Kiringa

Sarà la pigrizia primaverile, sarà la mutevolezza del clima. Ma arrivano giornate in cui ti sorprendi a desiderare di essere altrove. Dall’altra parte del mondo, lontano da ogni congegno tecnologico e dall’esercito di mail e messaggi che ogni giorno ti mette sotto assedio. Ti dici: me ne andrei volentieri in un’isola sperduta della Papuasia. In questi casi, la cosa migliore è trovare qualcuno che ci sia andato davvero… e non oggi – in un’epoca di aeroplani ed eterna connessione – ma nel 1871, quando i viaggi erano ancora viaggi.
Copia di FullSizeRenderHo letto di recente un libro di Nikolaj Miklucho Maklaj: Amicizia coi selvaggi. Viaggi nella Nuova Guinea. Il titolo, oggi difficilmente proponibile, mostra l’età del volume: pubblicato dall’Istituto Geografico De Agostini nel 1963, si trova solo nel mercato dell’usato. (Il titolo dell’originale russo è semplicemente: Путешествия). Maklaj (1846-1888) ebbe una vita difficile e avventurosa. Biologo e antropologo, nei suoi lunghi viaggi non si limitava a esplorare terre nuove, ma andava alla ricerca degli uomini. Con una delicatezza e un rispetto all’epoca non usuali, seppe avvicinare  gli indigeni della Nuova Guinea, che cercò di aiutare e difendere in ogni modo. Soprattutto, non si limitò a studiarli da lontano: con loro condivise anni di vita, stringendo rapporti di amicizia.
FullSizeRender copia 2Il 19 settembre 1871 la corvetta russa Vitiaz giunse nel Golfo dell’Astrolabio, sulla costa nord-orientale della Nuova Guinea. Dopo qualche giorno la nave ripartì e sull’isola, insieme a due aiutanti, rimase soltanto Maklaj. Nel suo diario, con stile sempre piano e avvincente, Maklaj descrive le tappe del suo avvicinamento agli indigeni. A quell’epoca i papuasi non avevano praticamente mai visto un uomo bianco ed erano a tutti gli effetti uomini dell’età della pietra. Maklaj invece era uno scienziato colto del XIX secolo. Ma in nessun momento egli disprezza o sottovaluta gli indigeni. Anzi, non esita a seguire le loro stesse usanze, come quando dopo la morte di una donna si tinge la fronte di nero in segno di lutto per esprimere le sue condoglianze al marito, oppure quando trova le parole e le azioni giuste per spiegare agli indigeni che anche lui è un essere umano, che può morire e soffrire (ma dicci, gli avevano chiesto, anche tu muori come tutti noi?).
Le differenze culturali erano immense. Però talvolta Maklaj trova, in maniera sorprendente, qualche inaspettata affinità: Passando accanto all’ultima capanna vidi una bambina che girava tra le mani una cordicella annodata ai capi. Mi fermai per osservarla. Con un sorriso compiaciuto la bambina ripeté il giochetto con la cordicella. Era lo stesso che fanno i nostri bambini d’Europa.
Copia di image1Maklaj e i suoi aiutanti passarono un anno e quindici mesi nell’isola prima di avvistare una nave. Uno degli aiutanti era morto di malattia e l’altro era in condizioni pietose. Maklaj invece era vivo, seppure provato dal lungo soggiorno nel luogo selvaggio (fra l’altro, aveva esaurito la scorta di chinino per curare la febbre). A malincuore ripartì con la nave, portandosi dietro i suoi reperti scientifici. Quattro anni dopo, trovò un’altra nave che lo riportasse sull’isola. Gli indigeni lo accolsero festanti: avevano conservato tutte le sue cose, perché sapevano che sarebbe tornato.
Con i vezzi di uno scienziato ottocentesco, Maklaj è meticoloso nell’annotare una vita meticolosa: ogni giorno misura la temperatura dell’aria e dell’acqua, insieme ad altri rilievi, raccoglie campioni di fauna e di flora, osserva con attenzione gli indigeni e cerca d’imparare il loro linguaggio. Questo è il punto che più m’interessa. Pensate: appena sbarcato Maklaj non comprendeva nemmeno una parola. E imparare una lingua, in quelle condizioni, non era certo facile.
Solo oggi, cioè cinque mesi dopo il mio arrivo, ho conosciuto le parole papuasiche che significano: “mattino”, “sera”; non sono ancora riuscito a conoscere la parola “notte”. […] È difficile farsi comprendere se la parola che si vuol sapere non è la semplice denominazione di un oggetto. Per esempio, come spiegare che si desidera conoscere la parola “bene”? A un certo punto, Maklaj credeva di avere imparato la parola “bene”: kas. Quando indicava qualcosa di bello o funzionale, diceva kas; e gli indigeni con entusiasmo ripetevano kas. Soltanto dopo tre mesi scoprì che kas in lingua papuasica voleva dire “tabacco”. Il guaio era che gli indigeni, per gentilezza, avevano l’abitudine di ripetere sempre le sue parole, pensando che si esprimesse nella sua lingua. Kas per loro era “tabacco”, ma chissà, forse nella lingua di Maklaj significava un’altra cosa… nel dubbio, lo ripetevano allegramente. Ancor più comica la storia della parola “kiringa” che gli indigeni usavano assai spesso quando parlavano con me. Io pensavo che significasse “donna”. Solo qualche giorno fa, cioè dopo quattro mesi, ho saputo che non si trattava di una parola papuasica, mentre Tuj e gli altri indigeni hanno potuto convincersi che non si trattava della parola russa che essi credevano.
FullSizeRenderAppena ho letto queste frasi, la parola kiringa mi si è stampata nella mente, e credo che non la dimenticherò. È una parola che non vuol dire niente, né in russo né in papuasico. Ma per mesi Maklaj e gli indigeni la usarono per comunicare fra di loro, riuscendo in qualche modo a comprendersi. Quanto spesso, anche esprimendoci nella nostra lingua madre, abbiamo l’impressione che le parole non corrispondano all’essenza delle cose? Quanto spesso il significato ci appare immensamente più vasto del significante? Eppure, a volte, una sola parola – che per giunta non esiste – può avvicinare gli uomini più di mille discorsi intelligenti, più di mille articoli sui giornali o sui blog, più di milioni di “A cosa stai pensando?” su Facebook.
La verità è che la comunicazione ha bisogno di tempo. Per approfondire il significato di una sola parola ci vogliono mesi – come nel caso di kiringa – o forse non basta una vita intera. Per contro, anche se usate in maniera imperfetta, le parole hanno una potenza miracolosa: creano ponti, uniscono le persone. Non soltanto legano Maklaj agli indigeni, ma anche Maklaj a me e a voi, e quindi gli indigeni a tutti noi. Insomma: quella parola, risuonata tanti anni fa in una luminosa isola dei mari del sud, torna a vivere qui, nel mio piccolo blog. In questi giorni, fra l’altro, cerco di usarla il più possibile con parenti e amici…
image1Siamo stanchi? Un po’ esauriti dalla frenesia delle giornate primaverili? Non è necessario partire per la Papuasia. Basta osservare le persone intorno a noi, cercare di cogliere i riti sociali, le usanze, le modalità di linguaggio: siamo tutti “selvaggi”, in un certo senso, e ci si può improvvisare antropologi anche a due passi da casa. Ma soprattutto, quando vi sentite giù di corda, provate a seguire il mio consiglio. Nella vostra prossima conversazione, con chiunque stiate parlando, usate la parola kiringa. Il vostro interlocutore non la conosce? Voi stessi non sapete che cosa significa? Non importa. Del resto, ufficialmente la parola non esiste; ma qualche modo, vedrete, qualcosa succederà. Ecco, è questo che mi consola. Qui come in Nuova Guinea, nel 1871 come oggi, le parole hanno ancora la forza di smuovere i pensieri, di farci viaggiare. Soprattutto, di suscitare domande.
Perciò, in conclusione, che altro dire?
Via, lo sapete già… non me lo fate ripetere!

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L’epopea del pidocchio

Un piccolo pidocchio gridò a sua moglie dalla finestra: «Dammi i guanti e l’ascia, vado sulla montagna della nuca!». Ma la moglie rispose: «È meglio se rimani a casa, gli uomini ti mangeranno». «Se mi mangeranno uscirò dal sedere. Solo se mi schiacciano con una frana non mi vedrai più». Il piccolo pidocchio chiamava monti le unghie degli uomini, e quando veniva schiacciato fra le unghie era una frana ad ammazzarlo. Il piccolo pidocchio non tornò più a casa da sua moglie.
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Questo racconto fu narrato da un giovane eschimese di nome Netsit all’esploratore Knud Rasmussen, che tra il 1921 e il 1924 compì una lunga spedizione in slitta attraverso i ghiacci dell’Artico: 18mila chilometri dalla Groenlandia fino all’Alaska e poi fino alla Siberia. L’incontro con Netsit avvenne in Alaska e l’aspetto bizzarro della vicenda è che Rasmussen si ricordò di aver sentito raccontare la stessa storia in Groenlandia, in un luogo distante centinaia di miglia. Com’è possibile che due tribù diverse narrassero lo stesso mito? In realtà c’era stato qualche contatto fra le due popolazioni, ma erano passati quasi mille anni: pensate alla forza di resistenza di quel piccolo pidocchio, trasmesso di generazione in generazione…
IMG_2590Sono da un paio di giorni a San Bernardino, nelle montagne svizzere. L’idea era quella di approfittare del sole per passeggiare e per sciare. Invece il paese è stato invaso da una cappa di umidità: ogni cosa è sprofondata in una dimensione remota, non si capisce bene se spaziale o temporale. Le strade vuote, il fruscio sommesso del fiume, i boschi divenuti di colpo inquietanti, popolati come in una fiaba da presenze prodigiose fra gli sbuffi di nebbia. Basta addentrarsi fra gli alberi per qualche metro e subito il mondo scompare. In mezzo al silenzio, mi viene da chiedermi: sono nel 2016 o nel 1816? Oppure sono tornato ancora più indietro, quando di qui passavano gli antichi romani? E dove mi trovo, di preciso? La natura tutto sommato domestica di San Bernardino si trasforma, per gioco, in una wilderness simile a quella del Grande Nord. Sono proprio i territori visitati da Rasmussen.
FullSizeRender copia 4Nel suo Il grande viaggio in slitta (edizioni Quodlibet), l’esploratore si sofferma su parecchi dettagli interessanti: dalle canzoni che accompagnavano le feste notturne alla tecnica per costruire un igloo. La sua fortuna fu quella di poter conoscere il popolo inuit quando le vecchie tradizioni erano ancora vive. La sua abilità fu quella di saper parlare con le persone, come nel caso di Netsit. Il ragazzo era un cacciatore di appena vent’anni ma sapeva molte storie, perché era stato il figlio adottivo di un famoso sciamano.
L’epopea del pidocchio mi ha fatto riflettere su quanto le storie siano potenti, anche quelle che sembrano più banali. Le narrazioni sono capaci di resistere, di superare gli ostacoli del tempo e della distanza. Infatti il pidocchio inuit ora lo trovate anche qui, dall’altra parte del mondo, appostato dentro un blog nei territori sconfinati di internet… Se siamo esseri umani, diversi da ogni altro animale, è proprio per la nostra capacità di spiegare il mondo (e noi stessi) in forma narrativa. Il mito del pidocchio sembra privo di senso? Netsit rispose così a Rasmussen, che gli aveva mosso proprio questa obiezione: Noi non siamo come gli uomini bianchi, che esigono sempre una spiegazione. Non pretendiamo sempre che ci sia una morale nelle nostre storie, purché siano belle e divertenti. In realtà, il significato di una storia consiste nella storia stessa, che ha valore come esperienza. La narrazione è un’arte concreta, che evoca persone inesistenti parlandone come se fossero vere; e così facendo, in qualche modo, le rende misteriosamente vere.
FullSizeRender copia 2Rasmussen ha notato quanto le storie, per quel popolo che sopravvviveva in condizioni talvolta disumane, fossero preziose, indispensabili. Ma lo stesso vale per noi. Anche un’esperienza minuta, nel momento in cui diventa racconto, ci unisce agli altri esseri umani. Faccio un esempio. Rasmussen parla del fischio che fanno le slitte sulla neve, come una melodia nel deserto bianco. E proprio a San Bernardino una delle mie figlie, mentre la spingevo sulla slitta, mi ha detto: lo sai che questa slitta sta cantando una canzone? Ah, faccio io. Quale canzone? Non lo so, risponde lei, devo ancora ascoltarla bene. Ma penso che sia quella che cantiamo all’asilo, quella che parla di un albero che sta da solo in mezzo al prato.
Ci vuole poco perché il mondo si animi di presenze: alberi solitari, slitte che cantano, pidocchi che partono all’avventura. Ed è sbagliato ridere di queste cose. Uno sciamano, quando Rasmussen gli chiese la ragione di tutti i complicati tabù che regolavano la vita degli inuit, gli rispose che non c’erano spiegazioni. Ma lui, l’esploratore, sapeva forse la ragione del mondo? Perché gli uomini nascono, perché sorgono le bufere di neve? Rasmussen lo ascoltava stupito. E lo sciamano, impietoso: perché le persone devono essere malate e soffrire? Gli inuit erano un popolo primitivo, ma la loro paura non era stolta: anche noi viviamo tra fenomeni che non comprendiamo. Per fortuna, insieme ai fenomeni negativi, ci sono anche quelli che ci fanno venire voglia di vivere e di sorridere. Come la primavera dopo un lungo inverno, accolta da Rasmussen con sollievo e felicità.
FullSizeRenderLa giornata è meravigliosa. Nell’aria, con tutti i suoi brutali cambiamenti fra neve, tempesta e pioggia, oggi si respira solo la pace. Il lago si è sciolto nei pressi della foce del fiume, e fra le spesse lastre di ghiaccio invernale accavallate c’è ora un buco lucido coperto da un vapore velato. Sciami di uccelli acquatici hanno trovato qui il loro campo da gioco e schiamazzano e strepitano quando nuovi stormi si mescolano a loro. Nella regione intorno a noi sentiamo il canto della neve che si scioglie. La primavera conquista i territori desertici e presto la terra e i fiori spunteranno dalla neve.

PS: Alcuni passaggi di questo articolo, elaborati in maniera differente, si trovano anche sul mensile “Illustrazione ticinese”, nel numero di aprile.

 

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