Era un giorno di giugno, verso la fine degli anni Novanta. Me ne stavo seduto in uno stanzone, insieme a decine di altri studenti, e stavo affrontando l’Esame di Maturità di Arti Visive. Uso le maiuscole per dare solennità a un’operazione che, in fondo, consisteva nello spremere colori a tempera fuori dai tubetti per riempire una griglia di cento piccoli quadrati. Per uno come me, che ha raggiunto il massimo valore artistico all’età di nove anni, era un’impresa irta di ostacoli. Infatti, presto la situazione degenerò. Dopo un quarto d’ora il tavolo e le mani erano cosparsi di colore. Dopo trenta minuti le macchie variopinte si estendevano alle braccia, alla camicia, ai pantaloni. Alla fine della prima ora, anche sui capelli cominciavano ad apparire tracce di blu magenta.
Ricordo che ogni tanto sbirciavo fuori dalla finestra, in cerca di sollievo. (È un gesto che gli studenti fanno da sempre: gettare lo sguardo al di là dei vetri, nel mezzo di un esame, con una struggente nostalgia di libertà). Mi colpiva l’azzurro del cielo, il verde degli alberi intorno al cortile. C’erano tre ragazzi che giocavano a lanciarsi delle biglie, in un angolo, e un corvo che becchettava accanto al davanzale. Mi pareva che la vita e i colori autentici mi aspettassero là fuori, e che io stessi mettendo in scena una pallida contraffazione. Ripresi pazientemente a miscelare il rosso e il giallo, con una punta di nero, per vedere che cosa avrei potuto ricavarne. Nello stesso tempo, mi venivano in mente parole, invece di colori. Ricordo che scrissi qualche appunto pseudo-poetico in un foglietto che, dopo tanti anni, ho ritrovato in uno scatolone. Ecco il testo di allora:
Sfugge il colore si arrampica
sui polsi. Sobbalza il pennello:
non sa resistere non può
alla macchia improvvisa al movimento…
Fuori, sotto gli alberi
l’agguato dei colori. Tre ragazzi
giocano a biglie. Discutono
di strane regole che sanno loro…
E quel corvo
che si aggira vicino, nero,
lisciandosi le penne, carico
di dignità. Mistero.
Ora non so più se la discussione dei ragazzi me la fossi inventata per ragioni poetico-tortuose o se fosse vera. Dovete considerare che avevo diciotto anni e che stavo cercando di salvare un esame che tendeva alla catastrofe.
Alla fine, come sempre, in qualche modo l’esame passò. È questo il bello degli esami: passano. Bene o male, ma passano. Tranne gli esami di maturità che, per qualche ragione misteriosa, continuano a starci addosso per tutta la vita. Quante persone li sognano ancora, magari decenni dopo? Qualche volta è capitato anche a me: eccomi trafelato, immerso in affannose ricerche per ritrovare gli appunti di matematica, di fisica o di greco. Curiosamente, nel sogno mi ritrovo a dover rifare gli esami oggi, alla mia età, a causa di un indefinito inghippo burocratico. Sogno? Sarebbe meglio chiamarlo incubo…
Di recente mi è capitato di passare da un liceo durante gli esami. La scena ha una sua forza primordiale: la porta chiusa, la stanza dove si consuma il destino di anni e anni di studio. Gli ultimi, terribili istanti di attesa. Il dubbio feroce che insorge due minuti prima dell’ora x. Il ripasso furibondo, sessanta secondi prima. L’ultimo appunto, trenta secondi prima. Una formula scarabocchiata su un foglio, per terra o contro una parete. Le raccomandazioni. Le palpitazioni. La ragazza che evita di stringere la mano all’esaminatore perché, mi scusi, sono troppo sudata. E poi, quando lo studente esce, una raffica di domande. Che cosa ti hanno chiesto? È cattivo? Ma voleva sapere anche le date? E tu gli hai detto che era Celestino V o Ponzio Pilato? Scene di lacrime, fou rire, virtuosismi critici (l’Orlando Furioso spiegato in trenta secondi), stupori, terrori, consigli volanti (ricorda d’invertire la funzione!) grandi domande (qual è l’unico segno d’interpunzione che usa Ungaretti nell’Allegria?) e profondi dubbi esistenziali (ma se mi chiede la dimostrazione, che cosa faccio?). Il trambusto cresce, raggiunge il parossismo e poi passa. Perché gli esami, appunto, passano.
Un paio di anni fa scrissi un racconto sulla frontiera tra studio e vacanza. In un certo senso, durante gli esami la vita è ferma in un parcheggio: tutto è rimandato, si vive in una bolla. Poi, quando la frenesia finisce, le vacanze ci riportano anche i problemi che avevamo sospeso, insieme a quella che ci illudiamo sia la “vera vita” dopo lo stress dello studio. E non sappiamo, nella nostra ingenuità, che anni dopo non ricorderemo le settimane di vacanze, scivolate via insieme a tante altre, ma solo i momenti di tensione, che si sono incisi nella mente e nel cuore e che, in maniera insondabile, ci hanno insegnato a essere noi stessi.
Leggi il racconto “Il primo giorno di vacanza”
Per l’ultima volta nella nostra vita abbiamo studiato tutto, ad ampio raggio: matematica e poesia, rocce calcaree e solipsismo, integrali e Giulio Cesare. Al momento degli esami di maturità, siamo ancora come gli uomini del medioevo e del rinascimento: affrontiamo ogni disciplina, indaghiamo ogni segreto. Ma poi gli esami passano. Passano? È finita, ci hanno detto. Ormai sei in vacanza, ci sorridevano, l’anno prossimo che cosa farai? Invece, all’insaputa di tutti, gli esami di maturità stavano continuando, e continuano ogni giorno, e non cessano di metterci alla prova, di chiederci collegamenti tra i colori e i corvi, tra i fiori e l’aritmetica, tra l’amore e l’economia, tra la letteratura e la vita.
PS: L’unico segno d’interpunzione che usa Ungaretti nell’Allegria, a quanto pare, è il punto di domanda (lo scrivo a uso e consumo degli studenti che eventualmente mi leggessero).