Le cose necessarie

Mentre passeggiavo in una piccola città ho visto un biglietto sul marciapiede. Era lungo circa quattro per venti centimetri e conteneva un testo scritto a computer con un carattere minuscolo (forse Cambria dimensione 5). Era difficile da decifrare. La prima riga: «ecologia: stu t re k es Org:ess vi costcost da un complena di org vit». E qualche riga dopo: «flusso di ene=corrente/spostam di E da un punto ad un altro della catena». Dopo un po’ ho capito che era uno di quei foglietti sui quali gli studenti annotano ciò che devono imparare a memoria, con la speranza di sbirciare le informazioni durante le verifiche scritte. Dalle mie parti si chiamano “bigini”.

È un imbroglio, ma non si può negare che ci sia qualcosa di significativo nel costringere quanta più conoscenza nel minore spazio possibile. Inoltre, in un’epoca virtuale come la nostra, si tratta pur sempre di un buon vecchio bigino ritagliato a mano, su carta, come ai vecchi tempi. Chissà se il foglietto è stato smarrito prima o dopo la verifica. Immagino l’artefice del bigino seduto al suo banco, pronto a sfoderare la sua arma segreta. Cerca nella tasca… ma è vuota. Nella borsa? Nell’astuccio? Nel diario? Niente, il bigino non si trova. Tanta minuziosa fatica è andata sprecata… non resta che fare i conti con la propria memoria.
Questo ritrovamento mi ha fatto riflettere. Forse succede così anche a me? Tanti romanzi, racconti, saggi, segni neri sul bianco, anno dopo anno. Ma che cosa rimane? Prima o poi il tempo cancella ogni parola scritta, dal bigino al romanzo, dalla lirica d’amore alla lista della spesa. Può restare un frammento di emozione, il fantasma di un personaggio, lo straccio di un pensiero. Ma ogni memoria presto o tardi perde la presa.
Tutto passa.
Una banalità, certo.
Ma quando s’incide nella carne, nella quotidianità, è sempre un’esperienza nuova.
Comunque, è un giornata di sole. La cosa migliore sarebbe uscire, fare un giro in bicicletta, non lasciare che i pensieri si avvitino. Ma oggi ho una scusa: è il mio compleanno. Ci passiamo tutti, no? Dopo i cinque o sei anni di età, la percezione del tempo si fa sempre più acuta, e uno finisce per mettere nel calderone tutto quanto (i bigini, i romanzi, le giornate di sole).

Sarà poi vero che tutto passa? Certo: fra cento anni non ci sarà più traccia né di me né di voi che state leggendo queste righe. Ma c’è qualcosa, nel profondo della natura umana, come un bisbiglio, una voce fragile che sussurra: non è vero, non è così. Non vorrei parlare ora delle credenze personali: la fiducia nei figli, nella specie umana, nelle idee che fioriranno. Non vorrei nemmeno mettere a tema la fede in Dio e la speranza in un aldilà. Mi fermo molto prima. Da dove vengono le parole del bigino? Sono le cose indispensabili, quelle da sapere, lo stretto necessario. Da dove vengono le mie storie? Sono le stesse che i nostri progenitori raccontavano un milione di anni fa e che i nostri discendenti racconteranno fra un milione di anni, se ci saranno ancora esseri umani. La storia di un eroe che parte e scopre il mondo, la storia di uno straniero che arriva nel villaggio. È tutto qui. Ancora una volta, le cose necessarie. Ecco, io credo che se c’è qualcosa invece di niente, vuol dire che qualcosa è necessario. Altrimenti non ci sarebbe. E perdonatemi questi numeri da giocoliere (il giorno del proprio compleanno si manifesta con più intensità la tentazione di filosofeggiare).
Comunque, per dirla in maniera meno tortuosa, riconoscere le cose necessarie è forse l’esperienza più grande, l’insegnamento più saggio che una persona possa apprendere in tutta la vita. L’ironia è che in fondo, appena nati, abbiamo un’idea assai chiara delle cose necessarie, così come spesso, probabilmente, tendiamo ad averla durante la vecchiaia. È durante il cammino che perdiamo di vista l’essenziale. E forse, per allenarsi a riconoscere l’imprescindibile, può essere un esercizio utile anche compilare un bigino. E soprattutto perderlo. Ciò che rimane dopo lo smarrimento, dopo la malinconia, dopo i ragionamenti sul tempo e sulla morte. Ciò che rimane sono le cose necessarie.

PS: Il giorno del mio compleanno, di solito, condivido un racconto inedito con le lettrici e i lettori del blog. Quest’anno in realtà mi sembra di avere detto fin troppo. Ma per chi volesse ancora una storia, ecco un raccontino su Alessandro Magno, scritto nell’estate del 2021. (Ho già condiviso qui altri racconti sullo stesso personaggio: piano piano sto cercando di capirlo.)

Leggi Il mercante e il conquistatore

PPS: Per chi invece volesse andare oltre le parole, condivido il sax tenore di Sonny Rollins, accompagnato nel 1962 da Jim Hall alla chitarra, Bob Cranshaw al contrabbasso e Ben Riley alla batteria. Where are you è una vecchia canzone del 1937, scritta da Jimmy McHugh con le parole di Harold Adamson. È diventata uno standard del jazz e non solo, interpretata dai più grandi, da Frank Sinatra a Duke Ellington, da Dexter Gordon ad Aretha Franklin, da Ella Fitzgerald a Bob Dylan. «All life through must I go on pretending?», canta il sax di Rollins. Per tutta la vita devo continuare a fingere? «Where is my happy ending? Where are you?» Dov’è il mio lieto fine? Dove sei?

PPPS: La prima foto rappresenta il bigino. La seconda foto rappresenta una cosa necessaria (due, contando la scopa sullo sfondo).

PPPPS: Oggi un amico mi ha ricordato un verso di Giorgio Orelli: «”Il tempo passa. Tutto passa. Eccetera”.» (da “Una sorpresa sempre uguale spiuma”, v. 10, in Né bianco né viola, 1944). Mi sembra che si adegui alla circostanza.

PPPPPS: È una giornata di sole, lo so. Ora esco e faccio un giro in bicicletta.

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La mia ipoteca

Venni al mondo il 15 maggio del 1978, in un giorno piovoso proprio come oggi. Era il lunedì di Pentecoste. Mentre sono seduto alla scrivania, di fronte al computer, ascolto i suoni della pioggia: lo scroscio, il picchiettío, il risucchio della grondaia. Magari anche allora, nella mia culla, sentivo gli stessi suoni. Se chiudo gli occhi, se faccio astrazione dal mio corpo, dai miei pensieri pieni di rughe, posso ancora essere lui, cioè io. Posso diventare quell’Andrea intatto e fragile, quel minuscolo ammasso di ossa, carne e respiro.
Si dice che i bambini appena nati sentano soprattutto le frequenze acute, ma sono convinto che quel diluvio furibondo sia penetrato nel mio cervello, almeno in parte. Del resto, spesso nelle orecchie dei neonati resta del liquido amniotico: se non il rumore della pioggia, forse avrò udito l’eco di quel brodo primordiale, dentro il quale avevo abitato per nove mesi come creatura acquatica.
Non è possibile, naturalmente.
Non ascolto più la pioggia nello stesso modo. Infatti ora la chiamo “pioggia”: il nome precisa il fenomeno, lo circoscrive, lo inserisce in una struttura di pensiero. Quella prima esperienza ormai è persa per sempre: nel 1979 già ascoltavo la pioggia in un altro modo. E forse oggi l’ascolto in maniera differente rispetto a un anno fa, anche solo per il fatto di avere scritto queste righe.
A questo punto, ci sta una precisazione. Ho scritto queste righe perché è una tradizione del blog; così com’è tradizione che, insieme ai miei vaneggiamenti, vi appioppi anche un racconto. Eccolo.

Clicca qui per leggere “Sala d’aspetto”

Mi permetto ancora qualche vaneggiamento, approfittando dell’ora mattutina e del fatto che oggi mi sento vicino a quel neonato venuto con la pioggia. Forse è perché in questi giorni sto traslocando: una marea di caos torna a rimescolare le cose della quotidianità, fra scaffali vuoti, pile di scatole, cumuli di libri che si ergono come rovine di un castello. Presto la casa dove abito sarà un ricordo, e la prossima pioggia l’ascolterò dietro finestre che ora mi sono estranee. Ho l’impressione che il trasloco sia un fenomeno temporale più che geografico.
Trans-locare: spostare qualcosa da un luogo all’altro. Ma un anno della nostra vita in fondo non è altro che un luogo, con i suoi armadi, le sue credenze, i suoi cassetti chiusi a chiave, dal lucernario che illumina il solaio pieno di desideri giù fino alle cantine polverose, ai rimpianti, alle malinconie. Quando parliamo, spesso mescoliamo lo spaziotempo: «La prima settimana è quella dove ho fatto più fatica»; «Ci sono dei periodi dove ti sembra che tutto vada bene». Forse è giusto così, forse invecchiare significa caricare le proprie masserizie su un furgone e viaggiare verso un posto nuovo. A ogni trasloco lasciamo indietro qualcosa, ma nello stesso tempo ritroviamo oggetti smarriti: lettere legate con lo spago, fotografie, penne, coltellini, barattoli pieni di conchiglie, quaderni, maschere di carnevale. Una parte di noi vorrebbe indugiare. Un’altra parte s’impigrisce al pensiero di spostare mobili, vestiti, abitudini. Comunque non possiamo farci niente: la casa aspetta, gli anni passano, c’è un’ipoteca esistenziale da pagare.
Ecco, parliamo dell’ipoteca. Non ho deciso io di venire al mondo, di cominciare questa sequela di traslochi. Qualcuno ha pagato per me, quel mattino di maggio. Anno dopo anno, mentre il tempo mi consuma, cerco di pagare le rate del mutuo, gli ammortamenti, le spese accessorie. Su internet leggo che «stipulare un’ipoteca fissa significa vincolarsi a lungo termine, e quindi correre anche un grosso rischio». Capisco bene che sia così. Ma che ci posso fare? La vita è senz’altro «un grosso rischio». Sarà anche vero che  «i contraenti di un’ipoteca dovrebbero sempre leggere attentamente anche le postille riportate in piccolo sul contratto», ma io non ho firmato niente. Sono qui, in mezzo agli scatoloni, e rimugino su come si potrebbe trasportare il pianoforte giù dalle scale.
All’inizio ho scritto: «Venni al mondo il 15 maggio del 1978». In realtà, di primo acchito, avrei voluto scrivere: «Sono venuto al mondo», così per abbreviare la distanza. Ma ora leggo su Wikipedia che «l’estensione dell’ipoteca alle accessioni dell’immobile ipotecato […] finisce con il tradursi in garanzia ipotecaria, su cose future, non menzionate nell’iscrizione ipotecaria». Mi piace quell’accenno alle «cose future». Come tutti i fastidi, anche i traslochi e le ipoteche sono un’occasione per guardare avanti. Così mi viene in mente che forse mi sto sbagliando: non dovevo dire «venni» e nemmeno «sono venuto al mondo». Questa è la frase che mi sembra più corretta: «Verrò al mondo il 15 maggio del 1978».

PS: Scrissi il racconto Sala d’aspetto un pomeriggio d’estate del 2013, in una casa di montagna. Esso vene poi pubblicato sul settimanale “Extra”, allegato al “Corriere del Ticino”. Un paio di mesi prima, mentre aspettavo per una visita di controllo dall’oculista, avevo annotato sul taccuino qualche dettaglio a proposito delle persone che vedevo intorno a me, senza accorgermi che stavo annotando cose su me stesso.

PPS: Alle lettrici e ai lettori fedeli (cioè a chi ha resistito leggendo tutto fino a questo PPS) sono lieto di annunciare che il 9 luglio 2020 uscirà per l’editore Guanda una mia raccolta di racconti brevi: Il commissario e la badante.

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Festa danzante

Una notizia di cronaca spicciola: è tornato in libreria il romanzo L’arte del fallimento (Guanda 2016), stampato dall’editore TEA in formato tascabile. Un’altra notizia, ancora più spicciola: oggi compio quarant’anni. Non so perché, le due novità s’incrociano nella mia mente. Ma è una sovrapposizione pericolosa.
L’arte del quarantesimo.
Fallire un compleanno.
Quarant’anni di fallimenti.
I titoli ronzano come zanzare. Per distrarmi, sfoglio il romanzo. Rivedo con piacere quel piccolo refuso che ha resistito per tutte le fasi della revisione, superando indenne le varie bozze e ristampe e, a quanto pare, anche l’edizione tascabile. In fondo è giusto così: L’arte del fallimento non sarebbe la stessa senza errori di stampa. Ma non voglio rivelare niente: i refusi vanno scovati in solitudine.
Gli occhi mi cadono su un paragrafo in cui, alle prese con i suoi fantasmi, Elia Contini se ne va a camminare nei boschi. Non è un esercizio fisico, quanto un modo per accedere alla parte misteriosa dell’esistenza. Le volpi di Corvesco sono un segnale che viene dal profondo, dall’invisibile. Non c’è bisogno d’incontrarle. Basta cercarne le tracce, avvertirne l’indecifrabile prossimità.

C’era un sentimento che lo teneva legato. Poteva riconoscerlo in un lungo silenzio, o nei fari di un’auto che saliva dal fondovalle. Il bosco pareva soffocante, perfino minaccioso. L’unica salvezza era prendere la macchina fotografica e camminare. Lungo le piste appena distinguibili, a pochi passi da un ruscello o da un dirupo, non c’erano più pensieri, soltanto azioni, e c’erano volpi nell’oscurità, presenze ignote ma vicine.

La figura del camminatore solitario mi fa pensare a una poesia che lessi per la prima volta a diciassette o diciotto anni. È di Mario Luzi e risale al 1954. S’intitola: Nell’imminenza dei quarant’anni. Ricordo il senso d’immedesimazione suscitato dai primi versi: Il pensiero m’insegue in questo borgo / cupo ove corre un vento d’altipiano / e il tuffo del rondone taglia il filo / sottile in lontananza dei monti. Un uomo che cammina nel paesaggio deserto. Un individuo che, a me, pareva già quasi anziano: Si sollevano gli anni alle mie spalle / a sciami. Immaginavo quei quarant’anni d’ansia, / d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide / com’è rapida a marzo la ventata / che sparge luce e pioggia. Leggevo: L’albero di dolore scuote i rami… Pensavo: chissà che cosa vuol dire trovarsi a quello snodo, scorgere l’ombra del proprio passato.
Be’, adesso ci sono.
Nulla m’impedisce di rifare lo stesso gioco. Prendo l’ultimo libro pubblicato in vita da Luzi, a novant’anni. S’intitola: Dottrina dell’estremo principiante (Garzanti 2004). Leggo: Bellezza, lo sentiamo / che sei al mondo. / Qualche transitiva forma / ci illudiamo ti sorprenda. / Da qualche raro volto / ci fulmini e ci incanti. Penso: chissà che cosa vuol dire trovarsi a quel punto estremo, guardare indietro e poi ancora intorno a sé, cercando sempre la bellezza.
A proposito di novantenni. Ieri sera, tornando a casa in macchina sotto la pioggia, stavo ascoltando l’ultimo disco del pianista francese Martial Solal. S’intitola My one and only love (Intuition 2018). È  un concerto per piano solo, registrato live il 17 novembre 2017. Solal aveva compiuto novant’anni qualche mese prima. Secondo il critico Franck Bergerot si tratta di uno dei migliori dischi della carriera di Solal, «un musicista che non ha mai cessato di progredire verso l’essenziale». Un esempio è Sir Jack, sviluppato a partire dal brano tradizionale Brother John (in italiano Fra Martino). Mi ha colpito la leggerezza del tocco, la fantasia, la sapienza del grande improvvisatore che non ha perso la capacità di giocare e meravigliarsi.

Ero già arrivato a casa. Mi sono fermato nel parcheggio e ho aspettato che finisse il brano, con l’accompagnamento della pioggia che batteva sui vetri.

PS: Per l’occasione, voglio invitare le lettrici e i lettori di questo blog a una festa danzante nel villaggio di Saint-Rigomer-des-Bois.

Festa danzante

È un piccolo momento fuori dal tempo, un breve racconto inedito senza volpi, ma con un bar dov’è piacevole bere un boccale di birra.

PPS: La lirica Nell’imminenza dei quarant’anni è tratta da Onore del vero (Neri Pozza 1956), confluita poi nel volume L’opera poetica (Mondadori 1998). Ecco il testo completo delle due poesie: Nell’imminenza dei quarant’anni e Bellezza, lo sentiamo.

PPPS: La citazione di Bergerot proviene dal numero 704 di Jazz magazine (aprile 2018). L’audio con la musica di Solal non è limpido, ma restituisce l’esperienza sonora. Automobile, pioggia, pianoforte. Ascoltare un pianista novantenne che improvvisa su Fra Martino: ci sono modi peggiori per festeggiare un compleanno.

PPPPS: L’altopiano nella foto sopra non è quello di Viterbo, dove camminava Mario Luzi nel ’54, ma quello della Greina, nella parte alta del Canton Ticino. Anche lassù il tuffo del Gypaetus barbatus, in mancanza di rondoni, taglia il filo / sottile in lontananza dei monti.

PPPPPS: Non so se qualcuno sia arrivato fino al quinto post scriptum. Ma se vi restasse ancora tempo, e se ancora non l’aveste guardato, vi ripropongo il video sul romanzo L’arte del fallimento, realizzato da Alessandro Tomarchio con il sax di Alan Rusconi. Qui non si vede nessun tipo di altopiano, ma semplicemente il piano di Magadino, come una pianura padana in formato tascabile fra le montagne.

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La parola “cielo”

IMG_9950Nessuno che conosca il cuore segreto dell’orologio, scrive Elias Canetti. E nessuno conosce la data in cui finalmente l’acqua sgorgherà dalla fontana nell’anonima piazzetta circolare tra via Raggi e via Borromini a Bellinzona (dietro la fermata del bus Semine). È un luogo non distante da casa mia; quest’anno ho deciso di fermarmi una volta al mese per almeno mezz’ora su una delle panchine ai bordi della piazza (trovate qui e qui le prime puntate della serie). Mi siedo con un libro e con un taccuino, guardo, ascolto, cerco di captare il passaggio del tempo. È una zona di transito, un frammento di umanità alla periferia di un piccolo borgo; ma potrebbe diventare come un mandala, uno specchio che rifletta una realtà più grande. Certo, non è facile osservare con attenzione. Oggi mi ha dato una mano Elias Canetti, con gli appunti annotati fra il 1972 e il 1985 e raccolti nel volume Das Geheimherz der Uhr (Il cuore segreto dell’orologio, Adelphi 1987).
IMG_9949Ciò che si è visto una sola volta non esiste ancora. Ciò che si è sempre visto non esiste più. Forse il metodo, interpretando questa frase di Canetti, è vedere come se fosse la prima volta e poi tornare a rivedere, a misurare il cambiamento. In gennaio nessuno ne parlava ancora, e nemmeno in febbraio; ma stavolta i pensionati in fila sulla panchina mettono a tema l’argomento: quando si deciderà il Comune ad avviare la fontana? (Uno di loro, comunque, ci tiene a precisare che lui preferisce la birra). Alcuni ragazzi aspettano l’autobus, la strada vicina è percorsa dalle automobili. Da un finestrino aperto esce una canzone ad alto volume: Un sacco di gente là fuori sogna cose che non esistono, e ha aspettative altissime da cui… e la voce del rapper sfuma tra i motori. Sulla panchina di fianco a me si siede una signora di mezza età con un cagnolino al guinzaglio. Ci salutiamo. Lei mi domanda se mi piacciano i cani. Devi prenderne uno, mi dice, tengono compagnia. Mi spiega che la sua cagnolina ha già diciassette anni, ma è ancora in forma. Come si chiama? le domando. Maddalena, mi risponde, ma per fare prima la chiamo Aisha.
IMG_9960Mentre medito su queste parole, noto che c’è fermento tra i signori della panchina alla mia destra: uno di loro sta mostrando un video sul cellulare. Vorrei chiedergli di che si tratta, ma non oso, anche perché nel frattempo, a sinistra, altri due signori stanno discutendo di una faccenda spinosa. Lui me lo disse a me che non era cosa da fare!, esclama il più vecchio, con accento siciliano. L’altro bofonchia parole che non capisco, mentre il vento scuote le bandiere, i cespugli, i capelli dei pensionati, le pagine del taccuino.
IMG_9952Arriva un tizio massiccio, in bicicletta. Assicura il veicolo con un lucchetto gigantesco, che potrebbe incatenare un’automobile, precisando che in città c’è una banda di ladri, ma che lui certo non si fa fregare. In mano ha una lattina di birra, e sembra avere idee limpide su molte cose; per esempio, il numero di amici che un uomo deve avere nella vita. Al massimo tre, confida alla mia vicina. Tre amici è già tanto. Gli altri sembrano amici, ma sono sconosciuti. Un uomo magro si aggiunge al nostro gruppo, lamentandosi dei giovani manovali che lavorano con lui sui cantieri. Qui in Svizzera se un uomo ha trent’anni è ancora un bambino, borbotta con un lieve accento straniero. Al mio paese, avevo venti anni ed ero un uomo. Salta poi fuori che, fra le varie professioni, è anche meccanico di biciclette. La signora con la cagnolina gli chiede se può gonfiarle le gomme della bici. Lui promette che lo farà e spiega di avere studiato un po’ di tutto: Sono medico, giardiniere, muratore, ginecologo, so fare molte cose, questo è il mio lavoro. Poi si lamenta che in Svizzera ci sono troppe tasse: Qua devi pagare anche quello che camminiamo! L’uomo con la lattina di birra annuisce e sorride, come se si fosse appena ricordato di una cosa divertente.
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I vecchietti nel frattempo tengono d’occhio i passanti. Di ognuno conoscono il lavoro, la situazione famigliare, perfino gli orari di arrivo nella piazzetta (Ah, guarda chi c’è! Sì, ma oggi è in ritardo…). Il sole va e viene dietro le nuvole, mentre un ragazzo racconta a un amico che la sera prima hanno fatto una cena tra amici, divorando trenta chili di costine. Passa una famiglia con il passeggino, una coppia molto anziana con le scarpe da ginnastica nuove, una bambina su una bicicletta rosa. La bambina, con le sue evoluzioni intorno alla fontana, suscita l’approvazione dei pensionati. Ma guarda come pedali bene! E che bella bicicletta che ci hai! Il sole si fa più basso e tagliente, quanto basta perché la mia vicina indossi un paio di occhiali scuri, prima di versare un po’ d’acqua in una ciotola per il cane.
IMG_9953Leggo un fulmineo racconto di Elias Canetti: Egli parla rivolgendosi al sole, e la bambina ascolta. Adesso parla la bambina, e lui ode il sole. Mi sembra una bella storia, anche se non l’ho capita (ma ci sono storie che è bello non capire). Muovo lo sguardo dalla bimba in bicicletta verso il sole, mentre la mia vicina spiega all’uomo con la birra che per lei tre amici sono anche troppi. Io sto con Aisha, dice. Accarezza la bestiola. È lei la mia amica. Uno dei vecchietti tossisce, un altro dice che quest’anno la primavera arriva presto, un terzo domanda quando apriranno la fontana. Ho la sensazione che il tempo proceda per strappi minuscoli, per impercettibili scosse di assestamento. Uno potrebbe passare qui il pomeriggio e alla fine avrebbe l’impressione di non aver visto niente, di aver sentito sempre le stesse parole. Invece il paesaggio è più meraviglioso e terrificante del Grand Canyon o delle nevi dell’Himalaya: intorno a questa fontana spenta si sta mostrando semplicemente la vita nella sua profonda quotidianità, la vita fedele e implacabile, nella sua straziante normalità.
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Girano le nuvole sopra i palazzi, si allungano le ombre, il traffico scorre incessante sulla strada, dove ogni tanto si ferma un autobus. Un signore in giacca e cravatta si sposta e cambia panchina, per mettersi al sole. La bambina con la bicicletta rosa fa un ultimo giro e se ne va. Guarda che cielo, dice l’uomo con la lattina di birra. È sicuro, domani piove! Ma no che devo lavorare, gli risponde il meccanico-medico-muratore-giardiniere. Maddalena, detta Aisha, agita la coda implorando un biscotto. Il signore al sole distende le gambe e allenta il nodo della cravatta. Io leggo il mio libro. Anche dopo tutto quello che è già piovuto di lassù, egli non rinuncia alla parola “cielo”. Arriva una ragazza vestita di nero e saluta il giovane mangiatore di costine. Ma quando l’apriranno questa fontana? gli domanda. Chi lo sa, interviene l’uomo con la birra, chi lo sa.

PS: Abbiamo bisogno di luoghi che siano uno specchio per le nostre riflessioni. Luoghi che ci allontanino dalla vita che stiamo facendo, luoghi per fermare la nostra fretta e aspettare l’anima (Tonino Guerra). Questa bella osservazione si trova in epigrafe a un racconto dello scrittore Silvano Calzini: è una storia delicata e profonda, che parla di un uomo innamorato delle panchine. Ecco qui il racconto, messo gentilmente a disposizione dall’autore. Di Calzini segnalo anche il recente Figurine e le raccolte di fulminei racconti brevi intitolate graziosamente Nani da leggere.

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Winter moon

Qualche giorno fa è venuta un’amica a cena e ha portato un po’ di alghe in una bottiglia di plastica. Aveva con sé anche roba più commestibile – cioccolatini, vino bianco – ma io mi sono sentito subito attratto dalle alghe. Non erano da mangiare, non avevano proprietà curative e in generale non sembravano un granché: la bottiglia di PET lasciava intravedere filamenti verdi, giallastri o bruni. Ma nella loro banalità, emanavano un richiamo misterioso. Mentre ero intento nella contemplazione, mi hanno spiegato che quella minuscola cosa verde era una delle specie viventi più antiche del nostro pianeta.
image1-2 copia 4Un po’ come le felci, ho detto io. O come le lucertole, ha detto qualcun altro. No, no – ha spiegato la persona che aveva portato l’alga – questa è molto più vecchia. Ha circa 400 milioni di anni. Mi sono girato verso la mia amica. Sei sicura? Ha annuito. Era sicura, anno più anno meno. Allora ho guardato di nuovo la bottiglia. Mi sentivo quasi in soggezione. Si chiama Isoetes velata, ha aggiunto l’amica. Varietà sicula. L’alga, nel frattempo, se ne stava assorta nei suoi pensieri.
Abbiamo bevuto un aperitivo, abbiamo parlato, abbiamo mangiato una pizza. E intanto la piccola alga, matriarca di noi esseri viventi, approdata dal mare sconfinato dell’era paleozoica fino a una bottiglietta di PET riciclabile, se ne stava placida nell’acqua. Proprio come ha fatto per milioni di anni, mentre intorno a lei si frantumavano continenti, si sprigionavano vapori, ruotavano senza fine vaste correnti oceaniche, nascevano spugne, scorpioni, vermi, animali con cinque occhi, coralli e muschi e meduse e lunghi tenaci millepiedi e pesci con le pinne che annaspavano sul fango delle rive. La piccola alga era già vecchia nel periodo Triassico, aveva già visto tutto quando il mondo si stupiva per l’apparizione dei protorotirididi nel Carbonifero. Figuriamoci poi il Giurassico e il Cretaceo, figuriamoci le angiosperme con i loro fiori, ah, la bellezza dei fiori. Il gusto della pizza. I primi primati. Gli australopitechi. La bicicletta. Quel brutto ceffo dell’Homo abilis. L’arco e le frecce. Il tubo di scappamento, le sciarpe, i romanzi a puntate. Il coltellino svizzero. Internet, sì, nella seconda epoca del Quaternario è comparso anche internet. Ma prima ancora, è saltato fuori il polietilene tereftalato. E nel 1973 Nathaniel Wyeth ha inventato le bottiglie di PET.
image1-2A questo punto le vie della Isoetes e della bottiglia si sono incrociate, come succede in tutte le storie. E qualche ora dopo sono arrivato anch’io. Naturalmente, la Isoetes è una remota discendente delle sue antenate che popolavano i mari primordiali, ma è riuscita a invecchiare senza troppi cambiamenti. Ecco quindi un modo poco dispendioso per viaggiare nel tempo: mettersi davanti alla Isoetes velata (varietà sicula), fissare lo sguardo, cancellare tutto il resto – la pizza, la casa, la luce elettrica – e immaginare che quello stesso piccolo filamento avremmo potuto incrociarlo 400 milioni di anni fa, così come lo stiamo vedendo ora.
IMG_9781Lo studioso Renato Giovannoli precisa che l’ammissione della possibilità di un viaggio a ritroso nel tempo, nella scienza o nella fantascienza, avrebbe conseguenze devastanti sul piano cosmologico, e per lo stesso “tessuto logico” della realtà. Da sempre gli scienziati e gli scrittori si trovano alle prese con paradossi insormontabili; Giovannoli li analizza meticolosamente fino a intravedere una soluzione nella pluralità dei mondi. Ma si può tentare anche la strada dell’empatia e dell’immedesimazione. Il viaggio nel tempo non è reale? Certo, così parrebbe, ma chi dice che per qualche secondo, per un’infinitesima frazione di secondo, i miei occhi non abbiano scrutato davvero nelle profondità del Paleozoico?
70a3e084f90e85938540b60de2f51840Non c’è nemmeno bisogno di un’alga preistorica, basta una notte serena. Di recente mi è capitato di guidare la notte e di avvistare, sospesa sulle montagne, una falce di luna immensa, limpida e luminosa, come se fosse a pochi metri dalla terra. In questi casi, a volte, parcheggio la macchina e muovo qualche passo fuori dal ciglio della strada, inoltrandomi nei campi o nei boschi. Quando non vedo più tracce della civiltà contemporanea, mi fermo. Intorno a me ci sono arbusti, un masso di pietra, i rami spogli di un faggio. Allora, alzando gli occhi al cielo, guardo la luna.
In questo momento, che differenza c’è tra me e un mio antenato del XIX secolo? Che cosa mi distingue da un uomo del medioevo? La situazione – immobile, ai margini di un bosco, la luna sopra la testa – mi rende contemporaneo di Giulio Cesare, di Napoleone Bonaparte, di un contadino cinese dell’anno mille.
La luna ci accompagna fin dall’inizio. Passano le epoche, cambiano i popoli e la tecnologia, ma il gesto di alzare gli occhi ci lega inestricabilmente ai nostri progenitori. Siamo certi che davvero, per un secondo, non si crei un cortocircuito, una sovrapposizione di universi, siamo certi che per un istante io non possa trovarmi davvero in un’altra epoca? E se tornassi verso la strada e incontrassi solo una mulattiera? E se nessuno sapesse più niente delle automobili e dei computer?

La fantasticheria dura per un minuto, poi mi rendo conto che sono sempre io, soltanto io, Andrea Fazioli, con tutta la mia inevitabile andreafaziolitudine, e che questa è ineluttabilmente una sera di marzo del 2017. Aveva ragione Eraclito l’Oscuro, quando nel 500 avanti Cristo ammoniva: Non scenderai due volte nello stesso fiume. La nostra umanità ci vincola al tempo, siamo inchiodati alla nostra identità, al qui e ora di questa epoca, e sentiamo il tempo che lentamente muta e consuma tutto ciò che conosciamo, compresi noi stessi. Nemmeno la luna è più la stessa luna che guardavano Giulio Cesare o il contadino cinese dell’anno mille. Così dice Borges in una breve lirica: C’è tanta solitudine in quell’oro. / La luna delle notti non è la luna / che vide il primo Adamo. I lunghi secoli / della veglia umana l’hanno colmata / di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio. Lassù non ci sono mondi fantastici, ampolle di senno perduto o conigli giganti, ma ci siamo noi, le nostre sofferenze, le speranze che nei millenni si sono accese in ogni singolo uomo e in ogni singola donna che almeno per un istante, nel corso di una vita, abbia alzato gli occhi verso la luna. Guardiamola. È il nostro specchio.
image1-2 copia 3Nonostante le catene del qui e ora, è forte nell’uomo la tentazione di correre più in fretta del tempo, o di fermarlo per poterlo assaporare. Perciò sono nate mille storie di fantascienza, mille sogni paradossali. È così fin dal Big Bang, quando l’universo è sbucato dal nulla ed è subito caduto nel tempo, è così fin dall’attimo del nostro concepimento, che è come un big bang personale. Tuttavia, possiamo incontrare una distorsione del tempo quando meno ce l’aspettiamo. A me è successo tre volte in questi giorni: prima con l’alga preistorica, poi con la luna invernale sulle montagne e infine – insospettabilmente – facendo la spesa. Infatti anche alla luce artificiale di un grande magazzino potete vivere un’esperienza di crono-distorsione. Basta che all’improvviso, nel settore dei dolci, vi troviate davanti una fila di panettoni, un mucchio di frittelle di Carnevale e un coniglio di cioccolato che vi scruta con i suoi occhietti folli. Allora di sicuro vi fermerete. Natale, Carnevale, Pasqua. Con un soprassalto interiore, vi chiederete: ma che giorno è? Basta poco. Pochissimo. E state già viaggiando nel tempo.

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PS: Il brano Winter moon venne inciso dal saxofonista Art Pepper nel 1980 per l’album omonimo, pubblicato dalla Galaxy nel 1981. Pepper, nato nel 1925, sarebbe morto l’anno successivo. Aveva sempre desiderato suonare con un’orchestra di archi, e fu lieto di poterlo fare in un periodo tranquillo della sua carriera: negli ultimi anni, pur segnato dalle ferite della droga, del carcere e dell’internamento terapeutico, era tornato a lavorare con una certa serenità. Il suo suono è sempre elegante, con un rintocco doloroso. Le note lunghe dei violini tratteggiano l’oscurità del cielo invernale; le vibrazioni del basso costruiscono la struttura su cui, come un fantasma lirico, si arrampica il contralto di Pepper, su, su, fino a disegnare il contorno della luna. Insieme a lui Stanley Cowell (piano), Howard Roberts (chitarra), Cecil McBee (contrabbasso), Carl Burnett (batteria) e gli archi diretti da Bill Holman, che è pure l’arrangiatore del brano, composto da Hoagy Carmichael negli anni Cinquanta.

PPS: A chi ama la fantascienza consiglio caldamente la lettura dell’opera di Renato Giovannoli, intitolata La scienza della fantascienza e pubblicata in edizione riveduta e aggiornata da Bompiani nel 2015 (la prima edizione risale al 1991). Ho citato anche il frammento 91a di Eraclito (lo trovate in I frammenti, Marcos y Marcos 1989) e la lirica La luna di Jorge Luis Borges, tratta da La moneda de hierro, una raccolta del 1976 (in Tutte le opere, Mondadori 1985). Ecco il testo originale: Hay tanta soledad en ese oro. / La luna de las noches no es la luna / que vio el primer Adam. Los largos siglos / de la vigilia humana la han colmado / de antiguo llanto. Mirala. Es tu espejo.
Il dipinto è di René Magritte: Le maître d’école (1954).

PPPS: Grazie ad Alice per l’Isoetes velata (varietà sicula).

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