È una serata di quasi primavera. Mentre apro il cancello, sento che lei mi sta aspettando. Arriva sempre in questo modo, quasi di nascosto: non bada agli appuntamenti. Del resto è anche colpa mia: non mi aspetto quasi mai di vederla e mi dimentico d’invitarla.
La gioia si manifesta così, nel cigolio di un cardine, nella luce soffusa di marzo, quando mi accorgo che dovrebbe essere buio e invece non lo è. C’è una lieve brezza, il suono di un treno. È un momento fuori dal tempo, sospeso com’è fra lo spegnere il motore dell’automobile e l’aprire la porta d’ingresso. Da una casa vicina si diffonde nell’aria un vago odore di patate arrosto.
Queste epifanie avvengono senza preavviso: a volte nella quotidianità, a volte nel tempo eccezionale di un viaggio. Ogni tanto le due situazioni si sovrappongono: anche tornare in un luogo noto può essere un’avventura, dipende dallo sguardo. La capacità di provare meraviglia non si acquisisce per caso, occorre prima distinguerla dallo stupore superficiale, in questi anni provocato e rafforzato dai social network: le persone e i paesaggi vengono banalizzati nel momento stesso in cui diventano un selfie, un post, un video condiviso e sottoposto al tritasassi dei cuoricini e dei “mi piace”.
Per esercitarmi ad afferrare la meraviglia e la gioia, ho accettato volentieri la proposta di registrare un podcast in dieci puntate. Ecco l’idea: prendere spunto da viaggi impervi e difficili per incrociarli con quelli che contraddistinguono la nostra vita di ogni giorno. Il podcast, prodotto da Rete2, il canale culturale della Radiotelevisione svizzera in lingua italiana (RSI), è nato in occasione dei cento anni del romanzo Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne. Ogni puntata si apre con una citazione, spesso un consiglio scritto da grandi viaggiatori del XIX secolo. Per conto mio, ho cercato di rivivere l’epica qui e oggi, nelle ferrovie e nelle strade della Svizzera che percorro fin dalla mia infanzia.
Ecco il link per ascoltare il podcast:
ALL’INCONTRARIO VA (DIECI PUNTATE)
La felicità del viaggio si confonde con la felicità di raccontarlo. Mentre preparavo le puntate, mi sono chiesto spesso che cosa voglia dire questa parola. Felicità. Specialmente nella versione inglese (happiness, happy) sembra diventata poco più di un passatempo, un pretesto per una storia di pochi secondi nei social network di cui sopra.
Penso che esista invece una felicità profonda, che orienta le persone verso l’aspetto migliore degli eventi, delle circostanze, degli incontri che tramano la vita. Non si tratta di un’emozione, con la sua fugacità, quanto del risultato di un allenamento, di una scelta rinnovata di continuo. Pur non allontanando il dolore (e come sarebbe possibile?), questa felicità sopravvive all’urto; anzi, in certi casi arriva perfino ad accogliere il dolore come un ospite, con rispetto se non con letizia. Naturalmente c’è il rischio che l’equilibrio si spezzi o che, al contrario, lo sforzo di mantenere desta la felicità assopisca la capacità di interrogarsi su sé stessi e sul mondo. C’è una felicità fatta di recinti, di armature. Forse una possibilità di salvezza consiste proprio nel saper ricevere la gioia volatile, fatta di brividi, di attimi che passano. Per cogliere questo sentimento la nostra percezione dev’essere attenta, non può soffocare dietro una corazza. Così cresce in noi una consapevolezza, fatta soprattutto di domande, che ci può consentire di essere felici senza ottundere la nostra sensibilità.
Ma questi sono discorsi. Ricordo invece un fatto che sono sicuro di avere vissuto e di avere anche letto in un libro. Non so più né il titolo né l’autore, e la scena che ho vissuto io, in una strada del mio quartiere, tende nella memoria a spostarsi lungo il viale di una città, dove un bambino che indossa un paltò di colore scuro cammina di fianco a un’inferriata. Ha tolto dallo zaino il righello e mentre avanza lo fa passare sulle sbarre, generando un ticchettio. Con meraviglia il bambino si accorge che non si tratta di un rumore: i colpi formano una melodia, con pause e accelerazioni, con passaggi convulsi accanto a momenti più distesi. Ero io quel bambino? Devo esserlo stato, perché il ricordo è preciso. Credo che la conclusione invece venga dal libro, che narrava una scena simile. Nel romanzo il bambino passa il giorno dopo accanto alla stessa inferriata, ma stavolta la musica non accade. Il righello batte allo stesso modo contro le sbarre, eppure tutto ciò che sente il bambino è un banale tactactactactactac, senza alcuna melodia.
In fondo, si tratta di riconoscere una musica. Qualcuno dirà che il primo giorno il bambino si era immaginato tutto, e che aveva ragione l’indomani nell’udire solo un’accozzaglia di rumori. Forse è la nostra mente a trasformare il tactactac in melodia? Può essere. E se anche fosse? Saper trarre una melodia dalle cose è un modo per essere felici. Se nel bambino c’è la predisposizione a trasformare il tactactac in musica, allora questa musica non può venire ignorata come una pura fantasticheria. In qualche modo la musica esiste, si nasconde dietro la facciata ordinaria delle cose.
Capita che non riusciamo a sentire la musica, anzi, a volte non riusciamo nemmeno a considerare la possibilità che essa risuoni da qualche parte. Quando il vuoto ci stringe d’assedio, siamo in grado soltanto di adeguarci a quella modalità: il silenzio sterile, la mancanza d’immaginazione, l’incapacità di pensare a un qualsiasi futuro che non abbia il colore e la consistenza del vuoto stesso. Credo tuttavia che l’inferriata, la lunga inferriata che sono i nostri anni dall’adolescenza alla vecchiaia, custodisca per noi la musica anche nei momenti di assenza. Il canto è nella natura delle cose, nella conformazione stessa del mondo, e perciò non può sparire per sempre.
Voglio concludere proprio parlando di una melodia che ritorna. Qualche settimana fa a Los Angeles fa è morto il sassofonista Wayne Shorter. Nato il 25 agosto del 1933, ha segnato la storia del jazz: la sua visione creativa, sia come compositore sia come improvvisatore si è continuamente rinnovata negli anni. Era un personaggio lunare, misterioso. Io l’ho scoperto per caso da ragazzo, quando mi ritrovai per le mani il disco Beyond the sound barrier: ricordo che mi sforzavo di capire, di decifrare il pensiero del musicista. In seguito ho ascoltato molti brani di Shorter, a partire dai suoi primi dischi. Vorrei condividere qui il brano 12th Century Carol, contenuto nel disco Alegría, uscito proprio vent’anni fa. Si tratta di un brano che aveva rubato alla classe di canto corale e che aveva conservato per quattro decenni, finché non sentì l’esigenza di suonarlo con un arrangiamento particolare: Shorter trasforma quell’antico canto a cappella in qualcosa di nuovo, che non si può definire. Le variazioni melodiche, il groove, l’esplorazione sonora. Mi sembra un ottimo esempio di un incrocio fra qualcosa di conosciuto e qualcosa d’ignoto anche allo stesso musicista.
In origine era una canzone natalizia chiamata Personent hodie e pubblicata nella raccolta finlandese Piae cantiones, risalente al 1582. Questa versione è il rifacimento di un altro canto, intitolato Intonent hodie e trovato in un manoscritto del 1360 nella città di Moosburg, in Baviera. Shorter compose la sua versione in un momento particolare: finalmente, dopo dolorose vicissitudini personali e anni di crisi, aveva ritrovato la serenità.
Tutto ciò che Shorter suonava in fondo era un modo d’interrogare il mondo. Anche le mie riflessioni sul viaggio e la felicità, alla fine, non sono che una domanda. Proprio per questo vorrei concludere con le parole dello stesso Shorter, in un’osservazione pronunciata poco dopo l’uscita di Alegría: «Quando mi intervistano, mi chiedono sempre della musica, musica, musica, musica, musica… e io dico no, no, no. La musica è al secondo posto, al primo c’è l’essere umano. A cosa serve la musica? A cosa serve qualsiasi cosa?»
PS: La frase di Shorter è tratta da Michelle Mercer, Footprints. The life and works of Wayne Shorter, Penguin 2004, tradotto da Chiara Veltri nel 2006 per Stampa Alternativa con il titolo Wayne Shorter. Il filosofo col sax.