Appunti sulla resistenza

Propongo anche qui un articolo apparso sabato 21 marzo 2020 sul quotidiano svizzero “La Regione” (lo potete leggere nel sito del giornale). Non ho modificato il testo, ma ho aggiunto qualche fiore primaverile.

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Quando esco a fare la spesa, nelle strade vedo facce tirate e sguardi che misurano le distanze. Abbiamo paura, è normale. Una certa ansia è inevitabile e perfino utile. Mi chiedo tuttavia: come fare perché il panico non abbia l’ultima parola? Più che limitarci a esclamare #iorestoacasa, dobbiamo forse aiutarci a dare un senso a questo limite, a questa immobilità. Non basta sognare il futuro – #andràtuttobene – ma possiamo cercare forme di bellezza anche dentro le circostanze avverse.
Dopo che hanno chiuso le scuole elementari, le mie figlie hanno cominciato a giocare alla scuola. Ognuna delle due impersonava il ruolo di una maestra. Entrambe avevano una classe di una ventina di allievi, a cui si rivolgevano con domande, richieste, rimproveri. Hanno invaso ogni spazio con esercizi, compiti, comunicazioni ai genitori, pagelle, quaderni, carta, colla, matite. Le loro maestre (quelle vere) hanno inviato dei compiti (veri), ma tutto si mescola nel gioco e la mia casa è piena di alunni immaginari: me li ritrovo sul divano, in sala da pranzo, nel mio studio. Prima di andare in bagno, ormai, dico alle bambine: se ci sono allievi immaginari qui dentro, per favore cacciateli fuori! Fra l’altro, proprio in questi giorni avremmo dovuto traslocare, ma naturalmente non è possibile. Siamo ancora qui, viviamo un’altra primavera dentro queste mura a cui avevamo già detto addio.
A volte le mie figlie scorgono dall’altra parte del giardino una loro coetanea. Si scambiano qualche parola con imbarazzo, nonostante abbiano passato intere giornate a giocare insieme. Non sono abituate alla distanza. A me sembra triste vederle così, ma dopo un po’ le bambine cominciano a scambiarsi informazioni. «Quante figlie avevi tu?» chiede l’una indicando le bambole dell’altra. «Sette» risponde l’interpellata, e precisa che «erano tutte appena nate». Io mi complimento per il parto settigemellare e mi abituo all’idea di essere nonno. Ecco una forma di resistenza: affidarsi all’immaginazione per combattere l’angoscia.
Certo, il dolore non si cancella, anche perché la pandemia non è uguale per tutti. C’è chi deve spostarsi ogni giorno per lavorare, chi è senza casa, chi è separato dai suoi famigliari, chi non riesce più a tirare avanti. Non siamo in grado di colmare tutte le sofferenze, ma possiamo fare del nostro meglio per infonderci coraggio. Come scrittore, non capisco se sia meglio offrire la mia testimonianza o il mio silenzio. Se mi avventuro nei social network vengo inondato da un flusso di notizie, teorie, discussioni, litigi, appelli, racconti, drammatizzazioni e sdrammatizzazioni… Questo mi spaventa. Perché proprio io dovrei aggiungere altre parole?
Il romanziere Andrea Pomella, descrivendo sé stesso mentre in questi giorni fa ginnastica insieme a suo figlio, annota che gli è «sembrato di sentire la sua voce da grande che tenta di ricordare. Allora – aggiunge – ho pensato che non voglio perdermi niente, nemmeno queste giornate messe in fila sul davanzale come bottiglie vuote ad asciugare». Anch’io tento come tutti d’infondere vita a queste giornate-bottiglie. Perciò scrivo questo articolo, leggo, riordino la casa, cucino, suono il sax, mi cimento con lo studio dell’arabo (o almeno ci provo…), ogni tanto lavoro alla radio e mi collego con i miei studenti liceali per le videolezioni. L’altro ieri abbiamo letto insieme Vittorio Sereni, e in particolare un testo risalente agli anni Quaranta. Prigioniero degli americani in Algeria, il poeta scopre che è difficile pensare ad altro «poiché questo è accaduto: che i fatti si sono sostituiti alle immagini; che quattro o cinque sentimenti elementari si sono sovrapposti all’immaginazione».
Guardando sullo schermo le facce degli allievi, ho indovinato nei loro sguardi la stessa difficoltà a pensare ad altro. Tuttavia, insieme alla fatica di restare sempre in casa, ho intravisto anche la consapevolezza che non sia inutile, in queste circostanze, parlare di poesia. Sereni racconta che nel campo di prigionia c’era chi scriveva, come lui. Ma subito dopo dice che la sua fiducia è soprattutto «per l’ignoto che tornerà a casa senza preziosi quaderni nel sacco perché osa ancora credere alla pazienza e alla memoria». Ecco un’altra forma di resistenza: credere alla pazienza e alla memoria.
Proseguendo la lezione, ci siamo imbattuti in un perfetto endecasillabo: «Così, distanti, ci veniamo incontro». Un verso composto da Sereni più di settant’anni fa, in una situazione diversa, ci ha raggiunti come un dono (qualcuno ha detto che potrebbe diventare un hashtag: #cosìdistanticiveniamoincontro). Ho deciso che lo prenderò come un’indicazione di rotta. La disponibilità all’incontro, all’incontro vero, può aiutarci a lottare contro la sofferenza, le ingiustizie, la paura, la fatica.
«Così, distanti, ci veniamo incontro.»

PS: Grazie al quotidiano “La Regione” e in particolare a Lorenzo Erroi, che mi ha esortato a scrivere questo articolo nonostante la mia iniziale reticenza. Grazie anche ad Andrea Pomella: la sua immagine di questi giorni come bottiglie vuote mi ha spinto a riflettere sulla mia quotidianità.

PPS: Ho scattato queste fotografie nelle scorse settimane (fino all’inizio di marzo). La prima immagine, invece, ritrae una genziana primaticcia cresciuta nel giugno 2019 sull’altopiano della Greina, a circa 2300 metri sul livello del mare. Ho sempre amato le genziane primaticce (Gentiana verna) perché in luoghi aspri e remoti annunciano lo scioglimento delle nevi. Il loro blu profondo, misterioso, esprime la lontananza e forse anche la promessa di una stagione più serena.

PPPS: Dal sito del liceo, ecco un frammento di video in cui – rispondendo a una domanda sulle lezioni in diretta video – cito anche il verso di Vittorio Sereni.

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Bogey

Ci sono mattine in cui, dopo aver ascoltato le notizie alla radio, sento cadermi addosso come un velo, una cappa scura che m’impedisce nei pensieri e nei movimenti, e che mi allontana dai gesti della quotidianità. La voce stentorea del giornalista annuncia stragi durante i mercatini di Natale, attentati, azioni di guerra che – dietro l’esito militare, qualunque esso sia – significano famiglie lacerate, solitudini, case e speranze distrutte, smarrimenti, fame, freddo, pensieri ed emozioni inghiottiti dal sentimento martellante della paura.
copia-di-image1-2Le notizie si susseguono, giorno dopo giorno, tanto da causare in me due reazioni distinte. Da un lato, sento insinuarsi il pericolo dell’assuefazione: un altro attentato, un altro eccidio. Dall’altro, percepisco la vanità del mio lavoro. A che serve raccontare una storia in più, quando dilagano la violenza e la disperazione? Mi sembra che questi fatti esigano il mio dolore, la mia solidarietà. Ma a parte inviare dei soldi – un gesto comunque poco personale – come posso esprimere la mia vicinanza? Il mio lavoro mi porta su sentieri distanti, mi conduce a trovare e a raccontare storie che non hanno niente a che vedere con queste tragedie.
guernica-1024x384Cercando una risposta, mi sono imbattuto in un testo dello scrittore Dany Laferrière. Mi capita di chiedermi come faccia a reggersi questo strano mondo. Sì, perché a volte sembra attaccato a un filo sottilissimo. Che cosa ci impedisce di precipitare nell’orrore più assoluto? Sappiamo bene che gli orrori si accumulano senza cancellarsi a vicenda. Il terrore dell’uno non annulla la violenza dell’altro. Le due cose si sommano. E un bambino appena nato riceve in eredità questo smisurato patrimonio di ferocia. La manifestazione del male avviene ovunque: dove c’è la guerra ma anche qui, dove tutto sembra scorrere liscio. In genere – continua Laferrière – la gente pensa che sia un fenomeno contemporaneo, mentre invece si tratta di una delle più antiche pratiche umane: terrorizzare l’altro. Ma è anche vero che la resistenza è antica quanto il terrore. E per sopravvivere ha imparato a nascondersi dappertutto: in un breve silenzio come in una risata. E anche a spuntare dappertutto appena può, come le erbacce.
Mi piace l’immagine della resistenza come un’erbaccia. Non è per forza qualcosa di appariscente, non è sempre un’azione eroica. Laferrière racconta una testimonianza della giornalista irachena Inaam Kachachi. Dopo uno dei vari bombardamenti su Baghdad, lei era riuscita a raggiungere sua madre di ottantaquattro anni, che sembrava dispiaciutissima perché non trovava più i suoi trucchi, perduti in mezzo a tutto quel trambusto. Commenta Laferrière: La frivolezza è forse la più commovente forma di coraggio.
image1-2Un silenzio, una risata, un gesto frivolo. Mi viene in mente che anche il nostro vivere quotidiano, a suo modo, è una forma di resistenza. Non occorrono decisioni storiche: forse l’erbaccia della resistenza significa svolgere nel modo migliore possibile il lavoro che siamo chiamati a fare, essere capaci di ironia e autoironia in ogni momento, anche quando il nostro orgoglio ci vorrebbe seriosi. Leggere una storia, ascoltare una canzone, guardare un film, cercare di capire meglio noi stessi e il mondo è già una forma di resistenza alla superficialità, a quell’indifferenza che può facilmente sfociare nell’odio.
Non vorrei cadere nella retorica. Perciò chiamo a testimone un personaggio che ha fatto dell’antiretorica la sua bandiera. È solo una storia, è un fantasma nato dalla grande macchina del cinema, ma secondo me ha qualcosa da insegnare: la sua corazza di apparente cinismo protegge la fragilità della compassione, e ci mette al riparo dalla chiacchiera vana, dal sentimentalismo, dall’isteria dell’ennesimo post strappalacrime nel mare dei social network.
img_8689Parlo di Humphrey Bogart, detto Bogey, nato a New York nel 1899 e morto nel 1957. Cinematograficamente parlando, sembra roba vecchia. Ma come tutte le erbacce, Bogey resiste all’usura del tempo. Di recente ho rivisto Casablanca grazie a un cineforum organizzato dagli studenti del Liceo diocesano di Breganzona, nella Svizzera italiana. Il film lo conosco quasi a memoria, ma ogni volta è in grado di stupirmi. Così come mi ha stupito il silenzio, l’attenzione degli studenti di fronte a un’opera del 1942. Quel mondo ormai non esiste più, e la rappresentazione che ne dà Casablanca è comunque storicamente inattendibile. È un film di propaganda, girato in piena guerra, con tutti i pericoli del caso: retorica, imprecisioni, luoghi comuni. Eppure, miracolosamente, non solo Casablanca evita il naufragio, ma riesce a dire qualcosa che ci sia di aiuto ancora oggi. Questo è anche merito di Bogey. Il suo modo d’interpretare Rick va oltre la recitazione, ma incarna un modo di essere. Bogey era pieno di difetti: beveva troppo, era umorale, aveva difficoltà nell’espressione dei sentimenti, soffriva di manie di persecuzione. Ma ebbe il coraggio di portare le sue debolezze nei suoi personaggi. In un certo senso, l’eroe del film è Victor Laszlo, che combatte direttamente il male (cioè i nazisti) e che con il suo carisma invita alla ribellione. Ma è Bogey, dietro il suo apparente distacco, a rendere possibile tutto ciò: un cenno del capo, una battuta, la capacità di sacrificio al momento giusto, la discrezione nel fare buon viso a cattivo gioco. Senza Rick, anche i gesti eroici di Laszlo non sarebbero possibili.

Mi sembra che tutti noi, in quel piccolo cineforum, davanti a un vecchio film, abbiamo intuito che l’erbaccia della resistenza può essere il coraggio della quotidianità. Scrive l’autore Jonathan Coe: È innegabile che, dopo aver visto uno dei grandi film di Bogart, si ha la sensazione che qualcosa ci abbia arricchito ed elevato lo spirito. Il personaggio di Bogey va oltre le sue singole manifestazioni. È un invito a prendere la vita con ironia, a non cadere nell’autocommiserazione o nell’ideologia. Lui stesso seppe conservare il senso dell’umorismo fino all’ultimo. Quando stava male, leggendo che i giornali lo avevano già dato per morto, rispose con queste parole: Ho letto che mi hanno asportato entrambi i polmoni; che mi restava mezz’ora di vita; che ero in fin di vita in un ospedale che non esiste nemmeno; che il mio cuore ha cessato di battere ed è stato sostituito da una vecchia pompa di benzina presa da una stazione di servizio in disuso. Mi hanno spacciato per diretto a tutti i cimiteri da qui al Mississippi, tra i quali alcuni dove sono certo che accettino solo cani. Tutto ciò addolora i miei amici, per non parlare delle compagnie di assicurazione…
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Che cosa ci può dire oggi questo fantasma in bianco e nero, con il suo impermeabile, la sigaretta, il cappello, con il suo sguardo insieme addolorato e ironico? Secondo Jonathan Coe, la strategia di Bogart si riassume nell’espressione take it and like it, che in italiano si potrebbe rendere con “fare buon viso a cattivo gioco”, “sopportare il male e sorridere nelle avversità”.
Questo è Bogey. Così lo abbiamo rivisto in Casablanca, ancora una volta. Una vecchia erbaccia del 1942, certe volte, può aiutarci ad affrontare il peso del mondo più di tante analisi storico-politiche, più di tanti brillanti editoriali, più di tanti proclami intessuti di belle parole.
Take it and like it.
Cerchiamo di fare del nostro meglio.

PS: Il cineforum s’intitola Ippopotami in vacanza. Il titolo proviene da una bella poesia di Billy Collins, che riflette sulla capacità d’immedesimazione suscitata dai grandi film. Ecco qui la locandina (la prossima proiezione, Ombre rosse, sarà domenica 8 gennaio alle 17.30, in via Lucino 79 a Breganzona, vicino a Lugano). Ed ecco la poesia di Collins: Ippopotami in vacanza // non è proprio il titolo di un film / ma se lo fosse lo vedrei di sicuro. / Mi piacciono le loro gambe corte e le teste grosse, l’aspetto globale dell’ippopotamo. / Mentre in centinaia giocheranno divertiti / nel fango di un ampio, lento fiume, / io mangerò il popcorn / nel buio di un cinema di quartiere. / Quando apriranno le bocche enormi / solcate da grandi e tozzi denti / io berrò la mia enorme Coca. // Starò ad un tempo seduto al mio posto / e nell’acqua a giocare con loro, / proprio come succede / in ogni grande film. / Solo un recensore dall’animo meschino chiederebbe in vacanza da che cosa?

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PPS: Le parole di Dany Laferrière sono tratte da L’Art presque perdu de rien faire, pubblicato dalle Éditions Grasset & Fasquelle nel 2014; in italiano, con il titolo L’arte ormai perduta del dolce far niente, è uscito per 66thand2nd nel 2016 (tradotto dal francese da Federica Di Lella e Francesca Scala). Le parole di Coe e dello stesso Bogart provengono da Humphrey Bogart. Take it & like it: è una biografia scritta da Coe nel 1991 e pubblicata in italiano da Feltrinelli nel 2004, con la traduzione di Anna Mioni e il titolo Caro Bogart. Una biografia. Le due immagini iniziali sono una riproduzione di La guerra (Marc Chagall, 1966) e di Guernica (Pablo Picasso, 1937). I versi di Billy Collins sono presi dalla raccolta Questions About Angels (1991), poi confluita in Sailing Alone Around the Room e pubblicata in italiano da Fazi nel 2013 con il titolo A vela in solitaria intorno alla stanza (traduzione di Franco Nasi).

 

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