Le cose necessarie

Mentre passeggiavo in una piccola città ho visto un biglietto sul marciapiede. Era lungo circa quattro per venti centimetri e conteneva un testo scritto a computer con un carattere minuscolo (forse Cambria dimensione 5). Era difficile da decifrare. La prima riga: «ecologia: stu t re k es Org:ess vi costcost da un complena di org vit». E qualche riga dopo: «flusso di ene=corrente/spostam di E da un punto ad un altro della catena». Dopo un po’ ho capito che era uno di quei foglietti sui quali gli studenti annotano ciò che devono imparare a memoria, con la speranza di sbirciare le informazioni durante le verifiche scritte. Dalle mie parti si chiamano “bigini”.

È un imbroglio, ma non si può negare che ci sia qualcosa di significativo nel costringere quanta più conoscenza nel minore spazio possibile. Inoltre, in un’epoca virtuale come la nostra, si tratta pur sempre di un buon vecchio bigino ritagliato a mano, su carta, come ai vecchi tempi. Chissà se il foglietto è stato smarrito prima o dopo la verifica. Immagino l’artefice del bigino seduto al suo banco, pronto a sfoderare la sua arma segreta. Cerca nella tasca… ma è vuota. Nella borsa? Nell’astuccio? Nel diario? Niente, il bigino non si trova. Tanta minuziosa fatica è andata sprecata… non resta che fare i conti con la propria memoria.
Questo ritrovamento mi ha fatto riflettere. Forse succede così anche a me? Tanti romanzi, racconti, saggi, segni neri sul bianco, anno dopo anno. Ma che cosa rimane? Prima o poi il tempo cancella ogni parola scritta, dal bigino al romanzo, dalla lirica d’amore alla lista della spesa. Può restare un frammento di emozione, il fantasma di un personaggio, lo straccio di un pensiero. Ma ogni memoria presto o tardi perde la presa.
Tutto passa.
Una banalità, certo.
Ma quando s’incide nella carne, nella quotidianità, è sempre un’esperienza nuova.
Comunque, è un giornata di sole. La cosa migliore sarebbe uscire, fare un giro in bicicletta, non lasciare che i pensieri si avvitino. Ma oggi ho una scusa: è il mio compleanno. Ci passiamo tutti, no? Dopo i cinque o sei anni di età, la percezione del tempo si fa sempre più acuta, e uno finisce per mettere nel calderone tutto quanto (i bigini, i romanzi, le giornate di sole).

Sarà poi vero che tutto passa? Certo: fra cento anni non ci sarà più traccia né di me né di voi che state leggendo queste righe. Ma c’è qualcosa, nel profondo della natura umana, come un bisbiglio, una voce fragile che sussurra: non è vero, non è così. Non vorrei parlare ora delle credenze personali: la fiducia nei figli, nella specie umana, nelle idee che fioriranno. Non vorrei nemmeno mettere a tema la fede in Dio e la speranza in un aldilà. Mi fermo molto prima. Da dove vengono le parole del bigino? Sono le cose indispensabili, quelle da sapere, lo stretto necessario. Da dove vengono le mie storie? Sono le stesse che i nostri progenitori raccontavano un milione di anni fa e che i nostri discendenti racconteranno fra un milione di anni, se ci saranno ancora esseri umani. La storia di un eroe che parte e scopre il mondo, la storia di uno straniero che arriva nel villaggio. È tutto qui. Ancora una volta, le cose necessarie. Ecco, io credo che se c’è qualcosa invece di niente, vuol dire che qualcosa è necessario. Altrimenti non ci sarebbe. E perdonatemi questi numeri da giocoliere (il giorno del proprio compleanno si manifesta con più intensità la tentazione di filosofeggiare).
Comunque, per dirla in maniera meno tortuosa, riconoscere le cose necessarie è forse l’esperienza più grande, l’insegnamento più saggio che una persona possa apprendere in tutta la vita. L’ironia è che in fondo, appena nati, abbiamo un’idea assai chiara delle cose necessarie, così come spesso, probabilmente, tendiamo ad averla durante la vecchiaia. È durante il cammino che perdiamo di vista l’essenziale. E forse, per allenarsi a riconoscere l’imprescindibile, può essere un esercizio utile anche compilare un bigino. E soprattutto perderlo. Ciò che rimane dopo lo smarrimento, dopo la malinconia, dopo i ragionamenti sul tempo e sulla morte. Ciò che rimane sono le cose necessarie.

PS: Il giorno del mio compleanno, di solito, condivido un racconto inedito con le lettrici e i lettori del blog. Quest’anno in realtà mi sembra di avere detto fin troppo. Ma per chi volesse ancora una storia, ecco un raccontino su Alessandro Magno, scritto nell’estate del 2021. (Ho già condiviso qui altri racconti sullo stesso personaggio: piano piano sto cercando di capirlo.)

Leggi Il mercante e il conquistatore

PPS: Per chi invece volesse andare oltre le parole, condivido il sax tenore di Sonny Rollins, accompagnato nel 1962 da Jim Hall alla chitarra, Bob Cranshaw al contrabbasso e Ben Riley alla batteria. Where are you è una vecchia canzone del 1937, scritta da Jimmy McHugh con le parole di Harold Adamson. È diventata uno standard del jazz e non solo, interpretata dai più grandi, da Frank Sinatra a Duke Ellington, da Dexter Gordon ad Aretha Franklin, da Ella Fitzgerald a Bob Dylan. «All life through must I go on pretending?», canta il sax di Rollins. Per tutta la vita devo continuare a fingere? «Where is my happy ending? Where are you?» Dov’è il mio lieto fine? Dove sei?

PPPS: La prima foto rappresenta il bigino. La seconda foto rappresenta una cosa necessaria (due, contando la scopa sullo sfondo).

PPPPS: Oggi un amico mi ha ricordato un verso di Giorgio Orelli: «”Il tempo passa. Tutto passa. Eccetera”.» (da “Una sorpresa sempre uguale spiuma”, v. 10, in Né bianco né viola, 1944). Mi sembra che si adegui alla circostanza.

PPPPPS: È una giornata di sole, lo so. Ora esco e faccio un giro in bicicletta.

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Amores nuevos

LIBRI IMPOSSIBILI (MARZO)
#libriimpossibili2021 è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Ronald De Pisis, Brillantina, Franco Ceschi Editore, 2020, 73 pagine

Quarta di copertina
«Da più di quarant’anni Ronald De Pisis raccoglie i suoi aforismi in grandi quaderni con la copertina nera. Diventati quasi un oggetto di culto fra i pochi fortunati cui era concesso leggerli, ora gli aforismi sono finalmente stampati nero su bianco. De Pisis ha distillato pazientemente il meglio di decenni di studi e osservazioni della natura umana: frasi brevi, intuizioni, appunti che sembrano esistere da sempre e che invece nessuno aveva mai pensato prima. Sospeso fra malinconia e saggezza, passione e disincanto, lo stile di De Pisis non manca mai di precisione e ironia. Il Maestro era solito dire agli amici e agli estimatori che “pubblicare un libro prima dei sessant’anni è un gesto di temeraria incoscienza”. Ora, passati i sessanta, De Pisis ha finalmente aperto lo scrigno dei suoi tesori».

Prefazione dell’autore
«A sessant’anni, durante un viaggio in Andalusia, vidi una pianta dal nome soave: amores nuevos. Mi ricordai che la stessa cresceva pure da noi, nei campi verso il mare. Da bambino la chiamavo “erba brillantina” e pensavo che fosse incantata. Poi da ragazzo cercai a lungo amores nuevos nelle balere di periferia. Indossavo il completo a righine, le scarpe lucide, e mi tiravo indietro i capelli con la brillantina, sempre pensando che quella roba fosse un incantesimo. Qualche giorno fa, compiuti i sessantasei anni, mi ha preso il desiderio di scrivere un libro: il tempo ormai è maturo, forse anche troppo. Non so ancora se intitolarlo “Brillantina” o “Amores nuevos”: deciderò all’ultimo, come sempre. Sulla copertina andrà la foto della pianta, con didascalia in latino: briza minor, giacché un po’ di latinorum aiuta a creare l’atmosfera. Ma non aspettatevi incantesimi; tuttalpiù, come i vecchi prestidigitatori, farò sparire un foulard e due monetine».

Ronald “Ronnie” De Pisis nasce il 5 aprile del 1955 a New York da madre americana e padre napoletano. All’età di quattro anni rientra in Italia con la famiglia: prima in Lombardia, a Limone sul Garda, per un periodo di tre anni, poi definitivamente a Napoli. Dopo gli studi in lettere all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e un’esperienza in Inghilterra, all’Università di Reading, dove difende una tesi di dottorato su H.P. Lovecraft, De Pisis torna a Napoli e fino alla pensione lavora come insegnante di francese e inglese in un liceo cittadino. Nel 1997 vince il Premio di Montesarchio con il saggio L’occhio del ciclone. Tre casi di weird fiction (I Quaderni di Fantascienza, 1996). Brillantina è il suo primo libro di aforismi.

Tre domande all’autore

YB+AF:Ronald De Pisis, dopo aver pubblicato diversi saggi durante la sua carriera di ricercatore e insegnante, oggi – all’età di 66 anni – ha deciso di condividere i suoi aforismi. Perché questa scelta e quali sono le caratteristiche che più le stanno a cuore della scrittura per aforismi?
RDP: Vi risponderò con una osservazione di Gesualdo Bufalino, lui pure approdato alla pubblicazione in tarda età: «Anche quando le parole sembrano più volarmi sotto la penna, sento che hanno, ciascuna, un grammo di piombo nell’ala». Ho trascorso anni a spiombarmi le ali: una pagina ridotta a un paragrafo sublimato in una riga. Nel frattempo mi toccava l’incombenza di vivere, medicata dalla possibilità di leggere. Come diceva lo stesso Bufalino, anch’io mi commuovo per tutto ciò che è scritto, dalla Bibbia all’elenco telefonico. (Anzi, la rapida sparizione degli elenchi telefonici è un cruccio della mia tarda età.) Vivendo, dunque, scrivevo, quasi per distrazione. La saggistica era un obolo che pagavo al mio senso dell’avventura: è meno costoso scrivere una dissertazione su un madrigale del Tasso che partire per un viaggio nella foresta amazzonica; ma entrambe sono attività colme di pericoli. Vengo al sodo: degli aforismi amo l’eleganza un po’ sfacciata, l’ambizione di racchiudere in sé molte pagine non scritte. Un aforisma – o un aforismo, per usare la forma corretta – è come un gesto abbozzato, una rapida stretta sul braccio per dire: sono qui, sono accanto a voi, anch’io finalmente voglio dirvi qualcosa, ma brevemente, anzi fulmineamente. Il tempo di pronunciare una parola ed essa già diventa ricordo, sogno di epoche preistoriche, pietra tombale o – chi può dirlo? – astronave per futuri e inimmaginabili mondi.
YB+AF: In una recente intervista ha dichiarato di scrivere aforismi fin dall’adolescenza. Come ha lavorato per selezionare quelli da pubblicare? È stata una scelta ardua?
RDP: Mi viene in mente una storiella che viene dall’Indonesia e che narra di un uomo qualsiasi, che scoprì un giorno di avere il cosiddetto “pollice verde”: riusciva senza fatica alcuna a coltivare i più bei fiori che si fossero visti nella sua regione. In poco tempo divenne una piccola personalità sull’isola di Sumatra. Quando tuttavia un ricco possidente gli chiese di lavorare per lui, e di abbellire coi fiori le sue ville di campagna, l’uomo respinse l’offerta e bruciò tutti i suoi campi. I suoi amici insorsero e gli chiesero se non avesse esagerato, se non fosse stato troppo frettoloso. Lui rispose laconico: “Precipitosa è la via della libertà”. Con tali parole definirei anche la mia selezione: precipitosa, ma senza serbarne alcun rimpianto o rimorso. Ho una collezione di aforismi che sfugge dal mio controllo: non potevo che agire con intuito, annusando le carte, e scegliere affidandomi alla fortuna. In alcuni frangenti ho usato un dado che mi è molto caro, l’icosaedro, quello con venti facce. Mi sono assai divertito.
YB+AF: Lei ha insegnato per tutta la vita, ma accanto all’attività scolastica ha coltivato una singolare passione per il collezionismo. Osvaldo Cravero, in un articolo sul “Corriere del Mezzogiorno”, l’ha definito «collezionista seriale e stravagante», citando fra l’altro il suo debole per i campanelli da bicicletta e i rastrelli da giardino. Nello stesso articolo, si racconta di come lei abbia instaurato l’usanza personale di bersi ogni giorno un caffè allo scoccare delle 10:10, senza eccezioni, tanto che in alcuni bar del suo quartiere si parla – anche in sua assenza – di “caffè De Pisis”. Che rapporto esiste fra queste sue “tradizioni” (private e pubbliche) e la sua scrittura?
RDP: Perdonatemi la debolezza, forse lievemente senile, di rispondervi ancora con le parole di uno dei miei maestri. Si tratta stavolta del grande scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila, il quale ebbe a dire: «Nessuno parla così chiaramente di sé stesso come chi parla d’altro». Non mi è facile discutere di me, dei miei vizi e delle mie abitudini. Il mio gusto per alcuni meravigliosi oggetti – che squillino felicità per le strade o che massaggino il suolo – è forse un tentativo di restare ancorato al qui e ora. Che volete, non ho la forza di entrare in un “social network”: sono intimorito dalla crescente smania di manifestare la propria opinione, come pure dalla tendenza a indulgere in una rabbiosa suscettibilità. Scrisse Gómez Dávila: «Maturare è veder crescere il numero di cose sulle quali sembra grottesco avere un’opinione, favorevole o contraria che sia». Se i miei giorni sono scanditi da piccoli, precisi rendez-vous, potrebbe essere un modo per compiere il mio desiderio di vivere la pienezza del presente. In altre parole: per sottrarmi al dominio delle opinioni, cerco di essere fedele ai piccoli gesti della mia e nostra vita quotidiana.

Alcuni aforismi tratti dal libro
(clicca qui per leggerli in pdf)

Ho vissuto un’adolescenza pleonastica.

La pace dei sensi è una guerra che si perde sempre.

«Il capitano affonda!» gridò la nave. «Si salvi chi può!»

Rileggendo il Furioso: Ingiustissimo Onor, perché si raro / corrispondenti fai nostri pensiri? / Onde, perfido, avvien che t’è sì caro / il concorde doler di due martíri?

Nidificare in un cespuglio sempreverde è come ingannare le stagioni, ma non renderà i tuoi pulcini né più forti, né più scaltri.

Ogni parola è sull’orlo dell’abisso.

Un giorno un androide si rese conto di quanto il suo proprietario invidiasse le sue conoscenze. E lo ebbe in pugno.

In indovino veritas?

Bisognerebbe affrontare la morte come si legge un romanzo di avventura.

Ah, il profumo profumato del bosco boscoso!

Amo gli ossimori concordi.

Le migliori conversazioni non sono altro che la punteggiatura del silenzio.

La casa non ha radici.

Era un uomo fedele ai suoi principi, proprio come un cane che finisce per affezionarsi alle proprie pulci.

Che l’inferno sia una lunga gita turistica?

Il bambino era convinto che la manza al pascolo fosse un montone, finché questa fece pipì. Talvolta la verità appare in forma di deiezione.

La rugiada è il pianto del gallo.

Nel salone cominciò il grande ballo. Violini, fruscii di seta, gentiluomini e damigelle audaci. Poco dopo la mezzanotte, in un angolo oscuro, una coppia si avvinghiò in un intenso, interminabile, appassionante selfie d’addio.

Talvolta le vecchie bugie vengono promosse a verità.

Prospettive future: l’uomo senza terra o la terra senza l’uomo. Nel dubbio, non resta che andare al mare.

Se una formica avesse un giorno coscienza di sé, continuerebbe a essere una formica?

L’intelligenza è il più spaventoso dei vizi.

Soltanto morendo s’impara a vivere. 

***

NB: Per questioni meramente giuridiche (legate ai diritti editoriali dell’opera), non siamo purtroppo autorizzati a pubblicare in questa sede la copertina del libro. Vi invitiamo a cercare il volume nelle librerie o nelle biblioteche.

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Il mistero della casa

LIBRI IMPOSSIBILI (FEBBRAIO)
#libriimpossibili2021 è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli

Lucio Costa, Casa mia, Ed. Spirito Giallo, 2020, 182 pagine

Quarta di copertina
«Un terribile omicidio viene commesso in una villa immersa nella campagna piemontese. La polizia è alle prese con un torbido intrigo di famiglia. Sembrano le premesse per una classica vicenda poliziesca, ma questa volta a raccontare la storia è un personaggio fuori dall’ordinario: la casa in cui è avvenuto il delitto. L’insolito punto di vista consente all’autore di sviluppare una trama ricca di colpi di scena e nello stesso tempo di scavare nella psicologia dei personaggi. Un lavoro di assoluta originalità nel panorama del nuovo giallo italiano e non solo».

Lucio Costa è nato a Sorengo nel 1994 ed è cresciuto a Lugano. Dopo il liceo, si è trasferito in Piemonte per gli studi in letteratura comparata e comunicazione. Attualmente vive a Torino, dove lavora come copywrighter. Casa mia, il suo esordio narrativo uscito nel 2020 per Spirito Giallo, è stato presentato da Luca Crovi nel quadro del Cureggio Noir Festival. Ne hanno parlato Nanni Canconi sul quotidiano “La Stampa” e Gianni Biondillo sul blog “Nazione Indiana”. Il romanzo sarà pubblicato in Francia dalla prestigiosa casa editrice Flammarion.

Tre domande all’autore

YB+AF: Lucio Costa, il primo aspetto che colpisce del suo romanzo è naturalmente la prospettiva narrativa, affidata dall’inizio alla fine agli “occhi” della casa in cui avviene l’omicidio dell’avvocato Pirello. Un approccio originale che crea anche una particolare suspense: alcuni avvenimenti restano sconosciuti al lettore per il semplice fatto che avvengono fuori casa, mentre altri dettagli minimi e quotidiani (e forse secondari ai fini della trama) vengono raccontati con grande dovizia. Come è giunto a questa scelta o “soluzione” narrativa?
LC: Stavo lavorando al romanzo con un punto di vista più tradizionale, ma avevo l’impressione di scrivere l’ennesimo giallo con il solito poliziotto, la scientifica e via discorrendo. In quel periodo stavo leggendo Here, una graphic novel di Richard McGuire in cui l’autore compie un esperimento narratologico dove una sola stanza di una casa viene mostrata in diverse epoche temporali, delineando una storia che procede dalla preistoria(prima che la casa venisse costruita, ma lo “spazio” già c’era) fino al 2111. Mi sono detto: è come se fosse la stanza a raccontare la storia! Allora ho impostato il romanzo diversamente, seguendo il flusso di una voce che è nello stesso tempo tutti i personaggi e nessuno di loro. La casa è il destino: il luogo della disperazione ma anche la tensione verso un ritorno, verso la pace. Scrivendo avevo in mente pure il capolavoro di Perec, La Vie, mode d’emploi, in cui vene rivelata per segmenti la vita di tutti gli abitanti di un palazzo. Nel mio romanzo la casa è la narratrice e, in un certo senso, anche la “persona” che compie l’indagine. In questo modo, seguendo l’ispirazione di Perec, ho cercato di raccontare non solo i fatti brutali del poliziesco, ma anche il flusso della quotidianità, quella che Perec chiamerebbe l’infra-ordinaire.
YB+AF: Nel romanzo ci sono effettivamente diversi riferimenti alla letteratura francese. La proprietaria della villa, per esempio, è una seguace della patafisica, la scienza dell’immaginario inventata da Alfred Jarry; le sentenze dell’anziana signora, sempre sul filo dell’assurdo, fanno da controcanto cinico alla narrazione, con molta ironia. Poi c’è Marcel Proust, con l’epigrafe tratta proprio dalla Ricerca del tempo perduto: «L’essere che sarò dopo la morte non ha maggior ragione di ricordarsi dell’uomo che io sono dalla mia nascita in poi di quanta ne abbia quest’ultimo di ricordarsi di ciò che sono stato prima di nascere» (dalla trad. di Maria Teresa Nessi Somaini)…
LC: La cultura francese ha cominciato ad affascinarmi all’università. Ho scoperto autrici e autori con cui ancora oggi trascorro molto del mio tempo. Della citazione in esergo non posso dire molto, visto che gioca un ruolo chiave nell’intera vicenda. Ma posso dire che a lungo ho riflettuto se aggiungere una seconda citazione di Perec, una frase che avevo stampato e tenuto accanto al computer durante i mesi di stesura del romanzo: «Vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male». Anche in questo caso, chi leggerà il libro capirà. Quanto alla patafisica, be’, è una delle cose più spassose che io conosca: non poteva mancare nel mio primo libro. È anche un modo per fare un passo indietro, non dimenticare che basta poco per prendersi troppo sul serio e credere di avere la verità in tasca. Errore imperdonabile, credo, per chi scrive.
YB+AF: Lei è nato e cresciuto nel Canton Ticino. Che rapporto sente di avere, oggi, con la Svizzera italiana? Cosa rappresenta questo territorio, per lei?
LC: Mia madre è svizzera (di Lucerna) e Lugano è la città in cui ho scoperto il mondo. Dopo il liceo mi sono trasferito a Torino. Da qualche anno anche i miei genitori abitano in Piemonte, ma i miei legami con la Svizzera italiana sono rimasti forti. In Ticino ho molti amici e infatti mi capita di tornare spesso. Inoltre il mio “imprinting” è segnato anche dagli scrittori ticinesi e dagli eventi culturali locali. Ricordo per esempio che in prima o seconda liceo, al festival “Tutti i colori del giallo”, conobbi le autrici Margherita Oggero, che è di Torino, ed Elisabetta Bucciarelli, che ho poi rivisto spesso in varie rassegne. Forse proprio in quell’occasione decisi che prima o poi avrei provato anch’io a scrivere un romanzo poliziesco.

Un estratto dal libro
(clicca qui per leggerlo in pdf)

[…]
– Non credo che sia in ufficio.
– Ma allora dov’è?
– Non lo so.
– Andiamo a vedere.
Il commissario Bardi e il suo subalterno uscirono dalla porta sul retro e ripresero a parlare, gesticolando, troppo lontani perché potessi sentirli o vederli.
E Anita? Rientrai dentro me stessa: la donna sedeva sulla poltrona del salotto, gli occhi cerchiati di stanchezza. Nella sua grigia disperazione insisteva a mostrarsi determinata, quasi gelida. “Sei lontana”, le aveva detto Marco prima di andare dal notaio. Si erano abbracciati senza enfasi. Io mi ero concentrata, avevo chiuso mentalmente tutte le finestre. Pensavo di cogliere almeno un segnale, un filo di complicità. Nulla: sembravano a un punto di non ritorno.
Ora Anita aveva rilassato le spalle e curvato leggermente la schiena. Lo sguardo però sempre immobile e teso. La polvere girava nel vuoto e pensai che per gli umani la morte arriva di colpo, come un pensiero involontario. Le maschere vengono a cadere. Le convenzioni e i sorrisi di facciata, così come le relazioni superflue, si accartocciano e prendono fuoco. Gli umani cambiano, muoiono, nascono, fanno tutto così in fretta. Non stanno mai fermi.
Anita si alzò. Sentii la carezza della luce obliqua che illuminava gran parte del salotto. Cominciava a essere tardi. La donna spostò i bicchieri e la brocca sul vassoio e portò tutto in cucina. Percepii il peso del suo passo, rigido come quello di un automa. Continuava a esibire indifferenza, anche ora che si muoveva sola nelle stanze silenziose. Passò due volte vicino allo stipite dove nemmeno tre giorni prima aveva trovato il cadavere dell’avvocato Pirello. Il “suo” avvocato, diceva Marco quando parlavano di lui.
Io mi rilassai. Feci un giro rapido dei locali, lasciandomi cullare dall’ultimo sole. Sentivo il calore sulle finestre e sulle tegole del tetto. Presto sarebbe tornata la gatta.
Poi suonarono alla porta.

[Dal capitolo III, pp. 56-57]

***

NB: Per questioni meramente giuridiche (legate ai diritti editoriali dell’opera), non siamo purtroppo autorizzati a pubblicare in questa sede la copertina del libro. Vi invitiamo a cercare il volume nelle librerie o nelle biblioteche.

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Questo sono io

Se avete qualche minuto di tempo, mi piacerebbe che andassimo insieme nella steppa asiatica, vicino all’avamposto occupato da un distaccamento dell’armata mongola. È il IV secolo avanti Cristo ed è un giorno come tutti gli altri. Raffiche di vento, odore di cuoio, di cavalli. Gli ordini secchi dei comandanti, i colpi di un martello. Un gruppo di soldati sta giocando a dadi, ai margini dell’accampamento, mentre due cani si azzuffano poco più in là. Lentamente il sole si arrampica nel cielo finché, all’inizio del pomeriggio, si staglia all’orizzonte un gruppo di uomini a cavallo.
Un fermento corre nella truppa… oggi non è più un giorno come tutti gli altri. Da mesi i soldati non vengono pagati, ma finalmente sono arrivati i soldi. Gli uomini si mettono in fila e il tesoriere, con fare solenne, consegna a ognuno di loro una moneta d’argento. Tutti ridono, si danno pacche sulle spalle. 
Un soldato basso, di corporatura robusta, si allontana senza dire niente. Dimostra quarant’anni e il volto, segnato dalla fatica, ha dei tratti occidentali. I suoi compagni, pur rispettandolo, ne hanno un certo timore, forse perché è mancino o perché ha gli occhi di due colori diversi: uno azzurro e l’altro nero. Fissando il soldo d’argento, il soldato prende a borbottare fra sé. Avviciniamoci, senza far rumore, e tendiamo l’orecchio. «Sono io – mormora con voce rotta. – Questo sono io.» Si rigira la moneta fra le mani. «Io ho fatto coniare questa moneta per celebrare una vittoria su Dario, quand’ero Alessandro di Macedonia.»

Questa piccola gita asiatica è ispirata a The Clipped Stater, una poesia di Robert Graves. Il poeta britannico immagina che Alessandro Magno non sia morto a Babilonia nel giugno del 323 avanti Cristo. Dopo una battaglia il condottiero era rimasto separato dall’esercito. Confuso, smarrito, a lungo vagò per una foresta e in seguito attraversò fiumi e montagne. Jorge Luis Borges, che amava questa leggenda, racconta che un giorno Alessandro «scorge i fuochi di un accampamento. Uomini dagli occhi obliqui e di carnagione gialla lo accolgono, lo salvano e infine lo arruolano nel loro esercito. Fedele al suo destino di soldato, partecipa a lunghe campagne nei deserti di una geografia che ignora.» Solo il giorno della paga Alessandro ritrova la sua identità. O meglio, riconosce una vicinanza fra l’uomo della moneta e l’uomo arruolato nell’esercito mongolo. È realmente la stessa persona?

La vita è un lungo moltiplicarsi. Se mi volgo indietro, se immagino il futuro, scorgo una quantità di Andrea diversi. Alcuni mi osservano con stupore infantile, altri sono disillusi, addolorati, malinconici, altri ancora mi offrono saggezza e perfino lampi di felicità. Ogni volta, con diffidenza prima e poi con meraviglia, mi convinco che siamo la stessa persona: quel che avevo di buono nell’infanzia non è perduto, anche se talvolta si nasconde ai miei occhi offuscati.
Anche scrivendo, e qui la faccenda si complica, m’interrogo sull’identità dei miei personaggi. È appena uscito per l’editore Casagrande il romanzo Le vacanze di Studer, che ho scritto a quattro mani con l’autore svizzero Fredrich Glauser. A quattro mani per modo di dire, visto che Glauser visse tra il 1896 e il 1938… In realtà l’editore ha fatto tradurre alcuni frammenti di un romanzo inedito, ambientato nel Canton Ticino, a cui Glauser stava lavorando prima di morire.

Glauser aveva abbozzato una trama: nel 1921 il sergente Studer, della Polizia cantonale bernese, sta trascorrendo una vacanza ad Ascona quando s’imbatte in un misterioso omicidio avvenuto nei ditorni del Monte Verità. La storia si muove tra ambienti sociali diversi: i commercianti e i pescatori di Ascona, gli artisti del Monte Verità, i primi turisti attirati dal Lago Maggiore. 
All’inizio ho faticato a trovare il passo, forse per soggezione. Leggo Glauser da quando sono ragazzo e lo ammiro per lo stile, per la capacità di evocare un’atmosfera, per la maestria con cui usa il genere poliziesco. Il suo obiettivo non era costruire un indovinello intorno a un cadavere e nemmeno titillare i lettori con scene morbose; al contrario, Glauser desiderava portare i lettori «in piccole stanze che non hanno mai visto», mettendo in scena personaggi memorabili. Il sergente Studer, creato negli anni Trenta, è protagonista di parecchi racconti e romanzi. Il suo metodo è molto simile a quello del commissario Maigret di Simenon, e consiste proprio nel non avere un metodo. Studer si muove con passo lento, parla con le persone, s’impregna degli odori, dei sapori, dei pensieri altrui.
Per superare le mie difficoltà, ho deciso di condividerle. Insieme alla storia, nella quale metto in scena Studer, ho narrato anche il modo in cui ho affrontato questa sfida. Mi ha aiutato il fatto che lo stesso Studer si trova in difficoltà, perché deve muoversi in un ambiente che non è il suo. Il Ticino è assai diverso da Berna e il poliziotto, con il suo dialetto svizzero tedesco, si sente impacciato, lontano dalla realtà. Questa condizione lo conduce a interrogarsi sul suo ruolo d’investigatore, ma non solo. A un certo punto, di fronte a una bambina appena nata, Studer vive un momento di vertigine.

«Studer sbirciò la bambina. I suoi occhi azzurri, sgranati, parevano intenti a osservare un mondo invisibile a tutti [gli adulti presenti]. Ad un tratto Studer ebbe nostalgia di quella vastità, di quella meraviglia. Un giorno anche lui aveva conosciuto la tenerezza e l’abbandono di chi si aspetta qualcosa dalla vita; di certo anche il piccolo Köbu, fra le rassicuranti strade di Berna, aveva fissato una fontana, un geranio, una carrozza, un ciuffo d’erba o un ciottolo, e forse li aveva visti per ciò che sono realmente. Chi ne sapeva di più? Il piccolo Köbu o lo smaliziato sergente Jakob Studer, della Polizia cantonale di Berna?»

È la stessa domanda: quella di Alessandro il Grande, quella di Studer, quella di tutti noi. Questi interrogativi giungono spesso nei momenti difficili, quando ci sembra di essere lontani dalla realtà, così come accade a Studer. Il mio augurio per Natale è che, anche in tempi segnati dalla crisi (sanitaria, economica, esistenziale…), sappiamo ritrovare il senso del passato e la speranza nel futuro, con la coscienza che entrambi non esistono se non ancorati nel presente, con tutte le sue ombre. Sembra contorto, «eppure – come scrive Glauser – la faccenda è naturale se non addirittura misteriosa, proprio come il fatto che un melo che si credeva seccato incominci d’un tratto a fiorire.»

PS: Buon Natale alle lettrici e ai lettori di questo blog!

PPS: Il romanzo Le vacanze di Studer. Un poliziesco rirovato (Casagrande 2020) è uscito in anteprima nella Svizzera italiana. A partire da gennaio sarà disponibile in tutte le librerie.

PPPS: La poesia The Clipped Stater di Robert Graves (1895-1985) venne pubblicata per la prima volta nel volume Welchman’s Hose, The Fleuron Press, London 1925. Si trova in numerose antologie e anche in The complete poems, Penguin Modern Classics, London 2003. Jorge Luis Borges (1899-1996) ne parlò in due racconti brevi. Il primo, Un mito de Alejandro, si trova nella raccolta Cuentos breves y extraordinarios (1955), scritta con Adolfo Bioy Casares e tradotta da T. Scarano con il titolo Racconti brevi e straordinari, Adelphi, Milano 2020; il secondo, Graves a Deyá, si trova nella raccolta Atlas(1984), tradotta da D. Porzio e H. Lyria con il titolo di Atlante in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985. Nell’articolo ho citato frasi da entrambe le versioni. Inoltre, Borges raccontò questa «favola tanto bella che meriterebbe di essere antica»in alcune conferenze e dialoghi (si veda per esempio l’intervista del 9 dicembre 1985 con Armando Verdiglione, pubblicata in Una vita di poesia, Spirali, Milano 1986).

PPPPS: La fotografia della moneta d’argento e quella che ritrae Glauser sono prese da internet. Purtroppo le dimensioni delle fotografie potrebbero risultare troppo grandi o troppo piccole, a seconda del supporto su cui leggete l’articolo. O magari invece saranno perfette. Sto riscontrando qualche problema tecnico che spero di risolvere al più presto.

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Baci e abbracci!

CARTOLINE (LUGLIO)

“Cartoline” (#cartoline2020) è un progetto ideato e scritto da Yari Bernasconi e Andrea Fazioli.

CARTOLINA NUMERO 25
Da Imladris (Gran Burrone), Terra di mezzo
È strano scriverti da qui. Tutto è silenzio malgrado i suoni, che sembrano fondersi con lo spazio e il tempo. L’armonia è in ogni cosa e la Natura va scritta con la “n” maiuscola, e significa beninteso molto di più di quanto riusciamo a immaginare. C’è qualcosa di ciclico e al tempo stesso immobile. Non si può che stare bene, penserai, in questa pace sospesa, ma continuiamo a muoverci irrequieti e nervosi. Parliamo poco, perché c’è poco da dire, ma sentiamo che questa «Casa Accogliente» appartiene a qualcun altro. I nostri sguardi continuano in segreto a guardare verso sud, verso le Montagne Nebbiose. Certo è un peccato non godersi questo luogo unico. Forse siamo troppo, dannatamente vivi per riuscirci.

CARTOLINA NUMERO 26
Da Paradeplatz, Zurigo, Svizzera

Baci e abbracci da Paradeplatz! Non è la prima volta che ci fermiamo da queste parti. Abbiamo infatti costruito due case, una per uno, e ci piacerebbe tirare su un albergo. Ma chi lo sa? Da un minuto all’altro un colpo di dadi potrebbe condurci altrove, magari sul tram numero 13, capolinea Frankental. Oppure direttamente in prigione senza passare dallo Start.

CARTOLINA NUMERO 27
Da un pozzo nel deserto
Aman iman, dicono i Tuareg. L’acqua è la vita. Dopo un lungo viaggio abbiamo avvistato un segno, qualcosa che in lontananza sembrava enorme – una torre altissima – e che da vicino era un cumulo di sassi intorno a un pozzo. Aman iman: a pensarci, era davvero qualcosa di enorme. I Tuareg raccontano la storia di due viaggiatori che arrivano a un pozzo parzialmente ostruito. Uno dei due, impaziente, abbevera il dromedario, riempie la borraccia e riparte. L’altro si ferma, rimuove le pietre, riesce a calarsi nel pozzo. Dopo qualche metro trova dell’acqua più buona di quella che affiorava alla superficie. Ma c’è un ingombro di materiali. A questo punto, l’uomo s’interroga: devo accontentarmi di questo rivolo o devo scavare ancora, rischiando e faticando, per cercare un’acqua più fresca, più abbondante, più pura? Per un po’ siamo rimasti, tentando di scavare, di scrivere più a fondo. Ma il viaggio deve proseguire: nuovi giorni di polvere e di piste scavate nell’arsura. Abbiamo infine raggiunto una grande oasi, dove crescevano legumi, cereali, arance e pompelmi. Una cascata riempiva un bacino di pietra e il miracolo dell’acqua faceva fiorire la vita intorno. Dopo qualche giorno, ancora, siamo ripartiti. Abbiamo camminato nell’assenza, nella sete, nel desiderio, fino a un altro cumulo di sassi intorno a poche stille d’acqua. Assägaru änuwän: è sempre il pozzo il luogo del ritorno.

CARTOLINA NUMERO 28
Da Chicago, Illinois, Stati Uniti
I grattacieli, il blues e l’area metropolitana di quasi dieci milioni di abitanti rivelano quello che ci si può attendere a Chicago. È una gioia, un trionfo per le guide turistiche che celebrano la Windy City e le sue highlights: l’architettura, i concerti, la sopraelevata del Loop, i musei, la deep-dish pizza, per non parlare di uno degli skyline più famosi e mozzafiato del mondo. Poi però ci siamo persi negli andirivieni della metropolitana e ci siamo ritrovati in riva al lago Michigan, noi, avvezzi ai laghi prealpini che s’incuneano sì fin dentro le viscere della Terra, ma alla luce del sole offrono piccoli e rassicuranti specchi d’acqua. Il Michigan invece è più vasto del cielo: se rimani a guardarlo per un po’ assorbe tutto. Anche il nostro fugace e infinitesimo riflesso.

PS: Potete leggere qui le prime quattro cartoline. Le successive: qui dalla 5 alla 8, qui dalla 9 alla 12, qui dalla 13 alla 16, qui dalla 17 alla 20 e qui dalla 21 alla 24.

PPS: La cartolina numero 25 fa riferimento alla geografia creata dallo scrittore britannico John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), autore fra l’altro dei celebri Lo hobbit e Il Signore degli Anelli. La cartolina è un’immagine realizzata dallo stesso Tolkien.

PPPS: La cartolina numero 26 invece fa riferimento alla versione svizzera del gioco Monopoly: “Zürich Paradeplatz” è la destinazione più prestigiosa (e più costosa).

PPPPS: La fotografia della cartolina numero 27 ritrae la cascata di Timia, nel massiccio dell’Aïr, in Niger. Ringraziamo Kane Annour Ibrahim per l’immagine e per l’ispirazione. Ricordiamo che lo stesso Ibrahim ha scritto insieme a Elisa Cozzarini il libro Il deserto negli occhi (nuovadimensione 2013), in cui racconta la sua vita e il suo viaggio dal Sahara all’Europa.

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