Festa danzante

Una notizia di cronaca spicciola: è tornato in libreria il romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016), stampato dall’editore TEA in formato tascabile. Un’altra notizia, ancora più spicciola: oggi compio quarant’anni. Non so perché, le due novità s’incrociano nella mia mente. Ma è una sovrapposizione pericolosa.
L’arte del quarantesimo.
Fallire un compleanno.
Quarant’anni di fallimenti.
I titoli ronzano come zanzare. Per distrarmi, sfoglio il romanzo. Rivedo con piacere quel piccolo refuso che ha resistito per tutte le fasi della revisione, superando indenne le varie bozze e ristampe e, a quanto pare, anche l’edizione tascabile. In fondo è giusto così: L’arte del fallimento non sarebbe la stessa senza errori di stampa. Ma non voglio rivelare niente: i refusi vanno scovati in solitudine.
Gli occhi mi cadono su un paragrafo in cui, alle prese con i suoi fantasmi, Elia Contini se ne va a camminare nei boschi. Non è un esercizio fisico, quanto un modo per accedere alla parte misteriosa dell’esistenza. Le volpi di Corvesco sono un segnale che viene dal profondo, dall’invisibile. Non c’è bisogno d’incontrarle. Basta cercarne le tracce, avvertirne l’indecifrabile prossimità.

C’era un sentimento che lo teneva legato. Poteva riconoscerlo in un lungo silenzio, o nei fari di un’auto che saliva dal fondovalle. Il bosco pareva soffocante, perfino minaccioso. L’unica salvezza era prendere la macchina fotografica e camminare. Lungo le piste appena distinguibili, a pochi passi da un ruscello o da un dirupo, non c’erano più pensieri, soltanto azioni, e c’erano volpi nell’oscurità, presenze ignote ma vicine.

La figura del camminatore solitario mi fa pensare a una poesia che lessi per la prima volta a diciassette o diciotto anni. È di Mario Luzi e risale al 1954. S’intitola: Nell’imminenza dei quarant’anni. Ricordo il senso d’immedesimazione suscitato dai primi versi: Il pensiero m’insegue in questo borgo / cupo ove corre un vento d’altipiano / e il tuffo del rondone taglia il filo / sottile in lontananza dei monti. Un uomo che cammina nel paesaggio deserto. Un individuo che, a me, pareva già quasi anziano: Si sollevano gli anni alle mie spalle / a sciami. Immaginavo quei quarant’anni d’ansia, / d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide / com’è rapida a marzo la ventata / che sparge luce e pioggia. Leggevo: L’albero di dolore scuote i rami… Pensavo: chissà che cosa vuol dire trovarsi a quello snodo, scorgere l’ombra del proprio passato.
Be’, adesso ci sono.
Nulla m’impedisce di rifare lo stesso gioco. Prendo l’ultimo libro pubblicato in vita da Luzi, a novant’anni. S’intitola: Dottrina dell’estremo principiante (Garzanti 2004). Leggo: Bellezza, lo sentiamo / che sei al mondo. / Qualche transitiva forma / ci illudiamo ti sorprenda. / Da qualche raro volto / ci fulmini e ci incanti. Penso: chissà che cosa vuol dire trovarsi a quel punto estremo, guardare indietro e poi ancora intorno a sé, cercando sempre la bellezza.
A proposito di novantenni. Ieri sera, tornando a casa in macchina sotto la pioggia, stavo ascoltando l’ultimo disco del pianista francese Martial Solal. S’intitola My one and only love (Intuition 2018). È  un concerto per piano solo, registrato live il 17 novembre 2017. Solal aveva compiuto novant’anni qualche mese prima. Secondo il critico Franck Bergerot si tratta di uno dei migliori dischi della carriera di Solal, «un musicista che non ha mai cessato di progredire verso l’essenziale». Un esempio è Sir Jack, sviluppato a partire dal brano tradizionale Brother John (in italiano Fra Martino). Mi ha colpito la leggerezza del tocco, la fantasia, la sapienza del grande improvvisatore che non ha perso la capacità di giocare e meravigliarsi.

Ero già arrivato a casa. Mi sono fermato nel parcheggio e ho aspettato che finisse il brano, con l’accompagnamento della pioggia che batteva sui vetri.

PS: Per l’occasione, voglio invitare le lettrici e i lettori di questo blog a una festa danzante nel villaggio di Saint-Rigomer-des-Bois.

Festa danzante

È un piccolo momento fuori dal tempo, un breve racconto inedito senza volpi, ma con un bar dov’è piacevole bere un boccale di birra.

PPS: La lirica Nell’imminenza dei quarant’anni è tratta da Onore del vero (Neri Pozza 1956), confluita poi nel volume L’opera poetica (Mondadori 1998). Ecco il testo completo delle due poesie: Nell’imminenza dei quarant’anni e Bellezza, lo sentiamo.

PPPS: La citazione di Bergerot proviene dal numero 704 di Jazz magazine (aprile 2018). L’audio con la musica di Solal non è limpido, ma restituisce l’esperienza sonora. Automobile, pioggia, pianoforte. Ascoltare un pianista novantenne che improvvisa su Fra Martino: ci sono modi peggiori per festeggiare un compleanno.

PPPPS: L’altopiano nella foto sopra non è quello di Viterbo, dove camminava Mario Luzi nel ’54, ma quello della Greina, nella parte alta del Canton Ticino. Anche lassù il tuffo del Gypaetus barbatus, in mancanza di rondoni, taglia il filo / sottile in lontananza dei monti.

PPPPPS: Non so se qualcuno sia arrivato fino al quinto post scriptum. Ma se vi restasse ancora tempo, e se ancora non l’aveste guardato, vi ripropongo il video sul romanzo L’arte del fallimento, realizzato da Alessandro Tomarchio con il sax di Alan Rusconi. Qui non si vede nessun tipo di altopiano, ma semplicemente il piano di Magadino, come una pianura padana in formato tascabile fra le montagne.

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Notizie da Elia Contini

Con l’arrivo dell’estate mi ha scritto qualche lettore per chiedermi notizie di Elia Contini, l’individuo un po’ squinternato protagonista di alcuni miei romanzi. Contini è un uomo sulla quarantina, che prova a sbarcare il lunario facendo l’investigatore nella Svizzera italiana. Abita a Corvesco, un piccolo comune del Sopraceneri, e ha un ufficio a Paradiso, vicino a Lugano. Sebbene non lo voglia ammettere, in fondo Contini trova un non so che di romantico nell’idea di fare il detective. In realtà si occupa perlopiù di furtarelli, animali smarriti e litigi tra vicini di casa. Inoltre, quando decide di sparire, è molto bravo nel far perdere le sue tracce: se ne va a camminare in montagna o a fotografare le volpi che abitano nei boschi intorno a casa sua, oppure beve un bicchiere di rosso in compagnia di un vecchio ancora più pazzo di lui, che si è ritirato a vivere in una stamberga a duemila metri di quota.
Perciò, che volete che vi dica? Ogni tanto provo a inviargli una lettera o a telefonargli, ma Contini non sempre mi risponde. Quando ho bisogno di scrivere su di lui, in genere prima o poi si fa trovare. In questo periodo tuttavia sto lavorando ad altri progetti. Non voglio comunque perdere di vista Contini, quindi ho cercato di fare qualche indagine (vi farò sapere). Intanto, nell’attesa, ho scovato un raccontino ancora inedito che mi pare adatto alla stagione.

Mojito

Di recente, mi hanno dato una mano a stanare Contini due brave maestre di scuola elementare. Qualche mese fa Valeria Menghini e Tania Beretta, insieme ai loro allievi di quinta, mi invitarono a raccontare la mia esperienza di lettore e di scrittore. Per i bambini si trattava di una tappa all’interno di un percorso didattico molto affascinante e ben strutturato. Nei mesi successivi, in collaborazione con Barbara Bottazzi (la direttrice didattica della Scuola Yanez), gli alunni si sono impegnati a scrivere una serie di racconti, mettendo a frutto gli insegnamenti delle maestre e le scoperte fatte come lettori.
Nel mezzo dell’avventura i bambini si sono cimentati anche con la figura di Elia Contini. Ognuno di loro ha provato a immaginarlo, seguendo la propria fantasia. E io, che da parecchio non avevo sue notizie, ho ricevuto un bellissimo regalo (da me subito inviato a Corvesco): una serie di ritratti dell’investigatore, tutti diversi ma tutti a modo loro precisi nel delineare la sua personalità enigmatica.
Alla fine dell’anno le due maestre hanno fatto stampare un piccolo libro con le storie dei bambini, come ricordo di un’esperienza creativa non soltanto letteraria e linguistica. Mi ha colpito, oltre alla spontaneità e alla fantasia, l’attenzione nel miscelare la propria quotidianità con i fatti sorprendenti necessari all’intrigo poliziesco. Dietro, s’intuisce un lavoro sulla precisione e sulla cura per i dettagli. Tania e Valeria lo hanno detto bene nell’offrire il libro ai loro allievi: Non avete solo imparato a scrivere, ma anche a pensare e questo è l’apprendimento più prezioso, perché vi consentirà di conoscere meglio voi stessi e il mondo che vi circonda.

PS: Mi è capitato spesso d’incontrare bambini o ragazzi nelle scuole, nella Svizzera italiana, in Italia, nella Svizzera francese o tedesca e anche in paesi più lontani (la Germania, la Russia, la Cina, la Tunisia, la Turchia…). La curiosità e l’entusiasmo degli studenti (e degli insegnanti) sono sempre un’occasione preziosa per riflettere sul mio lavoro. Insieme ai ragazzi di Breganzona e alle loro maestre (compresa Cristiana Spinedi, i cui allievi erano presenti all’incontro), ringrazio i docenti e gli allievi di tutte le scuole (elementari, medie, liceo, università) che negli anni mi hanno invitato e accolto.

PPS: Questa settimana, nella Svizzera italiana, è finito l’anno scolastico: a tutti, un augurio di buone vacanze!  L’anno scorso, avevo ricordato qui i miei esami di maturità. In settembre, invece, avevo scritto qui una divagazione sul primo giorno di scuola. Presto o tardi dovrei decidermi a parlare anche delle vacanze…

PPPS: Sul sito andreafazioli.ch trovate informazioni a proposito dei sei romanzi con Elia Contini e delle loro traduzioni. L’opera più recente, pubblicata dall’editore Guanda nel 2016, s’intitola L’arte del fallimento (qui sotto potete vedere il “booktrailer”). Sempre del 2016 è il racconto breve Lezioni private, offerto da Guanda gratuitamente in formato digitale (lo trovate qui). Qualche settimana fa, Guanda ha ristampato L’uomo senza casa, edito per la prima volta nel 2008.

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Di palombari e montagne

Era un giorno d’estate quando Tommi, svegliandosi la mattina, decise di ammazzare qualcuno. La sera non aveva chiuso le gelosie, così prima che suonasse la sveglia un raggio di sole l’aveva già strappato dal sonno. In realtà non fu una vera e propria decisione, ma una vaga idea che si diffuse tra i residui di sogno e il primo pensiero cosciente.
Comincia così il mio romanzo L’uomo senza casapubblicato nel 2008 da Guanda e ristampato poche settimane fa in edizione tascabile (da tempo era esaurito). In questi giorni sono tornato a sfogliare questo libro, per preparare una conferenza che terrò venerdì 2 giugno alle 18 a Malvaglia, nell’Atelier Titta Ratti (proprio a Malvaglia è in parte ambientata la vicenda).
L’uomo senza casa racconta di un paese di montagna sommerso dall’acqua per la costruzione di una diga. In quel villaggio è cresciuto Elia Contini, che tanti anni dopo tenta di sbarcare il lunario inventandosi il mestiere d’investigatore privato nella Svizzera italiana. E nello stesso villaggio è nato anche Tommaso Porta. Tommi è un coetaneo di Contini, un uomo fragile, squilibrato, che negli anni ha covato sempre di più un sentimento di odio e rancore. Piano piano, intorno a quel lago di montagna e a quelle case sommerse, cresce la tensione, la rabbia, la violenza fisica e quella burocratica, altrettanto temibile.
Per l’idea del lago artificiale e delle case sotto l’acqua mi sono ispirato a un ricordo d’infanzia. Quando avevo circa dodici anni, mi capitò di salire con i miei famigliari in valle Malvaglia, dove nacque la mia bisnonna Maria Abate (poi Maria Maggini). La sua famiglia viveva la transumanza stagionale, facendo la spola fra il villaggio principale e i vari maggenghi e alpeggi o “monti”. Il più alto è in una valle laterale, la val Combra, e si chiama Pulgabi.
Salimmo dunque fin lassù e passammo lungo la diga, dove sulla destra c’è la galleria dentro la roccia che sbuca sul sentiero per la val Combra. Mio padre mi spiegò che sotto quella massa di acqua immobile erano seppellite cascine, stalle, campi, muretti e sentieri. E anche un oratorio con porticato. Davanti a quell’oratorio sostavano le donne che salivano ai vari “monti” con la gerla sulle spalle. Camminavano insieme da Malvaglia; all’oratorio, dopo una preghiera, le donne che proseguivano per la valle Malvaglia si separavano da quelle che salivano verso la val Combra. Anche la mia bisnonna ragazzina e con lei sua madre si saranno fermate decine di volte sotto quel porticato. Mio padre mi raccontava che l’oratorio è ancora in piedi, giù in fondo al lago, come un resto spettrale, acquatico, quasi il fantasma di una vita perduta.
Anni dopo, scrivendo L’uomo senza casa, modificai molte cose, cambiai la cronologia degli eventi e immaginai che sotto il lago ci fosse un intero villaggio, con la casa di famiglia di Tommi Porta e anche quella di Elia Contini. Seguendo il filo della storia, mi accorsi che quelle casupole di sasso, sepolte al buio e al freddo della dimenticanza, avevano ancora una storia da raccontare. C’erano vecchi delitti, segreti da non rivelare, nodi da sciogliere. E allora ecco che Contini diventa palombaro, per un tuffo nell’acqua azzurra e soprattutto per un tuffo dentro il tempo, anch’esso azzurro e misterioso, come le montagne che appaiono in lontananza.
La vicenda poliziesca si sviluppa fra omicidi e imbrogli legati alla speculazione edilizia. Sullo sfondo, c’è anche il riciclaggio di denaro di un giro di società off shore. La mia intenzione narrativa era quella d’intrecciare l’aspetto più spettacolare e poliziesco con la risonanza più intima e sommessa della diga, della casa in fondo al lago, del viaggio che ognuno di noi prima o poi deve intraprendere alla ricerca di un luogo da chiamare “casa”.
Elia Contini, il protagonista, è cresciuto in un paese di montagna. Dopo tanti anni torna alla diga di Malvaglia e si ferma a guardare la superficie dell’acqua, pensando a suo padre, alla sua infanzia, al passato che ancora lo avvolge e gli impedisce di andare avanti. Più in là, nel corso del romanzo, Contini e gli altri personaggi verranno sorpresi da una grande nevicata. Le vie di comunicazione sono bloccate. È la nevicata del decennio, che trasforma completamente il paesaggio. E Contini si trova in montagna, nel cuore del bosco, lontano dal sentiero.

Si spazzolò la neve dal corpo, battendo le mani per scaldarsi. Nel mezzo di una notte d’inverno, quando fa davvero buio, il bosco parla a chi lo sta a sentire. Ogni fruscio, ogni scricchiolio di corteccia e ogni tonfo sulla neve raccontano una storia. Prima di rimettersi in viaggio, Contini rimase in ascolto per qualche secondo. Da qualche parte, quella notte, le volpi andavano silenziose in cerca di cibo. I vecchi alberi gemevano sotto il peso della neve e il ghiaccio stringeva l’acqua dei ruscelli. Contini riprese a camminare. Quello era il suo territorio, era il suo bosco. E lui quella notte avrebbe chiuso i conti con il passato.

Ancora oggi, quando cammino in montagna, mi capita di sentirmi preso nella stessa morsa. Non sono coinvolto in vicende di delitti o riciclaggio di denaro, naturalmente, ma sento il medesimo strazio che invade l’animo di Contini. In qualche modo le montagne sono memoria del mio passato, delle cose scomparse. Nel gesto del camminare, nella libertà dei pensieri e nel mutare repentino delle stagioni cerco di trovare la forza per andare avanti, per vedere, per sentire, per vivere le cose vecchie come fossero nuove. Non è forse così? Se uno guarda con attenzione, le cose non sono sempre nuove?
Venerdì prossimo, all’Atelier Titta Ratti, tornerò per una volta a presentare L’uomo senza casa, anni dopo la prima uscita. Sarà come viaggiare nel passato; tuttavia cercherò di non restare ingabbiato, ma di interrogarmi sull’evoluzione della mia scrittura. Intorno saranno esposte le immagini legate al libro d’artista Commistioni, segni e voci in un territorio di Carla Ferriroli. Nel volume sono presenti le incisioni dell’artista insieme ai testi degli scrittori Remo e Sandro Beretta. Carla Ferriroli ha voluto compiere una ricognizione nel territorio d’origine, provando a esaminarlo con uno sguardo differente, tornando in quei luoghi e in quei paesaggi che quando ci si stava dentro apparivano scontati ma che nella lontananza diventano un frammento importante di memoria. È un percorso innovativo ma nello stesso tempo innestato su una consuetudine. Ciò che io potevo fare, partendo dalla mia attività artistica, era di prendere il mio taccuino e guardare e disegnare, muovendo lo sguardo, fattosi più attento, tra montagne e prati e case, nella quiete di giorni silenziosi: una curiosità girovaga, con la matita, la penna o i pastelli in mano.
Spesso, nelle opere che parlano di montagna, è centrale il tema dell’abitare: il desiderio di tornare a casa, oppure quello di riuscire a comprendere le poprie origini. Ho trovato questa domanda anche nel bel romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne (Einaudi 2016). Il protagonista sale su una vetta e, nel quaderno con le firme degli alpinisti, scopre due righe scritte da suo padre l’anno precedente, poco prima di morire: Tornato quassù dopo tanto tempo. Sarebbe bello restarci tutti insieme, senza vedere più nessuno, senza dover scendere a valle. Un messaggio del genere non può che suscitare domande. Tutti chi?, mi chiesi. E io dov’ero quel giorno? Chissà se aveva già cominciato a sentirsi il cuore debole, o che cos’altro gli era successo per scrivere quelle parole. Senza dover più scendere a valle. Era lo stesso sentimento che gli aveva fatto sognare una casa nel posto più alto, impervio e isolato, dove vivere lontano dal mondo.
Venerdì sera, a Malvaglia, cercherò di capire che cosa significhi sognare una casa nella mia scrittura. Insieme alle opere di Carla Ferriroli ci sarà la musica di Stefano Moccetti. A un certo punto, come succede sempre, le parole non basteranno più, e allora per dare un’occhiata a ciò che si nasconde sotto il lago, non resterà che affidarsi alle note della chitarra…

PS: Il video qui sopra è stato registrato al festival di Montreux il 14 luglio 1986. Al concerto parteciparono Michel Petrucciani (piano), Wayne Shorter (sax tenore) e Jim Hall (chitarra). Beautiful love è un duetto fra Petrucciani e Hall, durante il quale due artisti di generazione e di esperienze diverse si trovano mirabilmente e riescono a costruire, nell’immediatezza di un dialogo, qualcosa di nuovo.

PPS: Le parole di Carla Ferriroli, così come l’incisione riprodotta sopra, sono tratte dal libro d’arte Commistioni, al centro di un’esposizione all’Atélier Titta Ratti di Malvaglia fino al 5 giugno 2017. L’immagine della volpe è una cartolina che mi hanno inviato; non so chi sia l’autore.

PPPS: Del romanzo L’uomo senza casa avevo già parlato qui.

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L’uomo senza casa

IMG_9877Ho sempre cercato una casa. Già quando ero bambino, ricordo, mi capitava di sognare una dimora misteriosa, che conteneva file e file di letti, uno per ogni persona che conoscevo. Era uno strano edificio in mezzo ai campi, di colore bianco, anche se in certi sogni diventava una sorta di enorme astronave circolare, che avanzava nello spazio buio e sconosciuto, privo di stelle. L’astronave era luce, presenza di amici, certezza che il tempo non sarebbe finito mai. Quella era la casa.
IMG_9887Nella mia vita ho vissuto in diverse abitazioni, ma mi sono presto reso conto che nessuna di esse bastava a racchiudere ciò che per mancanza di parole più precise continuo a chiamare “casa”. Non desidero diventare proprietario di un edificio, e in ogni caso non sarei tanto ingenuo da pensare che un atto di proprietà possa davvero darmi una casa. Non si tratta di muri e di mobili, né di un giardino con un grill o di un locale hobby nello scantinato. Casa non è famiglia, non basta la famiglia, casa non è tanto meno patria, e neppure sicurezza o lavoro o connessione wi-fi o figli da crescere. È qualcosa che potrei descrivere come un luogo ideale a cui appartenere; un territorio vasto, dove ci si può perdere, ma nel quale riconoscere i punti di riferimento dell’amicizia, della condivisione, della tenerezza.
IMG_9891Nel 2007, scrivendo il romanzo L’uomo senza casa (Guanda 2008), riflettevo proprio su questi argomenti, e tentavo di catturare una definizione che continua a sfuggirmi. Che cos’è che è? La scrittrice Clarice Lispector si pone proprio questa domanda. Se ricevo un regalo dato con affetto da una persona che non mi piace, come si chiama quello che provo? Una persona che non ci piace più, e a cui non piacciamo più, come si chiama questo dispiacere e questo rancore? Essere indaffarati, e improvvisamente fermarsi perché colti da un ozio beato, miracoloso, sorridente e idiota, come si chiama ciò che si è sentito? L’unico modo per chiamare una cosa è chiedere: come si chiama? Finora sono riuscita solo a dare un nome tramite la stessa domanda. Qual è il nome? ed è questo il nome. Anche nel mio caso, dietro la vicenda romanzesca, c’era una domanda – che cosa significa “casa”? – che riuscivo a esprimere unicamente sotto forma di domanda.
FazioliCASA-03.inddL’uomo senza casa racconta di un villaggio di montagna sommerso dall’acqua per la costruzione di una diga. Proprio in quel villaggio è cresciuto Elia Contini, che ora tenta di sbarcare il lunario come investigatore privato nel micro territorio della Svizzera italiana. Ormai non pensa più alla casa della sua infanzia, sepolta sotto litri e litri di acqua, finché un omicidio turba la vita più o meno tranquilla del paese di Malvaglia; e in qualche modo questo delitto è legato alla grande diga, al lago artificiale che dorme pacifico in mezzo ai boschi.

1La diga era sempre lì, sempre uguale. Una lastra grigia che chiudeva il cielo e che pareva la prua di una gigantesca nave incastrata fra le montagne. A vederla da sotto faceva quasi paura. Contini lasciò la macchina in basso e salì a piedi. Dopo un po’ si tolse il cappotto e lo piegò sul braccio: era una bella salita.
Il cielo era limpido. Non si udiva nessun rumore. Ogni tanto si alzava un soffio di vento e la macchia rossa di una bandiera svizzera, accanto a una delle case sotto la diga, segnava la presenza dell’uomo. A un certo punto, passando di fianco alla parete di cemento grigio, Contini udì un ronzio fievole, come il respiro di una bestia dormiente. La diga avrebbe potuto essere un grosso animale, una balena addormentata nel solco della valle.
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Ma è soltanto una diga, pensò Contini. Si fermò. Dalla strada in basso giunsero le note del clacson di un autopostale. Do diesis, mi, la: il richiamo inconfondibile della Posta svizzera. Contini sbuffò e riprese a salire.

L’uomo senza casa era da qualche tempo esaurito, disponibile soltanto in versione digitale. Ora Guanda lo ha appena ripubblicato in edizione tascabile, con una nuova copertina. L’originale presentava un bellissimo disegno dell’artista Guido Scarabottolo; in questo nuovo formato c’è un’illustrazione, altrettanto evocativa, ideata da Mariagloria Posani.
IMG_9883Ho ricevuto ieri qualche copia del romanzo e mi sono divertito a sfogliarlo: tanti anni dopo, mi sembrano le parole di un altro. Qua e là, tuttavia, riconosco l’urgenza della mia domanda. Dietro la suspense e i colpi di scena, dietro gli omicidi e i lunghi inseguimenti sotto la neve, tutti i personaggi stanno cercando – ognuno a modo suo – un luogo da poter chiamare “casa”. Ho riscoperto qualcosa di me stesso anche nella figura dell’assassino, con la sua inquieta solitudine che talvolta sembra irreparabile, e forse pure nel giovane avvocato Chico Malfanti, inesperto del mondo ma desideroso di conoscere, di avvicinarsi al segreto della quotidianità. La vicenda porta i protagonisti su e giù per il Canton Ticino, con una deviazione alle Isole Vergini Britanniche (c’è di mezzo un imbroglio legato alla speculazione edilizia, al riciclaggio di denaro e alle società off shore). Ho riletto la sequenza ambientata a Bellinzona, durante il carnevale Rabadan, e mi sono divertito a seguire il giovane avvocato e lo scorbutico investigatore nelle scintillanti notti luganesi.

69055615@1200*1200-mEra una serata qualunque dell’inverno luganese, con dj Kevin che tuona sopra il parterre del Casanova, promettendo «il sound più assolutamente fuori di tutta Lugano city», mentre giovani lupacchiotti figli di avvocati o banchieri prenotano i tavoli ed escogitano qualcosa per far ridere le ragazze. Fiumi di martini e tequila inondano il locale, la conversazione lotta contro i decibel, finché perfino qualche ragionevole figlio d’impiegato o nipote di pediatra si lascia andare e s’informa: «Ma quanto costa una bottiglia di spumante?»

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Forse, mi viene in mente ora, forse una casa ce l’ho. Non sempre sono pronto a riconoscerla, a volte la perdo o la rifiuto, a volte mi aggiro nelle strade buie dei miei pensieri e mi pare di essere strappato via dal mondo, dalla sua normalità. Se anni fa scrissi questo romanzo, se oggi continuo a scrivere, è soprattutto per portare avanti la mia ricerca, per precisare il mio cammino. A volte ho l’impressione di scrivere semplicemente per intensa curiosità. Il fatto è che, scrivendo, mi abbandono alle più insperate sorprese. È mentre scrivo che spesso prendo coscienza di cose che, essendone prima incosciente, non sapevo di sapere.

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PS: Quest’ultima citazione, così come quella sulla domanda Che cos’è che è?, proviene da La scoperta del mondo (1967-1973), una raccolta di articoli dell’autrice brasiliana Clarice Lispector, pubblicata in italiano da La Tartaruga nel 2001. Le altre citazioni sono tratte da L’uomo senza casa. Trovate qui la scheda del romanzo (oppure sul sito della casa editrice o sul sito Il Libraio).

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Le vacanze dei morti

Intorno al primo novembre nella Svizzera italiana le scuole chiudono per una settimana: da sempre, famigliarmente, si chiamano “le vacanze dei morti”. Penso che la denominazione ufficiale sia “vacanze autunnali”, ma non mi dispiace pensare che anche i morti, nel loro vasto periplo lungo l’eternità, si possano concedere una pausa. In questi giorni tutto, in maniera sommessa, è un richiamo alla loro assenza-presenza: l’accorciarsi dei pomeriggi, lo splendore del paesaggio, il blu compatto e indecifrabile del cielo.
img_7565Ci pensavo l’altro ieri, camminando in un sentiero di montagna con alcuni amici. Dalla cima del Camoghè (2228 mslm), l’occhio scorgeva i luoghi consueti: Bellinzona, il lago Maggiore, il lago Ceresio, il lago di Como, la Mesolcina, il piano di Magadino… più distanti, le cime innevate del Cervino e dei picchi vallesani. Ma in generale, quella fuga di montagne azzurre verso l’orizzonte era emblema di una lontananza difficile da definire, perché posta in una dimensione che non apparteneva più allo spazio, almeno nel mio pensiero. Il sole si posava radente sulle radure, trasfigurando i colori, facendoli apparire nello stesso tempo più vividi e più irraggiungibili. Non erano luoghi dove potersi fermare, quei declivi erbosi, sfiorati da una luce troppo dolce, troppo incantevole per durare nel tempo.
img_7573Lungo la discesa, chiacchierando, un’amica ha evocato brevemente il mito di Orfeo ed Euridice: il poeta scende negli Inferi per ritrovare la moglie defunta; ma poi, quando sta per uscire con lei, si volta indietro e la condanna a restare laggiù, nel regno dei morti. Perché si volta indietro? Davvero c’è una distanza incolmabile fra noi e ciò che siamo stati, fra il nostro qui-e-ora e ogni possibile aldilà?
Anche Elia Contini, nel romanzo L’arte del fallimento (Guanda) si trova a riflettere su queste domande.

I defunti si affacciavano all’improvviso, per strada o dopo una siesta pomeridiana, e qualche volta le ferite tornavano a sanguinare. Tanti anni dopo, però, Contini si era convinto che quella persistenza non fosse senza significato. Erano le vacanze dei morti: un’intersezione fra il tempo e ciò che stava fuori dal tempo. Purché non durasse troppo a lungo, e purché non ci si dimenticasse di essere ancora vivi, dopotutto.

A un certo punto Contini deve fare i conti con la violenza, con l’assurdità della morte che irrompe nella quotidianità. Eccolo al cimitero, il 2 novembre, insieme a un uomo che ha perso la moglie in un omicidio apparentemente privo di senso.

La vita degli altri, pensò guardandosi intorno, la vita di chi porta fiori ai propri cari nel giorno dei morti, e nessuno di loro è stato ucciso brutalmente da un assassino. Ma esiste davvero una vita senza patemi, senza ingiustizie? Contini ne dubitava. In fondo la morte, comunque arrivi, è sempre un’ingiustizia.

Quando ha un momento d’incertezza, Contini esce di casa, va a camminare. La vicinanza con le volpi, che vivono nei boschi intorno a Corvesco, ha un misterioso effetto calmante su di lui.

C’era un sentimento che lo teneva legato. Poteva riconoscerlo in un lungo silenzio, o nei fari di un’auto che saliva dal fondovalle. Il bosco pareva soffocante, perfino minaccioso. L’unica salvezza era prendere la macchina fotografica e camminare: lungo le piste appena distinguibili, a pochi passi da un ruscello o da un dirupo, non c’erano più pensieri, soltanto azioni, e c’erano volpi nell’oscurità, presenze ignote ma vicine.

img_7572Come accettare che lo splendore dell’autunno sia una prima avvisaglia della morte? Come vivere con questo addensarsi progressivo dell’oscurità? Ognuno di noi, inevitabilmente, prova a rispondere a queste domande. Purché non ci si perda troppo a lungo nella riflessione (per riprendere le parole di Contini) e non ci si dimentichi di essere ancora vivi, dopotutto… L’assenza-presenza dei morti può essere un movimento segreto nella vita di tutti i giorni, senza che divenga per forza un pensiero esplicito. Mi pare d’intravedere qualcosa del genere in questa poesia di Billy Collins (qui in versione pdf; qui l’originale).

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Infine, vorrei suggerirvi di ascoltare un brano di Bill Evans (1929-80). È tratto dall’album You must believe in spring, inciso nel 1977 da Evans (piano) insieme a Eddie Gomez (basso) e a Elliott Zigmund (batteria). L’album fu pubblicato dalla Warner solo nel 1981, un anno dopo la morte del pianista. Nei vari brani s’intuisce il tema della morte.
img_7575Anni prima, Evans aveva perso il suo bassista e amico fraterno Scott La Faro, morto in un incidente a 25 anni; da allora, era scivolato sempre più nella dipendenza dagli stupefacenti. Nell’album dedica il brano B Minor Waltz alla prima moglie Ellaine, che era morta suicida. We will meet again invece è dedicato al fratello Harry: sembra quasi una premonizione, visto che Harry (il quale soffriva di malattie psichiche) si toglierà la vita due anni dopo. Nel disco c’è anche la ripresa del tema della serie televisiva M.A.S.H (Suicide is painless, “Il suicidio è indolore”). Vi propongo qui proprio il brano che dà il nome all’album. You must believe in spring è uno standard, composto originalmente da Michel Legrand con parole di Jacques Demy, per il musical Les demoiselles de Rochefort (1967). La versione di Bill Evans è sospesa fra la malinconia e la speranza, fra la cupezza di certi passaggi e la fantasia inventiva dell’assolo di piano (da 2.57, in crescendo) che davvero sembra volerci guidare verso la primavera.

PS: La lirica The Dead (“I morti”) di Billy Collins è tratta dalla raccolta Questions About Angels (1991), poi confluita in Sailing Alone Around the Room e pubblicata in italiano da Fazi nel 2013 con il titolo A vela in solitaria intorno alla stanza. Per concludere, un ringraziamento ai miei compagni di viaggio; a Paolo, in particolare, per alcune delle fotografie che corredano questo articolo.

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