Buji

Un giorno di primavera del 1686, in Giappone, un certo Matsuo Munefusa (detto Bashô) passò accanto a uno stagno e vide una rana che si tuffava nell’acqua. Un evento abbastanza banale. Ma Bashô ne rimase in qualche modo colpito e decise di buttare giù due righe. Anzi, diciassette sillabe: furu ike ya / kawazu tobikomu / mizu no oto. Per chi non sa il giapponese: Vecchia palude – / Una rana si tuffa. / Rumore d’acqua. Pensate alla forza di questo piccolo haiku. Sono passati trecento anni… lo stagno si sarà prosciugato e dissolto, lo scheletro del poeta è ormai polvere (e anche quello della rana). Eppure ancora oggi noi, che non sappiamo niente del Giappone del XVII secolo, possiamo chiudere gli occhi e vediamo tutto precisamente: la rana, lo stagno, il balzo e – pluf! – l’immersione.
Copia di FullSizeRenderQuella che avete letto sopra è una mia traduzione, ma in italiano se ne contano parecchie decine. In inglese sono più di cento; e sui tre piccoli versi di questo haiku sono stati scritti interi volumi di saggistica. Sono così tante parole che uno potrebbe perdere di vista l’essenziale, cioè la rana. La letteratura è qualcosa di potente nella misura in cui sa essere concreta, lasciando che il poeta – con tutte le sue riflessioni e le sue visioni – si celi nel gesto di un piccolo anfibio: il suono, le onde nello stagno, una canna che oscilla per qualche secondo.
L’haiku di Bashô muove l’immaginazione proprio perché è semplice. L’abate Sengai (1750-1837) si divertì a ricamarci sopra possibili variazioni. Eccone tre: Stagno antico – / Bashô si tuffa, / rumore d’acqua; Stagno antico – / Splash! / Chi si è tuffato…; Se ci fosse uno stagno, / mi tufferei, / e Bashô ascolterebbe.
FullSizeRenderOgni tanto mi capita di lavorare sugli haiku. È un esercizio che propongo spesso nei laboratori di scrittura, dando regole precise all’interno delle quali muoversi (si sa che le regole stimolano lo slancio creativo). In particolare, insisto sulla precisione della trasposizione metrica dal giapponese all’italiano. L’haiku deve quindi essere composto da un quinario, un settenario e un quinario. Qualche esempio in ordine sparso: Bevo un caffè / con dentro un po’ di sole / e un cielo azzurro; Mentre sorrido / penso che non dovrei – / Cerco di smettere; Torno a Zurigo. / Sul fiume si addormentano / anatre nere; A volte guardo / le canne di bambù / e penso ad altro; La volpe va / nel folto dell’estate – / Ma chi la vede?.
Con poche sillabe volatili è possibile esprimere pozzi profondi di emozioni, paure, tensioni, desideri. Sempre restando ancorati alla concretezza. Pensate per esempio alla vita umana, alla sua fragilità. Quanti poeti hanno espresso questo sentimento, quanti come Leopardi hanno chiesto alla natura umana or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant’alto senti? In uno dei suoi scritti, anche Sengai riflette sull’argomento, con fulminea e amarognola ironia: Vivere o morire / (tutto dipende dal cucchiaio del dottore).
FullSizeRenderNel disegno, la curva perfezione del cucchiaio contrasta con l’improvvisa percezione di precarietà. Come dire: basta davvero poco per spegnere una vita, però guardate che belle sillabe, che cucchiaio elegante sappiamo disegnare, noi così piccoli, così fugaci.
In questi giorni sono preso da mille faccende: impegni legati al romanzo L’arte del fallimento, problemi di lavoro, malanni di stagione e altri piccoli guai, tutti quei piccoli guai che sono lo scheletro della nostra esistenza. Riflettere sugli haiku è un modo per creare pause: momenti in cui cerco di non fare niente, perché le idee possano correre come acqua fra i sassi.
FullSizeRenderSengai scrisse due ideogrammi al proposito. Si leggono buji in giapponese e wushi in cinese. Che cosa significano? Difficile dirlo con precisione: “non-attività”, “non lavoro”, “non-evento”, “tutto va bene” o, allargando il senso, “essere liberi da ansie e timori”. Gli esperti discutono sulla traduzione esatta. Per me si tratta di quel piccolo intervallo vuoto dal momento in cui la rana spicca il balzo al momento in cui s’immerge nello stagno. È uno spazio di attesa, di contemplazione, di apertura nei confronti del mondo. Può durare un secondo ma anche, con un po’ d’impegno, qualche minuto. O addirittura, a pensarci bene, trecento anni…

PS: Un’opera di riferimento in italiano sull’haiku di Bashô è La rana di Bashô, scritto da Paolo Pagli e pubblicato dalle edizioni ETS nel 2006. Vi si trovano numerose traduzioni in italiano, dalle più recenti fino a quella di Mario Chini del 1904: Campagne basse e nude, / una morta palude / il rumore dell’onda / che – plumf – s’apre, si chiude / a ogni rana che affonda. I disegni e i testi del maestro Sengai si trovano in Poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, scritto nel 1971 e pubblicato in italiano da Guanda nel 1988 e poi nel 2012. Per chi volesse cimentarsi nella scrittura di haiku, il testo fondamentale (purtroppo solo in francese) è il Petit manuel pour écrire des haïku, scritto da Philippe Costa e pubblicato nel 2000 dalle Editions Philippe Picquier.

PPS: Il ritratto della rana (preso dal libro di Pagli) è composto da Hoji e risale al 1814. Le altre immagini provengono tutte dal libro di Sengai: la prima rappresenta le tre variazioni su Bashô la seconda è il testo sul cucchiaio del dottore e la terza significa buji… qualunque cosa ciò voglia dire.

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