Oggetti smarriti

Il ragazzo con i capelli rossi e il viso cosparso di efelidi, seduto nell’atrio della Gare de Lyon, sta scrutando la confezione di un prodotto contro gli acari, la cui efficacia è garantita al cento per cento. Ha alzato gli occhiali sulla fronte e tende il viso aguzzo, strizza gli occhi miopi, corruga la fronte nello sforzo di studiare, di capire come quel portentoso unguento gli consentirà di sconfiggere i nemici che si celano nella polvere. Seduto di fronte a lui, pochi minuti prima di partire da Parigi, mi chiedo se anche i miei ricordi più volatili, quelli che tengo nel solaio dei pensieri, verranno sterminati dalla furia anti-acari del ragazzo lentigginoso. Lo vedo rileggere le istruzioni per l’uso e accennare un sorriso. Allora apro il taccuino e cerco di fissare questi giorni d’agosto.
Fra i molti modi in cui si può pensare a Parigi, mi piace immaginarla come un immenso Ufficio degli Oggetti Smarriti. Ogni volta che ci vado perdo qualcosa, impercettibilmente, in qualche strada mai vista prima, e ogni volta trovo qualcosa che non conoscevo, o che avevo dimenticato di conoscere. Nel maggio 2015, scendendo da Montmartre, vidi per caso una testa di clown dietro la vetrina di una galleria d’arte. Mi fermai, la fotografai in fretta con il telefono. Da allora quel clown, dipinto da Bernard Buffet nel 1955, è rimasto nella mia mente (e nel mio telefono). Mi sembra che dica qualcosa di me, e talvolta permette di verificare la mia esistenza in maniera più efficace che guardandomi allo specchio. Quest’anno ho cercato di nuovo la galleria, per rivedere il mio clown, ma senza successo: oggetto smarrito.
Nel suo libro Impératif catégorique (Seuil 2008), l’autore francese Jacques Roubaud racconta di quando abitava in rue Notre-Dame-de-Lorette e si sedeva spesso al café Joconde, in cui c’era una riproduzione della Gioconda dipinta da un certo Mérou. Ho scritto una poesia in onore della Gioconda di Mérou – racconta Roubaud – e nelle “letture pubbliche” raccomando sempre ai miei uditori di andarla a vedere. Spiego loro che andare a vedere al Louvre quella del suo “plagiario per anticipazione” è difficile, poiché ci sono almeno un milione settecentonovantacinquemilaseicentosei Giapponesi che premono davanti a lei; mentre là, all’angolo della rue de la Rochefoucauld e della rue Notre-Dame-de-Lorette, la folla è meno compatta e si può contemplare a piacere la Gioconda. Il volume di poesie dello stesso Roubaud intitolato La forme d’une ville change plus vite, hélas, que le coeur des humains (Gallimard 1999) può essere usato quasi come una guida di Parigi. C’è anche la lirica dedicata alla Gioconda, che comincia così: I veri intenditori / per veder la Gioconda / non vanno in capo al mondo / e nemmeno al Louvre // Vanno all’angolo della rue / de la Rochefoucauld e della rue / Notre-Dame- / de-Lorette / entrano nel caffè / lei è là // Il dipinto è sul muro / beige e crema / la cornice è beige e crema e un po’ arancione / la tela è firmata / di pugno dall’artista / E. / Mérou. / È la Gioconda / la Gioconda di Mérou. Ma le città cambiano e gli oggetti si perdono. Oggi il café Joconde è diventato il café Matisse. Era chiuso per ferie. Sbirciando dai vetri ho visto molte riproduzioni di Matisse e nessuna Gioconda. Di nuovo: oggetto smarrito. Per fortuna, resta almeno la Joconde di Barbara, che dura un minuto e mezzo e che si trova su internet.

Balzando da un poeta all’altro, si potrebbe dire con Jean Tardieu: J’ai beaucoup voyagé / et n’ai rien retenu / que des objets perdus (“Ho molto viaggiato / e niente trattenuto / se non oggetti perduti”). Ma forse proprio questi lampi di smarrimento, questi chiaroscuri della memoria sono ciò che segnano Parigi d’agosto. Lo stesso Tardieu, in epigrafe a Le fleuve caché (Gallimard 2013), scriveva: Tutta la mia vita è segnata dall’immagine di questi fiumi, nascosti o perduti ai piedi delle montagne. Come loro, l’aspetto delle cose s’immerge e si gioca fra la presenza e l’assenza. Tutto ciò che tocco è per metà di pietra e per metà di schiuma.
Il concetto di presenza/assenza riassume ciò che si prova camminando. La natura della città si mostra nella spaccatura fra l’interno e l’esterno, l’alto e il basso, l’intimo e l’enorme. Nelle profondità della metropolitana, un uomo viaggia accanto a un drone appena acquistato e ne accarezza la scatola, tutto contento; per un istante, la presenza di quel drone sembra sollevarci tutti e portarci fuori, all’aria aperta. Una macchina lunga e nera si ferma davanti a un edificio austero. Un passante chiede: Ma è una limousine o un carro funebre? E la ragazza di fianco a lui: Perché, c’è differenza? Il centro commerciale a Les Halles, all’ora di chiusura: serrande abbassate, griglie di metallo, vetrine oscurate, scale mobili che salgono e un moto di sorpresa nello scoprire che, fuori, c’è ancora la luce dorata sui monumenti. Anche i pazzi che gridano per strada riecheggiano una lacerazione: la donna che ogni sera si aggira per il Quartiere Latino, rimproverando il mondo ad alta voce, o il vecchio barbone americano che esprime i suoi interrogativi su this fucking Paris in pieno boulevard Saint-Michel.
Basta poco per scivolare dalla Parigi esterna e visibile a quella interna e velata. La vertigine multicolore della Sainte Chapelle, dove lo spettacolo delle vetrate si mescola a quello dei turisti con il naso all’insù. Il fervore silenzioso della Chapelle de la Médaille Miraculeuse, in rue du Bac, a pochi passi dalle vetrine sontuose del Bon Marché. La quieta freschezza di un tè alla menta al bar della Grande Moschea. Lo sguardo senza tempo dell’axolotl, al Jardin des Plantes, che ho ritrovato esattamente nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato due anni fa. Il retro del palcoscenico del cinema Le Grand Rex, dove si aggirano fantasmi in bianco e nero; l’ombra accogliente dei bistrot; gli eterni anni ’80 del bar “Breakfast in America”; le partite di pétanque e l’assenza/presenza del commissario Maigret in place Dauphine.
Al Museo d’Orsay, non sapendo più davanti a quale classico arenarmi, ho scelto di partecipare al Bal au moulin de la Galette, così come lo vide Renoir nel 1876. Ma non in prima fila: mi sono messo sulla sinistra e ho fissato un punto periferico, dove gli esseri umani appena accennati diventano macchie di colore.
Succede qualche volta, nella vita, di sentirsi figure sullo sfondo di un dipinto: la festa trascina i personaggi visibili in primo piano mentre noi, nel nostro angolo, con la nostra sensibilità, tentiamo di capire le ragioni della nostra presenza/assenza.

Perché qualcosa ci appartenga è necessario fissarla a lungo o ascoltarla senza distrazioni. Bisogna andare, vedere e poi tornare di nuovo. Succede con i quadri, ma anche con le parole smarrite nelle piazze piene di gente. In place de la Contrescarpe, tagliando fuori ogni altro suono, mi sono concentrato sulla frase di contatto dei camerieri, che tornava ad accendersi uguale, sempre con la stessa intonazione: Bonjour! Vous avez choisi? Le parole dentro di me hanno superato il loro significato e sono diventate una frase musicale: sib-sol, fa-fa-fa-fa-sol… qualcosa da cui potrei partire per improvvisare un ricordo di viaggio al sax.

Dalle parti di rue Lepic, mi sono fermato a sfogliare il libro di Roubaud. Scendevo questa via che era diritta, inclinata di sole, tra automobili di una lentezza imprecisa. Scendendo questa strada, avevo la sensazione di un passato, di un lontano passato, di un’altra strada. […] Quella strada là, che non era questa strada qui, come sarebbe tornata presente, come si sarebbe presentata, mentre camminavo, inseguito dal sole, dallo scintillio degli alberi, le pieghe di polvere? La domanda è di quelle urgenti, perché tutte le strade del nostro qui e ora contengono strade inghiottite dall’oblio e promettono strade future. Si può evitare che ciò che vediamo divenga come l’illustrazione di una rivista, sempre più stinta con il passare degli anni? Come combattere il prodotto anti-acari garantito al cento per cento? O in altre parole, dove trovare il bandolo che possa legare le Parigi del passato e le Parigi del futuro, con tutti i loro oggetti smarriti e ritrovati?
Credo che la risposta stia nel paradosso. Fuori dalla Grande Moschea, in una libreria in place du Puits de l’Ermite, ho comprato una versione del Divân, l’opera più celebre del poeta persiano Khāje Shams o-Dīn Moḥammad Ḥāfeẓ-e Shīrāzī, detto Hāfez, vissuto a Shirāz fra il 1315 e il 1390. Sfogliando il volume, ho trovato due versi che racchiudono il paradosso: Ho lo spirito sereno presso l’Essere che dona la pace, / Colui che all’improvviso ha tolto la quiete dal mio cuore. Questa condizione di pace inquieta serve a tenere desta l’attenzione: fungendo da pungolo, permette a ogni viaggio di farsi significativo, nonostante il pericolo della dimenticanza. La mia fatica è di essere presente in ogni momento, pure in quelli vuoti, cercando di trasformare la malinconia in serenità inquieta. Tale operazione non viene compiuta dall’atmosfera né dalla novità del paesaggio, ma richiede la presenza dei compagni di viaggio.
Ci pensavo al museo Pompidou, davanti all’opera Senza titolo realizzata da Robert Ryman nel 1974. Sostanzialmente si tratta di un trittico monocromatico: tre grandi pannelli (182 x 546 cm) laccati di bianco. Quello spazio sterminato, quel campo dove tutto è possibile non si lascia comprimere nei confini di un luogo fisico. L’aspetto più misterioso di ogni viaggio, per quanto attraversi posti esotici e meravigliosi, consisterà sempre nei viaggiatori stessi. Più dei monumenti, più delle opere d’arte, più dei sapori e degli odori.
Davvero c’è la speranza che rimanga qualcosa di una strada percorsa nella fragilità del presente? Se tale speranza esiste, essa non può che nascere nell’intesa, nello scambio, in quella strana alchimia di silenzio e parola che accade quando il viaggio sta già diventando il racconto del viaggio. Gli aperitivi, le cene, i pranzi nei giardini pubblici o in una fritteria, le frasi scambiate al volo, i momenti dove nessuno dice niente. È in questi interstizi che il grande Ufficio degli Oggetti Smarriti può concedere i suoi doni segreti. Insieme all’inevitabile smarrimento, la città è pronta a offrirci qualcosa che – pur essendoci ignoto – riconosciamo come nostro: per esempio l’Arbre Bleu, dipinto nel 2000 da Pierre Alechinsky in rue Descartes. L’opera è affiancata dai versi scritti appositamente da Yves Bonnefoy: […] Car même déchiré, souillé, / l’arbre des rues, / c’est toute la nature, / tout le ciel, / l’oiseau s’y pose, / le vent y bouge, le soleil / y dit le même espoir malgré / la mort […] (“Perché anche lacerato, sporco, / l’albero delle strade / è tutta la natura, / tutto il cielo, / l’uccello si posa / il vento si muove, il sole / dice la stessa speranza nonostante / la morte”). Questo viaggio a Parigi, nel cuore di agosto, è stato per me come un albero blu che resiste alle intemperie. Un albero che invita a fermarsi per bere qualcosa sotto le sue fronde, con animo serenamente inquieto.

PS: Ringrazio i miei compagni di viaggio per la loro presenza e per la loro pazienza. Grazie anche per avermi inviato alcune delle fotografie che appaiono in questo articolo.


PPS: I versi di Tardieu sono tratti dallo stesso volume di cui cito l’epigrafe. Le traduzioni in italiano sono sempre mie, compresa quella di Hāfez (il volume che ho comprato: Hāfez de Chiraz, Le Divân. Œuvre lyrique d’un spirituel en Perse au XIVème siècle, a cura di Charles-Henri de Fouchécour). La canzone di Barbara è tratta dall’album Barbara à l’Écluse (La voix de son maître 1959). La canzone di Giorgio Conte è un piccolo capolavoro umoristico ispirato a una visita al Museo d’Orsay: si trova nell’album Come Quando Fuori Piove (Ala Bianca 2011). Infine, per chi non fosse pago, ecco Charles Aznavour: Chaque rue, chaque pierre / Semblaient n’être qu’à nous / Nous étions seuls sur terre / À Paris au mois d’août… La canzone, che proviene dall’album La Bohème (EMI 1966), è parte della colonna sonora del film Paris au mois d’août, girato da Pierre Granier-Deferre nel 1966 e tratto dal romanzo omonimo pubblicato da René Fallet nel 1964.

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Odraxolonk

Oggi ho trovato un odraxolonk. Non lo stavo nemmeno cercando – del resto, sarebbe da pazzi uscire di casa con l’idea di cercare un odraxolonk, senza mezzi appropriati e senza un’adeguata preparazione. Avevo semplicemente l’idea di fare quattro passi per le vie del centro, e poi forse di spingermi fino ai bordi della città, lungo il fiume, per avvistare qualche segno di primavera: a volte basta un riflesso sull’acqua, una primula, un’esitazione. Ogni cambiamento si manifesta con segni piccoli, quasi impercettibili.
IMG_9347Ero stanco, perché mi ero alzato presto, ma camminare mi pareva riposante, così come poter lasciare libero lo sguardo, senza schermi o file di parole che esigessero attenzione. Una semplice passeggiata, qualche volta, può corteggiare il mistero con più leggerezza rispetto a viaggi esotici o a sfibranti escursioni in luoghi sperduti. Che cosa c’è di più selvaggio della nostra stessa città? La tribù degli avvocati in giacca e cravatta è altrettanto indecifrabile che i tatuaggi di un antico guerriero polinesiano, il rito della pausa caffè, officiato da impiegati ciarlieri, è complesso quanto le variazioni di un canto sciamanico inuit. Io stesso, che mi muovo tra i portici e i viali, sono parte della scena, un elemento dell’intreccio di gesti e vicende. Ogni passo ricalca i passi di altre generazioni, il saluto al barbiere, allacciarsi le stringhe di una scarpa, acquistare un giornale, sedersi sul bordo di una panchina.
IMG_9346Davanti al palazzo del Governo c’è la scultura di una foca, che nella bella stagione spruzza un getto d’acqua dal muso. Ora la stanno restaurando: è ricoperta da un imballaggio di plastica e circondata da varie impalcature. Sotto la maschera il naso si protende verso l’alto, come alla ricerca di aria, di libertà, o magari di una palla da tenere in equilibrio. A mio parere, è proprio la foca ad avere attirato l’odraxolonk. Senza il caos del cantiere, non sarebbe potuto restare nascosto ai passanti. Probabilmente di giorno se ne rimane acquattato in un angolo, mentre di notte scivola fuori e prova a stabilire un contatto con la foca. L’odraxolonk è un animale assai timido ma pare che – non si sa bene per quale ragione – abbia un debole per le foche, specialmente per quelle di pietra.
IMG_9351Mi rendo conto ora che qualche lettore potrebbe ignorare la natura impetuosa eppure schiva di questa bestiola. L’odraxolonk infatti è estremamente raro. Per capire a fondo la sua conformazione, occorre precisare che si tratta di un incrocio nel quale affiorano i tratti di altre creature. Una di esse è l’odradek, descritto per la prima volta da Franz Kafka nel 1917. Assomiglia a un rocchetto per avvolgere il filo, che grazie a due stanghette può starsene ritto come su due gambe. Si sarebbe tentati di credere – annota Kafka – che questa struttura, una volta, abbia avuto una forma adeguata a una funzione, e che ora si sia rotta. Non sembra invece che sia così; […] l’insieme appare inservibile, ma a suo modo completo. L’odradek può stare in soffitta, nel sottoscala, nei corridoi, nel vestibolo. Magari passano mesi senza che si faccia vedere. Quando ride, sembra un fruscio di foglie secche. È capace di rimanere a lungo in silenzio. Io non ne ho mai visto uno mentre Kafka, che lo conosce bene, si domanda se possa morire: Tutto ciò che muore ha avuto prima o poi uno scopo qualsiasi, una qualche attività, e così s’è consumato. Ma l’odradek? Scenderà le scale trascinando filacce tra i piedi dei miei figli, e dei figli dei miei figli? Non fa male a nessuno, ma l’idea che possa sopravvivermi è quasi dolorosa, per me.
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Un’altra specie che ha dato origine all’odraxolonk è quella che gli scienziati chiamano Lacrimacorpus dissolvens, ma che è meglio conosciuta come squonk. Vive perlopiù nelle cicutaie della Pennsylvania, è di tinta cupa e in genere viaggia all’ora del crepuscolo. La pelle, che è coperta di verruche e di nèi, non gli calza bene, annota William T. Cox in uno studio del 1910. A giudizio dei competenti, è il più sfortunato di tutti gli animali. Rintracciarlo è facile, perché piange continuamente e lascia una traccia di lacrime. I cacciatori di squonk hanno più fortuna nelle notti di freddo e di luna, quando le lacrime cadono lente e all’animale non piace muoversi; il suo pianto s’ode sotto i rami degli oscuri arbusti di cicuta.
img_7243_1440_850_matthieu_cartonNon so come si siano potuti incrociare uno squonk e un odradek. Ma soprattutto, non so come abbiano potuto mescolarsi con la specie dell’axolotl. Mi permetto di citare da Wikipedia: L’Ambystoma mexicanum (Shaw, 1789), comunemente chiamato axolotl o assolotto, è una salamandra neotenica (compie l’intero ciclo vitale allo stadio di larva) che vive nel lago di Xochimilco, nei pressi di Città del Messico. È considerato una specie probabilmente estinta, per diversi fattori quali la pesca, l’inquinamento e la distruzione dell’habitat. A me è capitato di vederne un esemplare, un paio di anni fa, al Jardin des Plantes di Parigi. Ho poi letto un racconto di Julio Cortazar dedicato proprio a questa bestiola. La storia comincia così: Ci fu un’epoca in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli nell’acquario del Jardin des Plantes, e mi fermavo ore intere a guardarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl.
AxolotlFotoBlogCortazar cominciò a recarsi ogni mattina al Jardin des Plantes, qualche volta anche il pomeriggio. Il guardiano degli acquari sorrideva perplesso nel ritirare il mio biglietto. Io mi appoggiavo alla sbarra di ferro che corre lungo le vasche e stavo là a guardarli. Non c’è nulla di strano in questo, perché fin dal primo momento compresi che eravamo legati, che qualcosa d’infinitamente perduto e distante continuava nonostante tutto a tenerci uniti. Affascinato dal quieto raccoglimento dell’axolotl, l’autore sente nello stesso tempo la loro insondabile lontananza e la loro prossimità. Gli occhi degli axolotl mi parlavano della presenza di una vita diversa, di un’altra maniera di guardare. Con il volto contro il vetro (qualche volta il guardiano tossiva, inquieto) cercavo di vedere meglio i minuti punti aurei, quell’entrata al mondo infinitamente lento e remoto delle creature rosate.
IMG_9348Nascosto tra le impalcature, il piccolo odraxolonk mi guardava con occhi fissi, e nello stesso tempo ruotava leggermente la testa, come in un gesto di domanda o di supplica. Non sapevo bene che cosa fare, così l’ho messo nella mia borsa e l’ho portato a casa.
Un po’, in queste ore, abbiamo imparato a conoscerci. L’odraxolonk ha una pelle ruvida in alcuni punti, morbida in altri. Ha la capacità – ereditata dall’axolotl – di starsene a lungo immobile. Al crepuscolo l’ho sentito piangere: sembrava un lamento che provenisse da epoche smarrite, e che accogliesse in sé il dolore del mondo. Poi invece, dopo cena, l’ho udito che rideva nel sottoscala: era la risata senza polmoni dell’odradek, come un accartocciarsi di foglie autunnali.
Non si può dire che l’odraxolonk sia affettuoso. Però è di sicuro capace di slanci: a volte sente il bisogno di tenerezza, così come lo sentiamo tutti. Altre volte invece fa perdere le sue tracce, oppure si isola dal mondo, immerso in una muta contemplazione. Non ho ancora capito se sappia parlare, se abbia una qualche forma di linguaggio. Quando oscilla la piccola testa triangolare, sembra proprio che sia sul punto di pronunciare una parola. Ma poi abbassa lo sguardo sulle zampette, che sembrano due piccole mani, e si stringe nelle spalle, come a dire: non badare a me, non ti darò fastidio.
IMG_9353Forse si sente solo. Ho notato che apprezza la musica, particolarmente le note lunghe e lente (ho provato a suonare il sax, e mi pareva contento). Tra gli oggetti che ingombrano il mio sottoscala c’è una piccola rana giocattolo, e l’odraxolonk sembra esserle affezionato. Non so se in qualche modo, questo pomeriggio, l’axolotl e la rana siano riusciti a comunicare. Ma a giudicare dalla loro espressione soddisfatta, direi proprio di sì. Devo confessare che, nonostante l’odraxolonk sia un ospite squisito, talvolta sono un po’ preoccupato. C’è tutta una serie di domande alle quali ancora non ho trovato risposta: che cosa mangi l’odraxolonk, quando e quanto dorma, che cosa significhi quel cinguettio che a volte emette dal suo rifugio nel sottoscala. Se qualcuno tra i miei lettori ne sapesse qualcosa, lo invito a mettersi in contatto con me. Ve ne sarò molto grato.

 

PS: Ho registrato il cinguettio. Mi perdonerete se oggi non vi segnalo come di consueto i titoli dei libri che ho consultato. Mi limito a esprimere un invito alla lettura dell’autore argentino Jorge Luis Borges; forse lui, pur senza averlo esplicitamente nominato, potrebbe avere accennato in un suo verso a questa creatura segreta e sfuggente. Ma mi fermo qui. Non vorrei che, mentre me ne sto al computer, l’odraxolonk e la rana combinassero qualche guaio.

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