Tony Camonte

Ogni giorno vivo momenti di solitudine. Può capitare mentre guido, in mezzo al flusso delle altre automobili. Oppure mentre cammino, mentre la sera aspetto che il sonno mi raggiunga. Mentre scrivo, chiuso nel mio studio. O perfino durante una conversazione: mi distraggo, fuggo con la mente per qualche secondo… di colpo, mi pare di essere un viaggiatore perso nel cuore del deserto.
Desert-B7X-800x600A volte mi raggiunge una solitudine più pericolosa, più strisciante. Il dubbio di non riuscire a comunicare come vorrei, il sospetto che i legami umani non riescano a vincere la differenza, la singolarità insanabile che mi separa dal mondo.
Di recente mi è capitato di guardare qualche film degli anni Trenta, tra cui Scarface, girato da Howard Hawks nel 1932. È un titolo che molti conoscono per l’omonimo rifacimento del 1983. Nella versione più moderna, diretta di Brian De Palma, Al Pacino è bravo nell’interpretare il mafioso che vuole conquistare il mondo; ma l’originale, con Paul Muni nel ruolo del gangster Tony Camonte, è più efficace nel dire quanto possa essere straziante e pericolosa la solitudine.
scarface-20Il protagonista si trova più volte a contemplare dalla finestra la scritta di un’agenzia di viaggi: THE WORLD IS YOURS. Nelle varie scene, queste parole assumono ora un valore profetico, ora un tono amaro di sconfitta. In fondo, Tony Camonte ha sentimenti molto semplici, non dissimili da quelli che tutti abbiamo provato da bambini: vuole possedere le cose che gli piacciono, i bei vestiti, le automobili, le ragazze, la stima degli amici e della famiglia. Secondo alcuni critici, addirittura, la gestualità e le espressioni di Muni fanno pensare a una scimmia o all’uomo di Neandertal, e nella sua passione per gli oggetti di lusso ritrovano qualcosa dell’attrazione del selvaggio per le perline colorate. Leonardo Gandini, in un saggio sul film, parla di un conflitto essenzialmente primitivo, brutalmente concreto nelle premesse, negli sviluppi e negli esiti.
In realtà, quel conflitto ce lo portiamo dentro tutti: la nostra parte più viscerale, più istintiva, vorrebbe possedere ciò che desidera, o nella migliore delle ipotesi vorrebbe perdersi in ciò che ama, fino a smarrire la propria identità. È un modo di reagire alla solitudine, ma è destinato a condurre a una solitudine più profonda, a far crescere il deserto interiore così come quello esteriore.

Fin dalla prima scena (a partire da 0.52), il film incanta gli spettatori e mostra quanto sia letale l’isolamento. È l’alba. Un inserviente sta spazzando i resti di una festa al Costillo Café: stelle filanti che avviluppano i tavoli, decorazioni, perfino un indumento femminile. Sono andati via tutti: soltanto il padrone, il gangster Big Louis Costillo, è ancora seduto a un tavolo insieme a qualche sgherro. Promette che organizzerà una festa ancora più grande, perché Big Louis è arrivato in alto; ormai ha tutto: una casa, un’automobile, una ragazza. Rimasto solo, il gangster va a telefonare. Allora vediamo avvicinarsi l’ombra di un individuo, che si sovrappone alla croce del telaio di una finestra. L’uomo-ombra sta fischiettando un motivo (che tornerà nel film). Si avvicina a Big Louis e lo ammazza con un colpo di pistola. Poi avvolge l’arma in un fazzoletto, la getta vicino al cadavere e se ne va. L’inserviente arriva e vede il cadavere. Senza scomporsi, si toglie il grembiule e indossa la giacca, prima di lasciare il locale. Il tutto è filmato in una sola lunga sequenza. Subito dopo, i giornali parlano di una gang war, una guerra fra bande.

Il film è girato con grande perizia narrativa, anche grazie all’abilità dello sceneggiatore Ben Hecht, nonostante i paletti imposti dalla censura. Le prime e le ultime scene sono più distese. Le scene centrali, invece, seguono un montaggio serrato e pongono sempre fuori campo la violenza e i suoi effetti. È famosa, per esempio, quella che secondo il regista François Truffaut, è la più bella inquadratura della storia del cinema. Un gangster nemico di Camonte, interpretato da Boris Karloff, sta giocando a bowling. Per lanciare una boccia fa un piegamento delle gambe, ma non si raddrizza più perché una raffica di mitra pone fine al suo movimento: la cinepresa riprende la sfera che rovescia tutti i birilli meno uno, che gira a lungo su sé stesso prima di cadere. Specifica Truffaut: Non di letteratura si tratta; forse è danza, forse poesia, sicuramente cinema.
1468679918-006-scarface-theredlistIl ritmo delle scene centrali rispecchia in qualche modo l’arma che domina molte sequenze: la voce lacerante del mitra – per gli spettatori del 1932, ancora in parte abituati al cinema muto – era uno strappo sonoro che scuoteva la narrazione. Hawks racconta essenzialmente con le immagini, esprimendo il carattere dei personaggi con i loro gesti prima che con i dialoghi. C’è poi il segno della X che appare, sotto forma di cicatrice, nel volto del protagonista. Un’ombra, un’insegna stradale, un’inferriata, una croce tracciata con la penna, una travatura, un fascio di luce: la X torna di continuo nel film, come emblema del mistero e come suggello del destino di Tony Camonte.
 Seduto sul divano, guardo questo vecchio film in bianco e nero e rifletto sul bene, sul male, su quanto basti poco perché un uomo si perda. Sbagliavano, i censori che volevano obbligare Hawks a inserire contenuti moraleggianti: la forza del film sta nella sobrietà e nell’efficacia con cui mette in scena un individuo che lotta disperatamente per non essere solo, finendo per esserlo sempre di più. Tony Camonte diventa più ricco, più statunitense, perde l’accento da immigrato, ma brucia nella sua brama di possesso ogni rapporto umano.
Naturalmente, la mia solitudine è differente. Sono consapevole di essere inserito in una serie di relazioni famigliari, di amicizia e di lavoro. Ma secondo me nessuno è mai al sicuro dall’isolamento, e nessuno può sperare di ripararsi in eterno nel rifugio di un legame, di qualunque tipo esso sia; o almeno, per me è così. Casomai, i legami vanno fatti crescere, vanno difesi da tutto ciò che, nella vita, ci allontana dagli altri e ci isola nel deserto.

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PS: Ben Hecht scrisse la sceneggiatura di Scarface in soli dodici giorni, ispirandosi in parte a casi di cronaca: per esempio, l’uccisione di Big Louis Costillo ricorda quella di Big Jim Colosimo, avvenuta nel 1920 per mano di Al Capone proprio in una cabina telefonica. Lo stesso Al Capone, sebbene nel 1931 avesse definito i “gangster movies” come terrible kid stuff (schifezze per ragazzini) mandò alcuni uomini sul set di Scarface, con l’incarico di riferirgli sui contenuti delle riprese.

PPS: Ecco i titoli degli altri “gangster movies” che ho visto in queste ultime settimane: Little Caesar (Mervyn LeRoy, 1931) The public enemy (William Wellman, 1931), Angels with dirty faces (Michael Curtiz, 1938). Le parole di Leonardo Gandini provengono da Howard Hawks. Scarface (Lindau 1988; riedito nel 2007). La citazione di Truffaut, ripresa anche da Gandini, si trova nel libro Les films de ma vie (Flammarion 1975); in italiano I film della mia vita (Marsilio 2003).

PPPS: Alcune parti di questo articolo provengono da un pezzo che ho scritto per la rivista Cinemany, dove sviluppo l’analisi del film in maniera più ampia.

PPPPS: Domenica 5 febbraio al cineforum “Ippopotami in vacanza”, in via Lucino 79 a Breganzona (vicino a Lugano), verrà proiettato il film Il padrino (The Godfather, Francis Ford Coppola, 1972), che si può considerare una sorta di “erede” dei  “gangster movies”. L’ingresso è libero e gratuito.

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