vostra banca”, mi hanno detto, ma “vostra” cosa? Tua sarà, mia no di certo!), un pitone che è fuggito da un appartamento e che si aggira da qualche parte per la città. E poi la crisi, l’eterna crisi. Cinquanta, cinquantacinque anni fa in Svizzera si stava divinamente bene, non solo bene, osserva un vecchietto. Un altro precisa: Si sta bene ancora oggi. E un terzo mette il suggello: Sì, ma i tempi cambiano.
Intanto, sono le cinque della sera. È il giorno della mia ricognizione mensile nello slargo circolare fra via Raggi e via Borromini, dietro la fermata del bus Semine a Bellinzona. Ogni mese, mi siedo per un paio d’ore su una panchina con un libro e un taccuino (ecco la prima, la seconda, la terza e la quarta puntata della serie).
Le cinque della sera è un orario pericoloso. Nelle poesie di Federico García Lorca è l’ora in cui i toreri vengono ammazzati. Ho con me i Canti gitani e andalusi e m’immergo nell’atmosfera solennemente funesta di La cogida y la muerte (“La cornata e la morte”). A las cinco de la tarde, alle cinque della sera… il verso si ripete come in una cantilena. A las cinco de la tarde. / A las cinco de las tarde. / ¡Ay qué terribles cinco de la tarde! / ¡Eran las cinco en todos los relojes! / ¡Eran las cinco en sombra de la tarde! (“Ah, terribili cinque della sera! / Eran le cinque a tutti gli orologi! / Eran le cinque all’ombra della sera!”). Anche qui sono le cinque a tutti gli orologi (anzi, su tutti i cellulari); in compenso non ci sono toreri e l’aria è luminosa. Il cielo appare profondo, complesso, mentre i boschi sulle montagne sono di un verde intenso, già quasi estivo. Mi si avvicina Enver, emigrato in Svizzera dal Kosovo nel 1978, e mi chiede se possa offrirmi qualcosa da bere, magari un sorso di birra. Poi deplora lo stato della fontana al centro della piazzetta, con l’acqua che esce a singhiozzo e il fondo invaso dalle alghe. Colpa del Municipio! Ci vuole cura, ripete, ci vuole cura nelle cose.
Intorno alla piazzetta si muove un mondo lento, un po’ stordito da questo caldo venuto con il favonio. Due uomini con la camicia bianca camminano avanti e indietro, conversando a bassa voce. Una sfilata di carrozzine blocca il passo a un monopattino. Una coppia si ferma alla fontana. Lui riempie una bottiglia di plastica. Lei dice: Non ho mai fatto una passeggiata così, davvero, non mi è mai capitato. Dopo di loro, un bambino si arrampica sulla fontana per arrivare con le labbra all’esile filo d’acqua concesso dal Municipio.
Fra il 1921 e il 1924 García Lorca, ispirandosi a un ritornello popolare infantile, scrisse la Balada de la placeta (“Ballata della piazzetta”). La poesia è un dialogo fra i bambini e il poeta: essi lo chiamano, gli pongono domande, e il poeta risponde di avere nel cuore un doblar de campanas / perdidas en la niebla (“Un rintocco di campane / perdute nella nebbia”). Poi gli chiedono perché se ne vada tanto lontano dalla piazzetta; il poeta risponde che va in cerca di maghi e di principesse. Los Niños: / ¿Por qué te vas tan lejos / de la plazuela? // Yo: / ¡Voy en busca de magos / y de princesas! Il dialogo prosegue. Il poeta spiega ai bambini che a mostrargli il cammino sono la fuente y el arroyo / de la canción añeja (“la fonte e il ruscello / della canzone antica”). Alla fine rivela che il suo è un percorso verso l’anima dell’infanzia, allo stesso tempo giocosa e misteriosamente saggia: Se ha llenado de luces / mi corazon de seda, / de campanas perdidas, / de lirios y de abejas, / y yo me iré muy lejos, / más allá de esas sierras, / más allá de los mares, / cerca de las estrellas, / para pedirle a Cristo / Señor que me devuelva / mi alma antigua de niño, / madura de leyendas, / con el gorro de plumas / y el sable de madera (“S’è riempito di luci / il mio cuore di seta, / di campane perdute, / di iris e di api, / e io me n’andrò molto lontano, / più in là di quei monti, / più in là dei mari, / vicino alle stelle, / per chiedere a Cristo / Signore che mi ridia / la mia anima antica di bimbo, / matura di leggende, / con il berretto di piume / e la sciabola di legno”). Non so se vorrei riavere la mi alma antigua de niño. Voltarsi indietro a cercare il passato può essere pericoloso. Ma in qualche modo sento che quell’alma de niño non è mai scomparsa, e che se avessi una sciabola di legno, di nuovo, diventerei all’istante un pirata.


A una certa ora la piazzetta si svuota, e intorno alle panchine si posa un nugolo di passerotti. Più in là, sull’aiuola, un merlo beccuzza un verme dal terreno. Dopo averlo inghiottito emette qualche nota, non so se di trionfo o di soddisfazione. Dal momento che mi ritrovo in tasca un richiamo per cinciallegre, intono anch’io qualche fischio. Chissà, penso, magari merli e cinciallegre possono andare d’accordo. Il merlo però alza la testa di scatto, perplesso. Sembra quasi offeso dal mio tentativo di cinciallegrare. Faccio per avvicinarmi, ma quello svolazza via con un certo sdegno. Allora mi siedo su una panchina e provo ancora a cantare, unendomi al coro degli uccelli, ai motori, alle chiacchiere dei vecchietti, alle grida dei bambini, al fruscio precario ma tenace della fontana al centro de la plazuela.

PS: Federico García Lorca nacque nel 1898 nei dintorni di Granada e venne fucilato dalla Guardia civile franchista nel 1936. La mia versione di Canti gitani e andalusi (Guanda 2005), con testo originale a fronte, è a cura di Oreste Macrì.

PPS: Il richiamo per cinciallegre è un regalo di compleanno. Non sono ancora riuscito a trovare un volatile che voglia discutere con me, ma io non demordo e continuo a trillare.

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Merlità

C’è una poesia di Toti Scialoja che dice: L’uccello nero / salta leggero, / si chiama merlo / senza saperlo. L’altro giorno, tanto per fare conversazione, l’ho recitata a una bambina, suscitando grandi risate. Le ho chiesto per quale motivo ridesse e lei mi ha spiegato che il merlo era buffo, perché non sapeva nemmeno chi era. Allora mi sono informato: E tu lo sai chi sei? La bambina mi ha rivelato il suo nome, poi mi ha detto: Anche tu sai chi sei, no? Certo, le ho risposto, io sono il merlo.
fullsizerenderCi sono giornate così, da merlo. Saltelliamo leggeri (o più spesso arranchiamo pesanti) senza sapere bene chi siamo veramente. A volte, risalire a sé stessi è un’impresa. Nella maggior parte dei casi, cerco di avvicinarmi alla mia identità per mezzo del lavoro, ma talvolta è il lavoro stesso a privarmi di consistenza. Per farla breve, il mio mestiere è scegliere parole da presentare a chi vuole ascoltarmi. È chiaro allora che si crea un divario fra le mie parole e il mio “io”. Che le mie storie siano i miei saltelli? Che siano proprio loro a nascondermi il mio essere merlo?
copia-di-fullsizerenderBene, mi rendo conto che questi ragionamenti possano sembrare sintomo incipiente di schizofrenia. Provo a spiegarmi con un esempio. Il critico musicale Alain Gerber, nel suo Balades en jazz (Gallimard 2007), racconta di un incontro con il grande sassofonista Stan Getz (1927-1991). Siamo nel famoso locale “Chat qui pêche” di Parigi, un sabato pomeriggio. È un’ora senza incanto: nel seminterrato il giorno arriva come un filo di luce grigiastra, e fra le pareti ristagna ancora il fumo della notte precedente. Il sax di Stan Getz pende inerte dal suo braccio, mentre lui è assente, quasi stordito. Gerber è imbarazzato: poco prima ha visto Getz comportarsi in modo ridicolo, protestando per delle sciocchezze, scoppiando a piangere come un bambino. Aveva gridato, era diventato tutto rosso. Gerber riflette con amarezza: Quando l’avevo incontrato nei dischi in cui era di poco più vecchio di me, una dozzina di anni prima, l’avevo preso per un re di questo mondo. Confondiamo sempre i musicisti con ciò che non sono: in particolare, li confondiamo facilmente con la loro musica. Davanti ai miei occhi, il gigante si era trasformato in un bambino viziato. Odioso, irascibile e precario. Gerber non vuole rinunciare alle illusioni di gioventù, alla semenza ancora verde di un amore puro. Con uno slancio disperato, si mette allora a canticchiare Hershey bar, una di quelle melodie che avevano incoronato Stan Getz nei miei sogni, in passato. Il musicista si gira, lo guarda, fa un sorriso un po’ di gomma e si porta il sax alle labbra.

Quando suona, accade una sorta di prodigio, come se Stan Getz conoscesse da sempre Alain Gerber: le sue frasi leggevano in me come in un libro aperto. Il critico riflette: mai un concerto fu tanto privato come quello. Nello stesso tempo si rende conto di essere davanti a un enigma: qualcosa che possiedo senza comprenderlo. Ha l’impressione di aver colto un riflesso di paradiso: comme un reflet d’un paradis où l’on ne saurait pas son nom. Il paradiso allora significa scordarsi il proprio nome? In questo caso il merlo di Scialoja sarebbe sulla via giusta… ma non ne sono convinto. Getz era un uomo pieno di limiti, infantile, schiavo della droga; tuttavia, mediante il suo strumento, aveva il dono di creare una bellezza straordinaria. Qual è il vero Stan Getz, fra i due che si sono manifestati quel sabato pomeriggio in un seminterrato parigino? Non riesco a rispondere: per me lo sono entrambi. Forse non sono necessari i limiti, perché sorga la bellezza; ma di fatto mi pare che nel nostro mondo accada sempre così: la voce più pura nasce dall’imperfezione, e non c’è melodia sublime che non celi nel profondo una ferita.
Perciò, nel mio piccolo, cerco di stare lontano dalla pericolosa suddivisione fra le mie parole e il mio cosiddetto “io autentico”. So che anche quando invento storie dissemino qualcosa di me; e quando parlo delle mie faccende qui sul blog, non sempre riesco a trasmettere l’essenza del mio pensiero. Anzi, ogni tanto parto per dire una cosa e alla fine mi accorgo di averne detta un’altra. Chissà, magari capiterà anche stavolta…
image1Un tempo, nella scrittura, ero un perfezionista: come se tutto dipendesse dal mio scegliere le parole giuste. In parte lo sono ancora. Ma cerco di imparare ad accogliere gli imprevisti; e forse è anche per questa ragione che ho deciso di suonare il sax (ne ho parlato qui). Non ho nemmeno un centesimo della grazia di Stan Getz, naturalmente. Quando suono non mi trovo sul mio terreno – come accade invece quando uso le parole – e di continuo devo fare i conti con la differenza fra ciò che vorrei e ciò che sono. Ma non è così anche quando scrivo, in un certo senso? Per quanto possa pianificare e costruire, c’è un nucleo segreto al quale non accederò mai. In altre parole, anche quando il merlo scopre di essere merlo, non saprà mai fino in fondo in che cosa consiste la sua “merlità”. È una sofferenza? Direi di sì, è una continua incertezza; ma sapere tutto, forse, sarebbe ancora peggio. Ogni gesto creativo, ogni atto di comunicazione è in gran parte misterioso. Come cantava Gianmaria Testa: …e non sapremo mai / da che segrete stanze / scaturisca il canto / e da quali lontananze, paure, rabbia / tenerezza / o rimpianto / e da quale nostalgia / prenda voce e parta / questa lunga scia / che ancora adesso / e imprevedibilmente / ci porta via.

PS: La poesia di Scialoja viene da Amato topino caro (Bompiani 1971); si trova pure nella raccolta Versi del senso perso (Einaudi 2007). La canzone di Testa è presa dall’album Extra-muros, pubblicato nel 1996 (Tôt ou tard) e poi ancora nel 2005 (Harmonia mundi). L’incisione di Hershey bar è avvenuta a New York il 17 maggio 1950; insieme a Getz ci sono Al Haig al pianoforte, Tommy Potter al basso e Roy Haynes alla batteria; il brano si trova in The complete Roost sessions (Definitive Classics 2008). Non so a quale epoca risalga l’aneddoto di Gerber (nel libro non lo specifica), ma credo che sia negli anni Sessanta. I merli sono quelli del gioco Il mio primo frutteto (Erster Obstgarten, Haba 2009). La fotografia di Stan Getz è di Giuseppe Pino, tratta dal volume Sax! (Earbooks 2005).

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