Tranne il bianco

#Rubruk2022 è un progetto di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Guglielmo di Rubruk partì nel 1253 per una lunga spedizione in Asia. Il suo Itinerarium, redatto in latino, è fra i più bei resoconti di viaggio che siano mai stati scritti. Basta leggerne poche frasi per trovarsi nel cuore dell’ignoto, oggi come ieri, desiderosi di conoscere ciò che è diverso da noi.

Rubruk
Divagazioni intorno ai viaggi di Guglielmo di Rubruk

Quarto episodio.

10) «Quel mattino avevo le dita dei piedi congelate, e non potei più camminare a piedi nudi. (Il freddo in quelle regioni è tremendo. Da quando comincia, il gelo non cessa più fino a maggio; e anche in maggio c’era ancora il ghiaccio ogni mattina, ma si scioglieva per effetto del sole, mentre in inverno non si scioglie mai, comunque tiri il vento.)»

Manca poco a Natale e noi siamo ospiti in una casa di montagna. Un luogo discreto, senza vette irraggiungibili e rocce colossali. Una montagna come molte altre, corrucciata, discosta. L’aria è fredda, ma dall’inizio dell’inverno è la prima volta che vediamo la neve. Arriva di notte, mentre tutti dormono, e all’alba si annuncia al mondo con un grande silenzio. Le finestre, con gli angoli un poco appannati, raccontano un altro paesaggio: non più case e alberi, ma forme impalpabili che sembrano fatte soltanto di luce e di respiro. Beviamo il caffè nero (senza zucchero) davanti alla finestra più grande. Entrambi stiamo pensando a Guglielmo di Rubruck. Nel dicembre del 1253 il grosso e infaticabile monaco era giunto all’accampamento di un importante capo tartaro. Com’è consuetudine dei francescani calzava dei sandali a piedi nudi. I tartari, stupiti, gli chiesero se non avesse bisogno delle dita dei piedi, visto che le avrebbe sicuramente perse. Da uomo saggio qual era, Guglielmo accettò d’indossare delle calzature di pelliccia. In seguito, il frate annotò nei suoi appunti il freddo implacabile della steppa. Era il primo Natale passato in viaggio, lontanissimo dall’Europa e da tutto ciò che conosceva. Eppure, come sempre, Guglielmo aveva la capacità di sentirsi a casa in ogni circostanza. E noi, che all’alba guardiamo il prato e il bosco da una casa calda, piena di persone amiche? Non c’è bisogno di dirci niente. Sappiamo di essere qui, ma sappiamo anche di essere là fuori, intirizziti nella neve ovattata, mentre aspettiamo i tartari. La figura di Guglielmo, quel puntino scuro in mezzo ai campi, per un attimo diventa l’unico riferimento. Lentamente ci avviciniamo, finché la sua immagine sbiadisce sotto le ciglia, scompare tutto tranne il bianco.

11) «Il mio compagno talvolta aveva una fame tale che mi diceva con le lacrime agli occhi: “Mi sembra di non aver mai mangiato in vita mia”».

– Ma la cena?
– Dai, ci sarà qualcosa di aperto.
Non è presto, ma neppure così tardi. Abbiamo appena concluso una lettura serale fuori dal centro urbano, appena sotto le montagne, e ci siamo fermati a chiacchierare. Ora camminiamo soli, nel buio, per raggiungere la nostra auto.
– Mah, sono meno ottimista di te.
– Male che vada andiamo in città.
– In città dove?
– Che ne so, tentiamo alla Valtellinese.
– Che roba è?
– Ci andavo quando lavoravo fino a tardi.
– Fanno pizze?
– Uova strapazzate, forse.
L’autostrada è ampia come uno sbadiglio. Sui lati sfilano le ombre degli alberi. Ogni tanto compare la luce di un gruppetto di case, un magazzino isolato, una strada persa fra i campi. Una ventina di chilometri ci separa dalla città e dalla cena.
– Chiamo la Valtellinese?
– Ma no, saranno aperti.
All’entrata della città, un locale a luci rosse (e verdi e blu e gialle e bianche) squarcia l’oscurità con la sua insegna: dancing. Noi superiamo due semafori e un capannone per la vendita d’automobili. Quando arriviamo alla Valtellinese, non c’è nessun segno di vita.
– Non l’ho ma vista chiusa a quest’ora!
– Ci sarà qualcos’altro, dai, siamo in città.
– Kebab?
– Ma sì.
– Mia moglie prende sempre il kebab vicino al teatro.
A un angolo di strada, un bar-discoteca serve cocktail colorati e fa vibrare le gambe con immensi woofer. I fari rosa puntano sulle poche persone che stanno ballando. Si chiama Upper Class, e noi siamo troppo down (e affamati) per fermarci a pasteggiare con due olive. Più in là c’è un altro bar dall’aria dimessa.
– Guarda. Qui ci andavo da ragazzo.
– “Il Castigamatti”?
– Un postaccio. C’è uno strazio di karaoke.
Una voce acuta, fra le altre, canta: «cercavo in te la tenerezza che non ho / la comprensione che non so / trovare in questo mondo stupido». E continua risuonare mentre ci specchiamo nella porta chiusa del Kostantîniyye Döner Kebap & Pizzeria.
– E adesso?
– È mezzanotte.
– Un nuovo giorno.
– Ma la fame sta invecchiando.
– Non ci sono altri locali?
– Qui vicino c’è il Chiquito, ma non è un posto raccomandabile.
– E noi siamo raccomandabili?
– Sì, hai ragione anche tu.
Il Chiquito è una cantina. Impossibile capire se sia aperto o chiuso. Mentre ci avviciniamo, una figura esce da un angolo nascosto. Ha i capelli quasi bianchi, ma il volto giovane e gli occhi attenti. Sorride con ironia. Ci accorgiamo che in fondo alla scala, dalla porta socchiusa del Chiquito, filtra una sottile linea di luce. C’è pure una nuova insegna, che appare incomprensibile: татаруудын цөл. La vernice sembra fresca, come se l’avessero appesa oggi stesso.
– Siete arrivati, finalmente.

12) «Quando vidi la corte di Baatu rimasi sgomento, perché già solo le dimore di sua spettanza sembrano come una grande città distesa in lunghezza».

È già trascorso un anno. Ancora confondiamo la steppa e le autostrade. Che cosa cerchiamo, seguendo la scia di questo cocciuto viaggiatore di otto secoli fa? Nella nostra piccola vita abbiamo già visto metropoli immense, che si srotolano senza finire mai e contengono milioni di individui. Perché allora immaginare la corte di Baatu ci offre un’emozione così forte, diversa? Dalla radio accesa esce il suono di un violino che taglia lo spazio fra di noi, lo fa a pezzi, come un diamante sul vetro. «Sono stanco», dice uno. «A volte, eh, non sempre». L’altro guarda il cielo oltre il parabrezza, cercando una nuvola o qualcosa che somigli a una nuvola. «Lo so». Bastano due sillabe per ribadire l’alleanza. Meglio che le parole restino nell’abitacolo, perché il mondo risponderebbe: ma come! hai tutto quello che serve per essere felici… Il punto è che forse la felicità non c’entra. E nemmeno la stanchezza. Custodiamo tutti del buio più buio: c’è chi è bravo a dimenticarsene, ma c’è chi non riesce ad arginare l’abisso. C’è poco da fare, se non attraversare insieme la corte di Baatu, distesa in tutta la sua lunghezza. E si può scrivere, aspettando le parole dell’altro. Così, mentre passano gli anni e le stagioni, ogni frase fiorisce dal buio, nel folto dei pensieri e delle angosce. Anche il gesto di mettere una virgola, voltare una frase, cancellare di nuovo: forse anche soltanto questo esprime una speranza. Altrimenti, se le cose dovessero mettersi davvero male, si può sempre tirare un dado, preferibilmente a venti facce. «Hai un dado in tasca». «Sì, come lo sai?» «Lo so perché ne ho uno anch’io». «È vero». «Al mio tre, allora. Uno. Due. Tre». «Bah, 7. Tu?». «5. Siamo spacciati».

PS: Ecco i collegamenti al primo, al secondo e al terzo episodio.

PPS: Le frasi in grassetto sono tratte dall’Itinerarium di Guglielmo, secondo l’edizione stabilita da Paolo Chiesa in G. di Rubruk, Viaggio in Mongolia, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011. Spesso abbiamo usato la versione italiana dello stesso Chiesa; qualche volta abbiamo invece tradotto noi stessi dal testo latino.

PPPS: Negli anni fra il 1237 e il 1242 un’orda di guerrieri mongoli avanzò verso l’Europa. I Tartari, come venivano chiamati, si spinsero in Russia, Polonia, Boemia, Ungheria, devastando città e villaggi. L’esercito arrivò fino all’Adriatico e si ritirò soltanto alla morte del comandante Ögedei Khan. Qualche anno dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX decise d’inviare un ambasciatore verso le steppe, per tentare qualche relazione con i Mongoli. Il sovrano si affidò a un frate fiammingo, Guglielmo di Rubruk, che viaggiò per due anni nei territori dell’Asia Centrale fino a Karakorum, dove risiedeva il Gran Khan Möngke. Guglielmo, capace di percorrere grandi distanze in poco tempo (più di dodicimila chilometri in totale) era colto, robusto e dotato di buon senso. Sapeva parlare con i re e con i poveri, con un monaco buddista o con uno sciamano, con un soldato o con un prigioniero. Era aperto e curioso nei confronti delle lingue, delle usanze, delle abitudini dei popoli stranieri. Il suo Itinerarium è uno dei più bei libri di viaggio medievali (e anche oltre).

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