Amores nuevos

LIBRI IMPOSSIBILI (MARZO)
#libriimpossibili2021 è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Ronald De Pisis, Brillantina, Franco Ceschi Editore, 2020, 73 pagine

Quarta di copertina
«Da più di quarant’anni Ronald De Pisis raccoglie i suoi aforismi in grandi quaderni con la copertina nera. Diventati quasi un oggetto di culto fra i pochi fortunati cui era concesso leggerli, ora gli aforismi sono finalmente stampati nero su bianco. De Pisis ha distillato pazientemente il meglio di decenni di studi e osservazioni della natura umana: frasi brevi, intuizioni, appunti che sembrano esistere da sempre e che invece nessuno aveva mai pensato prima. Sospeso fra malinconia e saggezza, passione e disincanto, lo stile di De Pisis non manca mai di precisione e ironia. Il Maestro era solito dire agli amici e agli estimatori che “pubblicare un libro prima dei sessant’anni è un gesto di temeraria incoscienza”. Ora, passati i sessanta, De Pisis ha finalmente aperto lo scrigno dei suoi tesori».

Prefazione dell’autore
«A sessant’anni, durante un viaggio in Andalusia, vidi una pianta dal nome soave: amores nuevos. Mi ricordai che la stessa cresceva pure da noi, nei campi verso il mare. Da bambino la chiamavo “erba brillantina” e pensavo che fosse incantata. Poi da ragazzo cercai a lungo amores nuevos nelle balere di periferia. Indossavo il completo a righine, le scarpe lucide, e mi tiravo indietro i capelli con la brillantina, sempre pensando che quella roba fosse un incantesimo. Qualche giorno fa, compiuti i sessantasei anni, mi ha preso il desiderio di scrivere un libro: il tempo ormai è maturo, forse anche troppo. Non so ancora se intitolarlo “Brillantina” o “Amores nuevos”: deciderò all’ultimo, come sempre. Sulla copertina andrà la foto della pianta, con didascalia in latino: briza minor, giacché un po’ di latinorum aiuta a creare l’atmosfera. Ma non aspettatevi incantesimi; tuttalpiù, come i vecchi prestidigitatori, farò sparire un foulard e due monetine».

Ronald “Ronnie” De Pisis nasce il 5 aprile del 1955 a New York da madre americana e padre napoletano. All’età di quattro anni rientra in Italia con la famiglia: prima in Lombardia, a Limone sul Garda, per un periodo di tre anni, poi definitivamente a Napoli. Dopo gli studi in lettere all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e un’esperienza in Inghilterra, all’Università di Reading, dove difende una tesi di dottorato su H.P. Lovecraft, De Pisis torna a Napoli e fino alla pensione lavora come insegnante di francese e inglese in un liceo cittadino. Nel 1997 vince il Premio di Montesarchio con il saggio L’occhio del ciclone. Tre casi di weird fiction (I Quaderni di Fantascienza, 1996). Brillantina è il suo primo libro di aforismi.

Tre domande all’autore

YB+AF:Ronald De Pisis, dopo aver pubblicato diversi saggi durante la sua carriera di ricercatore e insegnante, oggi – all’età di 66 anni – ha deciso di condividere i suoi aforismi. Perché questa scelta e quali sono le caratteristiche che più le stanno a cuore della scrittura per aforismi?
RDP: Vi risponderò con una osservazione di Gesualdo Bufalino, lui pure approdato alla pubblicazione in tarda età: «Anche quando le parole sembrano più volarmi sotto la penna, sento che hanno, ciascuna, un grammo di piombo nell’ala». Ho trascorso anni a spiombarmi le ali: una pagina ridotta a un paragrafo sublimato in una riga. Nel frattempo mi toccava l’incombenza di vivere, medicata dalla possibilità di leggere. Come diceva lo stesso Bufalino, anch’io mi commuovo per tutto ciò che è scritto, dalla Bibbia all’elenco telefonico. (Anzi, la rapida sparizione degli elenchi telefonici è un cruccio della mia tarda età.) Vivendo, dunque, scrivevo, quasi per distrazione. La saggistica era un obolo che pagavo al mio senso dell’avventura: è meno costoso scrivere una dissertazione su un madrigale del Tasso che partire per un viaggio nella foresta amazzonica; ma entrambe sono attività colme di pericoli. Vengo al sodo: degli aforismi amo l’eleganza un po’ sfacciata, l’ambizione di racchiudere in sé molte pagine non scritte. Un aforisma – o un aforismo, per usare la forma corretta – è come un gesto abbozzato, una rapida stretta sul braccio per dire: sono qui, sono accanto a voi, anch’io finalmente voglio dirvi qualcosa, ma brevemente, anzi fulmineamente. Il tempo di pronunciare una parola ed essa già diventa ricordo, sogno di epoche preistoriche, pietra tombale o – chi può dirlo? – astronave per futuri e inimmaginabili mondi.
YB+AF: In una recente intervista ha dichiarato di scrivere aforismi fin dall’adolescenza. Come ha lavorato per selezionare quelli da pubblicare? È stata una scelta ardua?
RDP: Mi viene in mente una storiella che viene dall’Indonesia e che narra di un uomo qualsiasi, che scoprì un giorno di avere il cosiddetto “pollice verde”: riusciva senza fatica alcuna a coltivare i più bei fiori che si fossero visti nella sua regione. In poco tempo divenne una piccola personalità sull’isola di Sumatra. Quando tuttavia un ricco possidente gli chiese di lavorare per lui, e di abbellire coi fiori le sue ville di campagna, l’uomo respinse l’offerta e bruciò tutti i suoi campi. I suoi amici insorsero e gli chiesero se non avesse esagerato, se non fosse stato troppo frettoloso. Lui rispose laconico: “Precipitosa è la via della libertà”. Con tali parole definirei anche la mia selezione: precipitosa, ma senza serbarne alcun rimpianto o rimorso. Ho una collezione di aforismi che sfugge dal mio controllo: non potevo che agire con intuito, annusando le carte, e scegliere affidandomi alla fortuna. In alcuni frangenti ho usato un dado che mi è molto caro, l’icosaedro, quello con venti facce. Mi sono assai divertito.
YB+AF: Lei ha insegnato per tutta la vita, ma accanto all’attività scolastica ha coltivato una singolare passione per il collezionismo. Osvaldo Cravero, in un articolo sul “Corriere del Mezzogiorno”, l’ha definito «collezionista seriale e stravagante», citando fra l’altro il suo debole per i campanelli da bicicletta e i rastrelli da giardino. Nello stesso articolo, si racconta di come lei abbia instaurato l’usanza personale di bersi ogni giorno un caffè allo scoccare delle 10:10, senza eccezioni, tanto che in alcuni bar del suo quartiere si parla – anche in sua assenza – di “caffè De Pisis”. Che rapporto esiste fra queste sue “tradizioni” (private e pubbliche) e la sua scrittura?
RDP: Perdonatemi la debolezza, forse lievemente senile, di rispondervi ancora con le parole di uno dei miei maestri. Si tratta stavolta del grande scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila, il quale ebbe a dire: «Nessuno parla così chiaramente di sé stesso come chi parla d’altro». Non mi è facile discutere di me, dei miei vizi e delle mie abitudini. Il mio gusto per alcuni meravigliosi oggetti – che squillino felicità per le strade o che massaggino il suolo – è forse un tentativo di restare ancorato al qui e ora. Che volete, non ho la forza di entrare in un “social network”: sono intimorito dalla crescente smania di manifestare la propria opinione, come pure dalla tendenza a indulgere in una rabbiosa suscettibilità. Scrisse Gómez Dávila: «Maturare è veder crescere il numero di cose sulle quali sembra grottesco avere un’opinione, favorevole o contraria che sia». Se i miei giorni sono scanditi da piccoli, precisi rendez-vous, potrebbe essere un modo per compiere il mio desiderio di vivere la pienezza del presente. In altre parole: per sottrarmi al dominio delle opinioni, cerco di essere fedele ai piccoli gesti della mia e nostra vita quotidiana.

Alcuni aforismi tratti dal libro
(clicca qui per leggerli in pdf)

Ho vissuto un’adolescenza pleonastica.

La pace dei sensi è una guerra che si perde sempre.

«Il capitano affonda!» gridò la nave. «Si salvi chi può!»

Rileggendo il Furioso: Ingiustissimo Onor, perché si raro / corrispondenti fai nostri pensiri? / Onde, perfido, avvien che t’è sì caro / il concorde doler di due martíri?

Nidificare in un cespuglio sempreverde è come ingannare le stagioni, ma non renderà i tuoi pulcini né più forti, né più scaltri.

Ogni parola è sull’orlo dell’abisso.

Un giorno un androide si rese conto di quanto il suo proprietario invidiasse le sue conoscenze. E lo ebbe in pugno.

In indovino veritas?

Bisognerebbe affrontare la morte come si legge un romanzo di avventura.

Ah, il profumo profumato del bosco boscoso!

Amo gli ossimori concordi.

Le migliori conversazioni non sono altro che la punteggiatura del silenzio.

La casa non ha radici.

Era un uomo fedele ai suoi principi, proprio come un cane che finisce per affezionarsi alle proprie pulci.

Che l’inferno sia una lunga gita turistica?

Il bambino era convinto che la manza al pascolo fosse un montone, finché questa fece pipì. Talvolta la verità appare in forma di deiezione.

La rugiada è il pianto del gallo.

Nel salone cominciò il grande ballo. Violini, fruscii di seta, gentiluomini e damigelle audaci. Poco dopo la mezzanotte, in un angolo oscuro, una coppia si avvinghiò in un intenso, interminabile, appassionante selfie d’addio.

Talvolta le vecchie bugie vengono promosse a verità.

Prospettive future: l’uomo senza terra o la terra senza l’uomo. Nel dubbio, non resta che andare al mare.

Se una formica avesse un giorno coscienza di sé, continuerebbe a essere una formica?

L’intelligenza è il più spaventoso dei vizi.

Soltanto morendo s’impara a vivere. 

***

NB: Per questioni meramente giuridiche (legate ai diritti editoriali dell’opera), non siamo purtroppo autorizzati a pubblicare in questa sede la copertina del libro. Vi invitiamo a cercare il volume nelle librerie o nelle biblioteche.

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Buon Natale!

La mattina di Natale, il commissario Maigret si alza e guarda dalla finestra.

Non nevicava. Era ridicolo restarci male, a cinquant’anni sonati, se mancava la neve una mattina di Natale: ma le persone d’una certa età non sono mai proprio così serie come si figurano i giovani.

Con la sua lenta placidità, con la sua gravità e la sua dolente umanità di uomo che ha visto tanto male, Maigret è ancora capace di sentimenti lievi, da ragazzino. Ma davvero il commissario e il fanciullo sono due entità distinte? Forse dietro la massiccia ragionevolezza del poliziotto cova un granello d’imprevedibilità, di apparente follia, ed è proprio questo ad acuire lo sguardo di Maigret.

Il cielo basso, di un color bianco sporco, sembrava gravare sui tetti. Boulevard Richard-Lenoir era completamente deserto, e la scritta «Magazzini Legal, Figli & C.», sopra la porta carraia dell’edificio di fronte, era di un nero come di lucido da scarpe. La M, Dio sa perché, aveva un’aria triste.

img_8748Maigret coglie la tristezza della lettera M: una tristezza senza ragioni apparenti, che non si può spiegare; ma ci sono percezioni che si conficcano nell’anima. Secondo me, è proprio questa apertura nei confronti del mondo a rendere memorabile il personaggio creato da Georges Simenon. Come scrive Gesualdo Bufalino, Maigret non abbocca alle esche inique dell’immaginazione, e nemmeno alle lusinghe a volte fallibili della ragione; ma si lascia impregnare naso e cappotto dagli odori decisivi del delitto. Del delitto, ma non solo; Maigret cammina lento e non trascura nessun dettaglio, con la sua pipa, i grandi fazzoletti, le scarpe campagnuole, da veterinario o curato, con cui batte il pavé color ferro di una Parigi di piogge e soli, da un bistrot a una portineria, per scale che stillano confessioni da tribunale, fra mura che nascondono grida e grovigli di vipere quiete.
Un uomo prevedibile, in fin dei conti: un bravo poliziotto che colpisce il delitto con tristezza, con dura pietà. Però la mattina di Natale Maigret non sa frenare un moto di delusione. Sembra una frase messa lì per delineare l’atmosfera del racconto; invece definisce soprattutto il personaggio: Maigret è un uomo capace di meraviglia. Nonostante l’età, nonostante le ferite e la stanchezza, ha ancora il coraggio di tenersi stretti i suoi desideri, anche quelli assurdi o puerili.

Mi pare un buon augurio per Natale: avere il coraggio di desiderare. Spesso la realtà ci viene raccontata come inesorabile, e tutto sembra tendere in una direzione ovvia, già prevedibile. Possiamo fare qualcosa? Certo, ma si tratta di limitare i danni. Invece no, anche in mezzo ai drammi (personali e collettivi), il desiderio ci mantiene vivi. Sarebbe bello non smarrire quella scintilla d’infanzia, quella capacità irrazionale di continuare ad aspettarsi la neve la mattina di Natale. Se saremo fortunati, arriverà almeno un po’ di nevischio. Magari non sempre, ma una volta o l’altra arriverà. Dal cielo cadeva come un pulviscolo bianco, e questo gli ricordò che da bambino cacciava fuori la lingua per acchiapparne qualche granello.
Maigret tiene aperti gli occhi dell’anima, oltre a quelli del corpo. È lo stesso invito che ci rivolge il sax di John Coltrane, nell’interpretazione di Soul Eyes, una canzone composta nel 1957 dal pianista Mal Waldron. La voce di Coltrane è precisa e insieme dolente, tenera senza essere sentimentale. Insieme a lui, Elvin Jones alla batteria, Jimmy Garrison al basso e McCoy Tyner al piano. Quest’ultimo, giocando con ritmi diversi, instilla una sottile inquietudine nella melodia.

PS: Visto che siamo in argomento: qualche giorno fa è uscito un mio racconto di Natale per il settimanale “Azione”. Ecco qui il link (e qui la versione in pdf).

PPS: Simenon scrisse Un Noël de Maigret fra il 17 e il 20 maggio 1950; poi lo inserì nell’omonima raccolta di racconti pubblicata nel 1951 dalle edizioni Presses de la Cité. In italiano, è stato tradotto da Marina Di Leo per Adelphi nel 2015. Le parole di Gesualdo Bufalino sono tratte dal suo Dizionario dei personaggi di romanzo (edizioni il Saggiatore 1982). La registrazione di Soul Eyes avvenne a Eglewood Cliffs, nel New Jersey, il 19 giugno 1962. Si trova nel disco Coltrane (Impulse 2008).

PPPS: Le due foto di Simenon sono tratte da Georges Simenon. Le patron, una pubblicazione a cura di Pierre Assouline uscita in allegato a “Le Monde” nell’ottobre 2014.

PPPPS: Questo articolo natalizio raddoppia il consueto appuntamento settimanale del blog. Mi perdonino gli iscritti alla newsletter: questa intrusione nella loro casella postale non diventerà un’abitudine…

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“Comu tieninu i palazzi?”

La primavera è come una bambina che impara l’equilibrio in bicicletta.
In un piazzale, con vasti alberi spogli intorno al grigio, eccola che prova a cercare stabilità. Si arrischia. Mezzo metro, poi ondeggia, un metro, un altro, quasi ce la fa.
IMG_0009Domenica ho portato le mie figlie in bicicletta, e mi sono reso conto che c’è qualcosa di feroce, in quel distacco. All’inizio la bambina sente le mani del padre sulle spalle: il mezzo meccanico avanza ma lei è tranquilla, ha un punto d’appoggio. Poi arriva il momento in cui è sola, pericolosamente sola, affidata a due strisce di gomma e al vorticare della catena. Pedala! L’ordine le arriva da dietro e lei protesta, vorrebbe di nuovo sentire il tocco rassicurante delle mani. Alla fine, naturalmente, la bambina va, come un miracolo di grazia equilibristica, e il padre resta indietro, con il suo passo trotterellante, rallenta, respira, cerca di ritrovare un po’ di compostezza.
Ho pensato che anche la primavera, anche la Pasqua hanno qualcosa a che vedere con l’arte dell’equilibrio. L’incertezza del tempo, la mutevolezza degli umori, quell’inquietudine che appartiene così intimamente al mese di aprile. È una stagione di fatica e rinascita. A volte per trovare l’equilibrio bisogna allontanarsi. Provate a tenere un bastone sospeso diritto sulla vostra mano: se guardate in basso, verso il punto d’appoggio, non riuscirete mai; ma se guardate verso l’alto, dopo un po’, arriverete a bilanciare il peso del bastone.
IMG_0021Per i cristiani, la croce su cui hanno appeso Gesù è un punto di rottura e di equilibrio allo stesso tempo: uno scandalo che sconvolge l’ordine del mondo e che promette un nuovo compimento. Ma al di là della religione, per tutti l’arrivo della primavera è un invito ad avere fiducia. Specialmente in questi giorni, funestati da notizie di morte, non bisogna scordare quanto sia miracoloso questo mutare della natura, questa prima riapparizione della vita. È il momento in cui diamo un’ultima spinta: abbiamo ancora un po’ di paura ma confidiamo nel prodigioso insieme di ragione, istinto, olio di catena e muscoli di bambina…
IMG_1411A proposito di equilibrio, mi ricordo un testo di Gesualdo Bufalino, scritto negli anni Settanta e pubblicato in Museo d’ombre (Sellerio 1982), nella sezione “Facce lontane”. L’autore evoca una serie di personaggi bizzarri del suo paese, fra cui Biagio Re, un uomo capace di stupirsi davanti al miracolo dell’equilibrio.
Alto, dinoccolato, con occhi piccini e opachi, persi dietro un pensiero che non mutava. Per anni non fece altro che chiedere a chiunque incontrasse: “Comu tieninu i palazzi?” (“Come fanno i palazzi a stare in piedi?”), turbato da questa poco credibile cosa: che solo essi durassero in piedi in un universo così visibilmente destinato a tremare, a spaccarsi, a scoscendere. Faceva di no col mento, deluso dalle spiegazioni, e andava a tastare e lisciare i mattoni delle facciate, scansandosi poi con un soprassalto improvviso. Una sera di festa lo vedemmo tra la folla, mentre guardava, trasecolato, a dieci metri dal suolo, un acrobata volteggiare in bicicletta lungo un invisibile filo sospeso.
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In questi giorni molte cose mi stanno girando per la mente: le mie figlie in bicicletta, le notizie di attentati sanguinosi, l’arrivo della primavera, la meraviglia di Biagio Re. Sono convinto che ci sia un legame e che questo legame, in fin dei conti, sia un segno di speranza. Insomma, siamo qui. In attesa. La mente è ancora sconvolta dalle urla, dalle immagini di morte che rimbalzano sui giornali. Spengo il computer, faccio scorrere la porta finestra. Ho bisogno di respirare. La Pasqua tace, avanza nelle crepe, e nella zona oscura del giardino i fili d’erba, lentamente, fanno un tentativo. Il mio auspicio è che tutti noi, come Biagio Re, sappiamo restare all’erta, attenti all’equilibrio nostro, del mondo, della primavera, di ogni cosa che si affaccia alla luce. Buona Pasqua!

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