La settimana scorsa, all’acquario di Genova, mi sono trovato di fronte a uno squalo. Me ne stavo lì con tutte le incertezze di un povero essere umano, mentre lui nuotava inesausto, come fa da quattrocento milioni di anni. Noi soffriamo, ci interroghiamo sul tempo, sulla politica, sull’amore. E lo squalo? Prima delle piante, prima dei vertebrati, era già la macchina perfetta che è ora. Per un attimo ho incrociato i suoi occhietti fissi. Poi ho pensato: chissà che noia.
Le nostre imperfezioni ci permettono di andare avanti, di cambiare nel tempo. Le nostre domande, la nostra capacità d’immaginare, di raccontare il mondo: è questo che ci contraddistingue e che ci rende unici fra tutte le specie. Ma il problema è che ad annoiarsi – come hanno rilevato tanti filosofi e poeti – non sono gli squali, ma siamo noi. Lo stupore di essere qui, di fare parte del mondo, a volte non riesce a contrastare quel sentimento strisciante, che sale da dentro e che corrompe ogni cosa.
Ci sono giorni in cui ho l’impressione che le rotaie della vita quotidiana mi spingano davanti agli stessi paesaggi, e mi pare di ripetere le stesse cose, le stesse parole, da sempre. Allora mi dico: quando ti troverai di fronte a ciò che non hai mai visto, magari saprai stupirti di nuovo. Ma non sono sicuro che sia tanto semplice.
Proprio all’acquario di Genova, in mezzo a stranezze marine di ogni tipo, a un certo punto mi sono chiesto: ma perché mai la vista di un delfino – o di una medusa, se preferite – dovrebbe suscitarmi un sentimento di meraviglia? Tutto è come deve essere, com’era e come sarà. Mi dicevo: lo spettacolo della natura, nella sua perfezione, è qualcosa di sorprendente; se non riesce a stupirti nemmeno questo, che cosa mai ti scuoterà? Forse l’arte della meraviglia dovrebbe venire allenata regolarmente. Ciò che la gente chiama “restare giovani”, nel limite del possibile, è la capacità di rinnovare lo stupore. E certe volte lo stupore nasce con la pazienza. Bisogna mettersi davanti ai delfini e aspettare. Scrive Cesare Pavese di non avere niente in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri. Poi aggiunge che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai.
Dopo un po’ i movimenti sinuosi dei pesci, le loro incomprensibili capriole hanno cominciato a ipnotizzarmi. Nello stesso tempo, come se mi trovassi al cinema, mi sono reso conto del flusso di umanità che passava davanti alla vasca. In una sua canzone, Lucio Dalla parla dell’amore silenzioso dei pesci / che ci aspettano nel mare. Ma il vero mistero non erano le creature subacquee; erano gli uomini, le donne, i bambini, quei profili umani che si prendevano per mano e agitavano gli iPhone davanti alla parete liscia delle vasche.
Invece di concentrare lo sguardo sui pesci, ho cominciato a osservare i miei simili. Che cosa fa sì che un essere umano adulto, sui cinquant’anni, si cimenti in una serie di contorsioni, protendendo un’asta di ferro, per il desiderio di scattare un selfie accanto a uno squalo? Molto interessanti erano le dinamiche di coppia (l’amore silenzioso degli umani). Una donna sulla quarantina con stivali alti, minigonna, top aderente, era intenta a fotografare i delfini; accanto, un po’ più indietro, il suo accompagnatore ignorava bellamente ogni forma di cetaceo e fotografava lei, la sua donna, da ogni punto di vista. Pochi metri più in là, una ragazza era affascinata dalla danza leggiadra e impalpabile delle meduse: sgranava gli occhi, tentava di filmarle con il cellulare. Il suo ragazzo, invece, non ne poteva più: andiamo, le diceva, adesso le hai viste, no? E lei, rapita: ma sono belle!
Ecco il fascino dell’acquario: giorno dopo giorno, il mondo di sotto e quello di sopra si sfiorano senza incontrarsi. Un bimbo prova ad accarezzare il dorso delle razze, una foca segue per un paio di secondi il gesto di una mano, ma poi ognuno torna alla sua esistenza. Viene in mente quell’altra canzone di Lucio Dalla, nella quale immagina il pensiero segreto delle creature marine: Frattanto i pesci / dai quali discendiamo tutti / assistettero curiosi / al dramma collettivo / di questo mondo.
Com’è profondo il mare… oltre a tutti i significati immaginabili, per me questo verso vuol dire che, perfino nei giorni più banali, c’è sempre qualcosa da scoprire. Il mare non è soltanto il mare, siamo tutti noi. Nei momenti peggiori, sembra un paesaggio eternamente uguale, fatto di acqua che si aggiunge ad altra acqua. Ma con un po’ di allenamento, si può arrivare a percepire il mondo come un luogo miracoloso. Già la grazia di avere fatto parte / di questa eternità incomprensibile, / di questo miracoloso spazio, / dovremmo essere grati.
PS: La poesia che cito alla fine è di Cesare Viviani, tratta da Credere all’invisibile (Einaudi 2009). La frase di Cesare Pavese proviene dall’Avvertenza ai Dialoghi con Leucò (nell’edizione Mondadori del 1972).
PPS: Il verso di Dalla sull’amore silenzioso dei pesci è tratto dalla canzone Henna, contenuta nell’album omonimo del 1993 (Pressing). Anche Com’è profondo il mare dà il titolo a un album, pubblicato nel 1977 (Ricordi).
PPPS: Grazie a Paolo per la fotografia dei pesci multicolori e a Martina per i video. La musica: Nightcall di Kavinsky & Lovefoxxx (video delfini) e la Cello Suite numero 1 in G minore di Bach (video meduse).
PPPPS: Devo precisare, infine, che lo squalo della prima immagine potrebbe non essere precisamente corrispondente allo squalo con cui ho avuto un rapido scambio di occhiate a Genova. Ma vai a sapere… non è facile distinguere uno squalo dall’altro.