Tati

La settimana scorsa ero in diretta tutte le mattine alla radio. Mi alzavo prima dell’alba e, seguendo il flusso del programma, facevo il mio lavoro. Le ore passavano senza che me ne accorgessi. Ma quando andavo incontro al resto della giornata avevo una strana impressione: era come se il mondo mi rifiutasse. Avevo altri lavori da svolgere, e cercavo di fare del mio meglio; inoltre, com’è normale, mi capitava di incontrare persone, scambiare idee, scrivere messaggi, telefonare. Anche nei momenti di tempo libero cercavo di tenermi occupato. Ma niente poteva scacciare la sensazione che il mondo fosse rivestito di una patina protettiva, e che rifiutasse la mia presenza.
img_7286Sabato, dopo la settimana di lavoro, sono andato a Mortara (Pavia), dove la Biblioteca Civico 17 aveva organizzato una presentazione del romanzo L’arte del fallimento. La relatrice, Maria Forni, ha saputo scavare in profondità; la conversazione è stata perciò intensa e a tratti sorprendente, davanti a un pubblico di forti lettrici e lettori. Alla fine uno di loro mi ha detto di essere rimasto colpito da una riflessione sorta durante l’incontro, a proposito dell’originalità nell’arte. Mi ha citato una frase, di cui non ricordava l’autore: Più che essere originali, è importante essere originari. Cioè, è vitale riconoscere una storia dietro di sé, un mondo al quale appartenere. Il problema, riflettevo più tardi bevendo un aperitivo nella splendida piazza di Vigevano, è che a volte nella mia percezione la realtà si appanna, diventa un enigma non solo incomprensibile, ma anche ostile.
Allora ho pensato a Jacques Tati. In particolare, mi è venuta in mente una scena del film Mon oncle. Secondo me la genialità di questo regista consiste proprio nel rappresentare, in maniera oggettiva, il conflitto fra l’anima e il mondo. Tati si definiva artigiano, ma aveva l’inquietudine di un artista: in trentacinque anni di carriera girò solo sei lungometraggi, rifiutando parecchie proposte e correndo più volte il rischio di scontentare il pubblico. Guardate la scena di cui vi dicevo.

Monsieur Hulot (Tati) entra in un ufficio anonimo e grigio, per un colloquio di assunzione. Poco prima ha calpestato della polvere di gesso e gli si è infilato un sassolino nella scarpa; rimasto solo, ne approfitta per levarlo (così facendo, appoggia per un istante la scarpa sulla sedia e sulla scrivania). Appena arriva l’arcigna impiegata, si affretta a sedersi. La scena è filmata con una semplicità coraggiosa, come sempre nei film di Tati: camera fissa, silenzi, una punteggiatura sonora discreta ma significativa (il ronzio fuori dalla porta, l’orologio, il sospiro della poltroncina ogni volta che Hulot si alza o si siede). L’effetto comico è dato dal contrasto fra l’anima di Hulot – per definizione irregolare e funambola – e la normalità inesorabile dell’impiegata. Quest’ultima nota infatti che sul pavimento c’è una fila di candide tracce di piedi, poi un’altra impronta sulla sedia e due sulla scrivania, come se Hulot vi fosse balzato sopra per sbirciare dall’oblò che si apre in alto, sulla parete. La scena è geniale perché lavora sul levare, negando anche l’azione del protagonista: Hulot non si è arrampicato lassù; è l’impiegata che, leggendo gli indizi, li collega erroneamente in un involontario quanto umoristico volo di fantasia. E così il perplesso Monsieur Hulot viene accompagnato alla porta: Eh bien, Monsieur, on vous écrira. Pour l’instant, nous n’avons pas besoin d’acrobates. L’ironia gioca intorno a un paradosso: in realtà Hulot non ha fatto acrobazie, e quindi è stato cacciato per un equivoco; tuttavia egli è davvero intimamente acrobata, nella misura in cui la sua personalità è in contrasto con la gelida efficienza dell’ufficio, ed è perciò effettivamente inadatto a quel luogo, a quel lavoro, a quel mondo.
image1Non abbiamo bisogno di acrobati. Quando ho rivisto la scena, ho avuto l’impressione che le parole fossero dirette a me. In un certo senso, l’amore per la letteratura mi è nato anche perché mi pareva una via di evasione dalle geometrie prevedibili del mondo. Lo scarto dalla regola, l’azione assurda, il gesto apparentemente fuori contesto sono accettati durante l’infanzia, tollerati durante l’adolescenza; poi sono bollati come ridicoli. Invece le narrazioni aprono scenari acrobatici, in cui pensieri, parole, gesti inutili diventano fondamentali: il salto mortale non è più uno spreco di tempo, ma un pensiero espresso in forma concreta. Certo, di tanto in tanto si fa vivo il retaggio di un senso di colpa. Conti da pagare, stanze da arredare, viaggi da pianificare, affitti e affetti da gestire… tutto nella “vita reale” sembra dire: non c’è bisogno di acrobati. Allora, per riprendere coraggio, può essere utile seguire le tracce di Monsieur Hulot.

I film di Tati lavorano proprio sul divario fra l’uomo e il mondo. Lo sguardo è quanto più possibile semplice e limpido. Il montaggio non allunga né comprime la durata dei piani; tranne rare eccezioni non ci sono punti di vista né campi e controcampi, così come mancano primi piani, grandangoli, teleobiettivi. Il critico Michel Chion si chiede che cosa sia la visione nel cinema di Tati. E risponde: è la distanza, definendola una cosa meravigliosa. In effetti l’incanto proviene dal distacco, che ci dà la sensazione di vedere la realtà così come appare, senza mediazioni: spesso l’inquadratura è fissa e immobile, come se fossimo lì a guardare. E il personaggio di Hulot attraversa le inquadrature con il suo passo inconfondibile, con i suoi accessori (impermeabile, pipa, cappello, ombrello) che sono allo stesso tempo una maschera e un’armatura. Hulot esprime una doppia tensione: verso l’abitare (nei film di Tati le porte e le case hanno un valore simbolico importante) e verso l’evadere (Hulot scompare, anche dallo schermo, quando meno te l’aspetti). André Bazin nel 1953 parlava di incompiutezza: Hulot è una velleità ambulante, una discrezione dell’essere, ed eleva la timidezza all’altezza di un principio ontologico.

Jacques Tati non era poi altissimo (un metro e ottantatré), ma è riuscito a fare di Hulot uno spilungone: goffo e insieme leggiadro nei movimenti, eroe e insieme passante casuale. Non siamo tutti così? Al di là delle trame e dei personaggi, Tati è un grande creatore di mondi: il mondo privato, umanissimo e colorato di Hulot attraversa come un’increspatura altri mondi, che lo accolgono o lo rifiutano, ma quasi mai riescono a capirlo.
img_7284Un artista per certi versi simile a Tati è l’autore di fumetti Sempé. Molte sue vignette sono una perfetta rappresentazione della leggerezza, e sembrano prese da un film di Tati. In una si vedono tre bambine alla scuola di danza: nelle prime tre immagini eseguono compostamente un saltello avanti, un saltello indietro, un saltello avanti. Poi si vedono le bambine all’uscita, sulla soglia del portone. Davanti a loro, sulla strada, una grande pozzanghera. Invece di spiccare un altro saltello come tutti ci aspetteremmo, le bambine marciano felicemente, all’unisono, dentro la pozzanghera. Mi sembra quasi una risposta agli inciampi che segnano le nostre giornate: a volte, per conservare la leggerezza, è necessario saper entrare nelle pozzanghere.
Il problema, naturalmente, è trovare la pozzanghera giusta.

PS: Il primo spezzone video è tratto dal film Mon oncle (1953). Il secondo è un omaggio che assembla vari spezzoni e restituisce anche l’atmosfera musicale di Tati. Il terzo è la colonna sonora di Mon oncle, composta da Franck Barcellini. Interessante anche la colonna sonora di Les vacances de Monsieur Hulot (1953), scritta da Alain Romans. Eccovi il brano Quel temps fait-il à Paris, nell’interpretazione dello stesso Romans (è il sottofondo ideale per le vignette di Sempé).

PPS: Il volume di Michel Chion s’intitola Jacques Tati ed è stato pubblicato nella Petite bibliothèque des Cahiers du cinéma nel 1987. Il testo di Bazin, risalente al 1953, si trova in Qu’est-ce que le cinéma, éditions du Cerf (2002). La vignetta di Sempé l’ho trovata in Tout se complique (Denoël 1972, edizione originale 1962).
Per concludere, e per dar conto di quello strascico di malinconia che sta dietro l’umorismo intelligente, ecco un consiglio musicale: Enrico Rava ha intitolato un suo album proprio Tati (ECM 2005). Insieme alla tromba di Rava, suonano Stefano Bollani al pianoforte e Paul Motian alla batteria. Non riesco a mettervi il brano qui sotto, perché non si trova su internet (si sa che Tati è elusivo); ma se riuscite a scovarlo, è un buon modo per cogliere il lato notturno di Monsieur Hulot.

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Il senso del pallone

Nel 1962 il giornalista britannico Anthony Smith ebbe l’idea di sorvolare l’Africa su una mongolfiera. Nella prima tratta, fra Zanzibar e il continente, Smith sentì qualcosa che non aveva mai sentito prima: la voce del mare. Nuotando, navigando o stando sulla riva, è impossibile udirla senza interferenze; per ascoltarla davvero, bisogna stare appesi a un pallone, più leggeri dell’aria, pochi metri sopra la distesa delle acque. L’impressione, annota Smith, non è quella di essere spinti dal vento, ma di essere parte del vento. A volte, nella vita e nella scrittura, è utile partecipare al vento: stare sospesi sopra le cose, silenziosi, attenti ai suoni segreti del mondo.
IMG_4652Ho cominciato a leggere Due manciate di sabbia per caso, incuriosito dal titolo. Pubblicato nel 1963 dalla De Agostini, appartiene alla stessa collana che mi ha regalato la parola “kiringa” (ecco qui l’articolo sul blog). Lo spunto per il viaggio reale venne da un viaggio fantastico: nel 1962 si festeggiavano i cento anni del romanzo Cinque settimane in pallone di Jules Verne. Naturalmente, nella realtà tutto era più complicato: per cominciare, Smith non aveva né un pallone, né il brevetto per pilotarlo. Ma era un uomo cocciuto. E si era innamorato del sogno di sorvolare la savana per sorprendere, nel silenzio, la vita vera degli animali africani. Dopo infiniti labirinti burocratici, viaggi di formazione, ricerche di fondi, lezioni pratiche e teoriche, bollettini meteorologici capricciosi e mille altri ostacoli, finalmente Smith partì, insieme a qualche compagno.
Nel frattempo, oltre al brevetto di volo ottenuto in fretta e furia, tentava di acquisire quello che nel libro chiama il senso del pallone. In effetti, era importante comprendere che l’oggetto nel suo insieme pesava almeno tre quarti di tonnellata e che tutto quel peso si muoveva nella densità dell’aria. Poche manciate di sabbia erano più che sufficienti ad alterare l’equilibrio delle cose, ma occorreva un certo tempo perché si producesse il loro effetto.
Non è facile, pilotare una mongolfiera. Più che condurre, bisogna affidarsi alle decisioni del vento. Quanto all’atterraggio, non è propriamente dolce (anche perché non si sa mai dove si andrà a finire): non ho ancora avuto un atterraggio in pallone, scrive Smith, del quale abbia saputo poi quel che era successo.
FullSizeRender copia 5Questo articolo ha un titolo che, mentre è in corso il Campionato europeo di calcio, può trarre in inganno: qualcuno forse prima di leggere avrà pensato all’abilità di prenderli a pedate, i palloni, affinché si sollevino con la giusta traiettoria. Ma in fondo non siamo troppo lontani dalle manovre di Smith perché la mongolfiera vada nella direzione più opportuna, senza picchiare contro una montagna o finire dentro un lago di soda caustica (uno dei rischi narrati nel libro). I viaggi in mongolfiera sono un’alchimia fra calcolo e improvvisazione, e come tali rappresentano un’attività creativa, ricca di scoperte.
Il percorso africano di Smith e compagni conobbe momenti pericolosi e disavventure. Il fatto stesso di sollevarsi da terra causa un vago timore: capivo perché ci stavamo muovendo, eppure i miei sensi non riuscivano ad avvalorare questo convincimento. Il sapere che si viaggerà con il vento, farlo effettivamente e non sentire neanche un sussurro è poco rassicurante. Mi rendo conto che noi e il vento eravamo come una cosa sola, ma il fatto era difficilmente concepibile. Era anche difficile capire il potere dell’idrogeno. Mi rendevo conto del modo in cui le sue caratteristiche potessero essere usate per sollevare un pallone e sapevo che era assolutamente incolore e senza odore; ma ero in un certo qual modo impreparato a guardare dentro l’involucro contenente il gas, sopra di noi, per vedere quello che c’era dentro, dopo che la bocca era stata aperta, e non vedere niente. Quello che c’era dentro sembrava aria. Era invisibile. Non c’era.
IMG_4634Non si vedeva niente, ma il pallone volava. Jambo, come lo battezzarono appena giunti sul continente africano, avanzava partecipando al vento. Era silenzioso mentre da sotto venivano i rumori del mondo. Quando si è sulla terra, tutti i rumori tendono a venire da un solo livello e perciò si confondono nelle nostre orecchie. Su in aria, arrivando attraverso una serie di livelli diversi, i suoni sono più distinti, certamente più udibili e generalmente identificabili con la loro fonte. Ogni guaito di cane, ogni grido, ogni ronzio di motore spiccano con precisione. Normalmente, all’aria aperta, le nostre orecchie sono un po’ assordite dal vento che le sfiora. Anche nelle notti più calme c’è sempre una brezza; ma un pallone cammina tanto d’accordo col vento che un intero mondo di suoni si schiude all’aeronauta.
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Mi ha stupito, a parte lo stile brillante di Smith, questo prodigioso sollevarsi dai pesi della terra, che consente una migliore percezione del mondo. Si afferrano suoni a cui prima non si badava, si vedono le cose dall’alto ma nello stesso tempo si è parte integrante del paesaggio. Tutto, spiega Smith, appare diverso. Anche il mare colpisce, perché è una novità, una cosa rumorosa e infuriata. Così come stupisce il movimento: volare con il vento fa sì che non si sente il vento. Non è come veleggiare. Non è come planare. È un’esperienza del tutto diversa. Si è presi dal vento a una velocità che gli aggrada, senza che per questo venga scompigliato un solo capello. Insomma: si è immersi nella realtà e nello stesso tempo la si osserva da fuori. Come scrittore, ciò mi fa riflettere. Ho sempre pensato che questo esserci-senza-esserci, questa partecipazione contemplativa sia indispensabile per riuscire a scrivere con efficacia. Partecipare al vento, viaggiare immobili nel silenzio, adeguarsi ai cambiamenti climatici significa imparare a guardare, ad ascoltare ciò che abbiamo intorno; ed è fondamentale perché l’esperienza – anche minuta, anche impalpabile – possa diventare narrazione. Mi riconosco nel simbolo della mongolfiera: nella sua lentezza, nella sua inquietudine, nel suo uscire dalle rotte stabilite per reagire agli imprevisti. Tutto questo mi aiuta a cogliere l’importanza dei dettagli. Come cantava Gianmaria Testa: lasciano tracce impercettibili le traiettorie delle mongolfiere.

Anthony Smith e i suoi compagni volarono da Zanzibar fino alle pianure del continente. Esplorarono il cratere di Ngorongoro, lasciarono che Jambo vagasse sopra la natura favolosa del Serengeti National Park. Il viaggio si concluse bene, fra mille peripezie, lasciando a Smith un gran desiderio di altre avventure. Di lì a qualche anno infatti fu il primo cittadino britannico a sorvolare le Alpi.
FullSizeRender copia 2  FullSizeRender copia 4E noi? Noi che in mongolfiera non ci andiamo, noi che seguiamo le traiettorie da terra? Anche noi possiamo partecipare allo stupore, alla leggerezza, e possiamo allenarci ad ascoltare il mondo come se non l’avessimo mai udito prima. Anche noi, con gli occhi controvento al cielo, abbiamo cercato e perso le tracce del loro volo dentro le nuvole del pomeriggio, nei pomeriggi delle città… ma chissà dove è incominciato tutto… chissà…

PS: Le ultime righe provengono dalla canzone “Le traiettorie delle mongolfiere”, registrata da Testa nel 1995 e pubblicata nell’album Montgolfières. Le altre citazioni sono tratte dall’edizione italiana del volume di Anthony Smith, il cui titolo originale è Throw out two hands. Fra l’altro, Smith non si limitò ai viaggi in pallone: nato nel 1926 e morto nel 2014, fu giornalista, scrittore, navigatore, amante delle imprese. Nel 2011, per esempio, all’età di 85 anni, compì una traversata atlantica su una zattera costruita con i tubi per il gas. Insieme a lui c’erano tre compagni di viaggio, anche loro in età da pensione. Smith infatti aveva fatto pubblicare questo annuncio: Avete voglia di attraversare l’Atlantico? Famoso viaggiatore cerca tre membri d’equipaggio. Devono essere anziani pensionati. Solo veri avventurieri. 
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